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un
medesimo
regime
cautelare
delle
diverse
ipotesi
concrete
riconducibili
ai
paradigmi
punitivi
considerati;
con
l’art.
13,
primo
comma,
Cost.,
quale
referente
fondamentale
del
regime
ordinario
delle
misure
privative
della
libertà
personale;
con
l’art.
27,
secondo
comma,
Cost.,
per
l’attribuzione
alla
coercizione
cautelare
di
tratti
funzionali
tipici
della
pena.
La
Corte
rimettente
ritiene
opportuno,
per
completezza
argomentativa,
sottolineare
che
analoghe
considerazioni
potrebbero
valere
anche
con
riferimento
alla
forma
aggravatrice
del
c.d.
“metodo
mafioso”
(profilo
non
contestato
all’imputato),
posto
che
la
presunzione
di
adeguatezza
della
custodia
cautelare
in
carcere
per
un
reato
così
aggravato
comporterebbe
una
parificazione
tra
chi
abbia
aderito
ad
un’associazione
prevista
dall’art.
416-‐bis
cod.
pen.
e
chi
invece,
senza
appartenere
ad
essa,
abbia
inteso
approfittare
della
condizione
di
assoggettamento,
dalla
medesima
creato,
per
portare
più
efficacemente
a
compimento
il
proprio,
specifico,
proposito
criminoso.
6.–
Nel
giudizio
di
legittimità
costituzionale
è
intervenuto
il
Presidente
del
Consiglio
dei
ministri,
rappresentato
e
difeso
dall’Avvocatura
generale
dello
Stato;
anche
l’imputato
nel
giudizio
principale
si
è
costituito
con
atto
depositato
dai
propri
difensori.
6.1.–
L’Avvocatura
dello
Stato
ha
chiesto
che
la
questione
sia
dichiarata
non
fondata
e
ha
richiamato
l’ordinanza
di
questa
Corte
n.
450
del
1995.
Questa
ordinanza,
infatti,
ricorda
l’Avvocatura,
ha
escluso
che
la
presunzione
in
questione
violasse
gli
artt.
3,
13,
primo
comma,
e
27,
secondo
comma,
Cost.,
sottolineando
che
a
favore
della
ragionevolezza
della
soluzione
adottata
deponeva
la
delimitazione
della
norma
all’area
dei
delitti
di
criminalità
organizzata
di
tipo
mafioso,
tenuto
conto
del
coefficiente
di
pericolosità
per
le
condizioni
di
base
della
convivenza
e
della
sicurezza
collettiva
connaturato
a
tali
illeciti.
La
ratio
decidendi
dell’ordinanza
n.
450
del
1995
sarebbe
idonea
a
giustificare
la
presunzione
di
adeguatezza
della
misura
della
custodia
cautelare
anche
per
i
delitti
caratterizzati
dall’evocazione
dell’esistenza
di
un’associazione
di
tipo
mafioso,
reale
o
supposta,
ovvero
connotati
dal
fine
di
agevolare
le
attività
delle
associazioni
previste
dall’art.
416-‐bis
cod.
pen.
6.2.–
La
difesa
dell’imputato
nel
giudizio
principale
ha
chiesto
l’accoglimento
della
questione
di
legittimità
costituzionale
sollevata
dalla
Corte
di
cassazione.
Le
cadenze
procedimentali
della
specifica
vicenda,
nella
quale
l’originaria
imputazione
di
partecipazione
ad
associazione
mafiosa,
formulata
nei
confronti
dell’imputato,
era
stata
“derubricata”
in
favoreggiamento
aggravato
a
norma
dell’art.
7
del
decreto-‐ legge
n.
152
del
1991,
si
presterebbero
bene
allo
scrutinio
di
costituzionalità
dello
sfavorevole
automatismo
cautelare
in
questione
perché,
a
seguito
della
sentenza
di
primo
grado,
l’imputato
doveva
essere
considerato
a
tutti
gli
effetti
«estraneo
alla
compagine
associativa
mafiosa,
con
radicale
ridimensionamento
dell’ipotesi
accusatoria
iniziale
e
delle
relative
esigenze
cautelari,
sicché
la
“presunzione
assoluta
di
adeguatezza”
della
più
grave
misura
cautelare
–
nel
caso
di
specie
–
è
rimasta
affidata
esclusivamente
alla
finalità
della
condotta
enunciata
nell’aggravante
ritenuta
in
sentenza».
Richiamate
alcune
decisioni
della
giurisprudenza
costituzionale,
la
difesa
dell’imputato
sottolinea
le
condizioni
che,
in
materia,
consentono
l’estrinsecarsi
in
termini
non
irragionevoli
della
discrezionalità
legislativa
e
rileva
che
«la
presunzione
non
deve
lasciare
spazio
a
facili
confutazioni
della
“generalizzazione”
su
cui
si
fonda»,
mentre
ciò
si
verificherebbe
«nei
casi
in
cui
il
fine
di
agevolare
l’associazione
mafiosa
(formalizzata
o
meno
nell’aggravante
di
cui
all’art.
7
d.l.
n.
152
del
1991)
caratterizzi
condotte
di
assai
modesto
rilievo
criminale».
La
giustificazione
dell’eccezione
alla
regola
individuata
dalla
giurisprudenza
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