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quasi
esclusivamente
per
anzianità,
sia
per
l'inefficacia
della
responsabilità
disciplinare
rimessa
alla
negoziazione
correntizia,
cui
si
è
cercato
invano
di
far
fronte
in
sede
di
revisione
costituzionale,
con
la
proposta
di
sorteggiare
i
componenti
del
Consiglio
superiore
della
magistratura.
La
peculiarità
dell'esperienza
italiana,
caratterizzata
dal
fatto
che,
sul
tradizionale
modello
burocratico,
si
sono
innestate,
quale
reazione
all'esperienza
del
ventennio
fascista,
accentuate
forme
di
autonomia
dell'ordine
giudiziario
dal
potere
esecutivo,
opportunamente
consacrate
nella
Costituzione,
ha
fatto
sì
che
il
nostro
magistrato
di
formazione
burocratica,
ma
con
inusitate
autonomia
ed
indipendenza
dall'Esecutivo,
continuamente
aspiri
ad
un
modello
professionale,
dimenticando
che
ben
diversa
è
nei
Paesi
di
common
law
la
sua
legittimazione.
Ciò
si
riflette
anche
sul
tema
della
responsabilità
civile,
perché
aspirare
ad
un
modello
professionale
significa
aspirare
alla
irresponsabilità
civile
del
giudice
anglosassone,
privando
totalmente
di
considerazione
sistemica
l'aspetto
della
tutela
del
cittadino
dagli
effetti
dell'attività
giurisdizionale.
Si
tratta
di
un
profilo
che
una
componente
importante
della
società
italiana,
visti
i
disservizi
del
sistema
giustizia
accumulatisi
nei
decenni,
richiede
di
affrontare
con
decisione.
Lo
fece
l'iniziativa
referendaria
del
1987,
avanzata
dal
Partito
radicale,
dal
Partito
liberale
italiano
e
dal
Partito
socialista
italiano.
Grazie
ad
essa
20
milioni
di
sì
consentirono
l'abrogazione
degli
articoli
55,
56
e
74
del
codice.
Come
talvolta
accade
dopo
le
grandi
vittorie,
gli
eserciti
vincitori
si
sparpagliano:
i
radicali
ritennero
che
abolire
quella
disciplina
derogatoria
del
codice
fascista
significava
ripristinare
la
regola
generale
della
responsabilità
diretta
(quella
professionale
di
diritto
comune
o
comunque
quella
dei
pubblici
dipendenti,
di
cui
all'articolo
28
della
Costituzione).
Gli
altri
promotori
ritennero
invece
che
il
quesito
fosse
imposto
dalla
natura
solo
abrogativa
del
referendum,
ma
che
l'elettorato
intendesse
soltanto
aprire
la
strada
ad
un
altro
tipo
di
responsabilità.
Un'iniziativa
in
proposito
era
sul
tavolo
già
dalla
precedente
legislatura:
mi
riferisco
all'Atto
Senato
n.
2138
della
IX
legislatura,
approvato
dal
Consiglio
dei
ministri
del
29
dicembre
1986
presieduto
dall'onorevole
Craxi
e
presentato
dal
Ministro
di
grazia
e
giustizia,
onorevole
Rognoni,
di
concerto
con
i
Ministri
del
bilancio
e
della
programmazione
economica
onorevole
Romita
e
del
tesoro,
onorevole
Goria,
sul
quale
era
stata
avviata
la
discussione
in
Commissione
giustizia
al
Senato.
Unificando
una
serie
di
disegni
parlamentari,
sotto
la
sapiente
guida
del
nuovo
Ministro
della
giustizia
Giuliano
Vassalli,
quella
traccia
fu
sviluppata
per
coordinare
il
principio
contenuto
nell'articolo
28
della
Costituzione
con
gli
altri
principi
di
pari
valenza
costituzionale.
Con
quella
che
divenne
la
legge
n.
117
del
1988
si
stabilisce
che
chi
ha
subito
un
danno
ingiusto
in
dipendenza
di
dolo
o
colpa
grave,
commesso
dal
magistrato
nell'esercizio
delle
sue
funzioni,
ha
diritto
di
essere
risarcito
dallo
Stato,
previo
giudizio
di
ammissibilità,
e
che
poi
ci
possa
essere
la
rivalsa
da
parte
dello
Stato
che
sia
stato
condannato
al
risarcimento
del
danno
nei
confronti
del
magistrato.
All'articolo
2
del
comma
2
si
stabilisce
che
non
può
dar
luogo
a
responsabilità
per
danno
l'attività
d'interpretazione
del
diritto,
di
ricostruzione
o
valutazione
del
patto.
Si
tratta
della
cosiddetta
clausola
di
salvaguardia
che
ha
consentito
ad
un
Consiglio
superiore
della
magistratura
in
composizione
incompleta
-‐
e
contestata
nella
sua
legittimità
da
almeno
due
ricorsi
giurisdizionali
-‐
di
affermare
che
l'istituto
della
responsabilità
civile
non
può
essere
utilizzato
per
mettere
pressione
ai
magistrati
al
fine
di
aumentare
la
diligenza
del
singolo
e
la
qualità
della
giurisdizione.
In
proposito,
mi
preme
sviluppare
alcune
limitatissime
considerazioni.
In
via
preliminare
rivendico,
dalla
mia
parte
politica,
la
convinzione
secondo
cui
la
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