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responsabilità
civile
del
giudici
è
deterrente
-‐
storicamente
individuato
dall'opinione
garantista
del
nostro
Paese
-‐
per
responsabilizzare
i
protagonisti
del
sistema
giustizia.
Fu
una
parte
politica
sconfitta
dalla
storia
del
Novecento
ad
affermare
invece
che,
contrariamente
alla
realtà,
il
referendum
promosso
sugli
articoli
55,
56
e
74
del
codice
di
procedura
penale
enfatizza
il
significato
di
questo
tipo
di
responsabilità,
attribuendo
all'insufficienza
degli
attuali
criteri
l'origine
della
crisi
della
giustizia.
Questa
è
una
visione
angusta
della
politica
della
giustizia
incentrata
sull'idea
anticipata
che
attraverso
la
minaccia
della
sanzione
si
possano
ottenere
ordine
e
funzionalità
(vedi
relazione
al
disegno
di
legge
n.
434
della
X
legislatura
di
iniziativa
del
senatore
Pecchioli
e
di
altri
senatori).
Anche
oggi,
la
sfida
della
modernità
mette
pressione
al
Paese:
c'è
chi
non
vuole
che
si
incrementi
la
qualità
del
servizio
giustizia
con
la
minaccia
di
pagare
danni.
Peccato
che
questa
minaccia
funzioni
da
sempre
per
i
medici
e
gli
ingegneri
che
dispongono
solo
di
organi
di
governo
autonomo
del
loro
ordine
professionale.
La
magistratura
vanta
invece
un
organo
di
autogoverno
e
mi
pare
che
oggi
si
possa
apprezzare
come
la
differenza
non
sia
di
poco
conto.
Mi
riferisco
alla
diversità
tra
gli
organi
di
governo
degli
organi
professionali
e
l'organo
di
autogoverno
della
magistratura.
In
secondo
luogo,
non
si
può
rimettere
al
principio
dispositivo
-‐
cioè,
in
definitiva,
alla
disponibilità
di
mezzi
del
soccombente,
per
proseguire
contro
una
sentenza
ingiusta
fino
in
ultimo
grado,
nonché
ai
mille
esiti
non
satisfattivi
che
possono
derivare
da
acquiescenze
indotte
o
incaute
-‐
l'affermazione
del
diritto
oggettivo,
la
cui
unità
e
uniformità
è
un
valore
assoluto
secondo
l'articolo
76
dell'ordinamento
giudiziario.
Paradossalmente
l'intangibilità
della
valutazione
del
giudice
è
più
spiegabile
per
la
ricostruzione
del
patto,
visto
che
l'ordinamento
esclude
un
quarto
grado
di
giudizio.
Ma
per
l'interpretazione
del
diritto,
lo
Stato
ha
il
dovere
di
offrire
certezze
al
cittadino,
al
di
là
di
ogni
pluralità
dei
giudici
e
dei
mille
possibili
cavilli
che
gli
possono
impedire
di
addivenire
in
tempo
alla
sede
massima
e
finale,
le
sezioni
unite
della
Cassazione.
Ecco
perché
il
disegno
di
legge
Atto
Senato
n.
1070
aggiungeva,
alle
più
o
meno
condivise
proposte
di
snellimento
procedurale
del
meccanismo
della
rivalsa,
anche
l'introduzione
della
regola
dell'osservanza
del
precedente,
esistente
in
molti
altri
ordinamenti
ad
elevata
componente
pretoria
nell'interpretazione
del
diritto.
Si
tratta
dell'esplicitazione
delle
enunciazioni
del
Comitato
dei
saggi
investito,
nella
primavera
del
2013,
dal
capo
dello
Stato
Giorgio
Napolitano
in
ordine
alle
più
urgenti
e
condivise
prospettive
di
riforma
del
nostro
ordinamento.
Si
sollecitava
quanto
segue:
«Si
propone
di
rafforzare,
mediante
interventi
regolatori,
l'autorità
dei
precedenti
provenienti
dalle
giurisdizioni
superiori
e
gli
obblighi
di
motivazione
in
caso
di
scostamento
da
interpretazioni
consolidate».
Ma
anche
in
questo
caso
(come
già
in
quello
del
messaggio
alle
Camere
sulle
carceri),
al
formale
ossequio
verso
il
Quirinale
non
ha
corrisposto
analoga
volontà
di
fronteggiare
il
nocciolo
delle
sue
preoccupazioni.
Prendo
atto,
di
conseguenza,
di
questa
carenza
di
convergenza
sulla
proposta
e
sul
punto,
quindi,
non
ripresenterò
la
mia
proposta.
Preannuncio
pertanto,
fin
da
adesso,
che
gli
emendamenti
che
erano
stati
presentati
sull'argomento
sono
stati
ritirati
dal
relatore.
Comunque,
che
l'applicazione
della
legge
del
1988
non
corrispondesse
alle
attese
dell'opinione
pubblica
e
al
precetto
standard
richiesto
insistentemente
dalla
Corte
europea
dei
diritti
dell'uomo
(secondo
cui
il
giudice
non
deve
solo
essere
imparziale,
ma
anche
apparirlo)
fu
chiaro
fin
da
subito,
tanto
da
far
dire
a
molti
che
la
legge
era
violata
dai
comportamenti
ispirati
alla
regola
del
branco
per
cui
«cane
non
morde
cane».
Piuttosto
che
dimostrare
che
la
sua
capacità
di
isolare
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