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presunzione.
Non
vi
sarà
luogo,
in
ogni
caso,
ad
esporre
quanto
ordinariamente
richiesto
dalla
seconda
parte
delle
lettere
c)
e
c-‐bis)
dell’art.
292,
comma
2,
cod.
proc.
pen.,
rimanendo
irrilevante,
a
fronte
dell’apprezzamento
legale,
l’eventuale
convinzione
del
giudice
che
le
esigenze
cautelari
possano
essere
concretamente
soddisfatte
tramite
una
misura
cautelare
meno
incisiva
di
quella
“massima”.
Tali
marcati
profili
di
scostamento
rispetto
al
regime
ordinario
avevano
indotto
il
legislatore
–
nell’ambito
di
un
più
generale
disegno
di
recupero
delle
garanzie
in
materia
di
misure
cautelari
–
a
delimitare
in
senso
restrittivo
il
campo
di
applicazione
della
disciplina
derogatoria,
costituente
un
vero
e
proprio
regime
cautelare
speciale
di
natura
eccezionale.
Riferito,
ai
suoi
esordi,
ad
una
nutrita
e
disparata
serie
di
figure
criminose,
il
regime
speciale
era
stato
infatti
circoscritto
–
a
partire
dal
1995,
come
dianzi
ricordato
–
ai
soli
procedimenti
per
delitti
di
mafia
in
senso
stretto
(art.
5,
comma
1,
della
citata
legge
n.
332
del
1995).
In
tali
limiti,
la
previsione
aveva
superato
il
vaglio
tanto
di
questa
Corte
che
della
Corte
europea
dei
diritti
dell’uomo.
Entrambe
le
Corti
avevano,
infatti,
in
vario
modo
valorizzato
la
specificità
dei
predetti
delitti,
la
cui
connotazione
strutturale
astratta
(come
reati
associativi
e,
dunque,
permanenti
entro
un
contesto
di
criminalità
organizzata,
o
come
reati
a
tale
contesto
comunque
collegati)
valeva
a
rendere
«ragionevoli»
–
nei
relativi
procedimenti
–
le
presunzioni
in
questione,
e
segnatamente
quella
di
adeguatezza
della
sola
custodia
carceraria,
trattandosi,
in
sostanza,
della
misura
più
idonea
a
neutralizzare
il
periculum
libertatis
connesso
al
verosimile
protrarsi
dei
contatti
tra
imputato
ed
associazione.
In
particolare,
con
l’ordinanza
n.
450
del
1995,
questa
Corte
aveva
escluso
che
la
presunzione
in
parola
violasse
gli
artt.
3,
13,
primo
comma,
e
27,
secondo
comma,
Cost.,
rilevando
che
se
la
verifica
della
sussistenza
delle
esigenze
cautelari
(«l’an
della
cautela»)
non
può
prescindere
da
un
accertamento
in
concreto,
l’individuazione
della
misura
da
applicare
(«il
quomodo»)
non
comporta
indefettibilmente
l’affidamento
al
giudice
di
analogo
potere
di
apprezzamento,
potendo
la
scelta
essere
effettuata
anche
in
termini
generali
dal
legislatore,
purché
«nel
rispetto
del
limite
della
ragionevolezza
e
del
corretto
bilanciamento
dei
valori
costituzionali
coinvolti»
(in
senso
analogo,
sul
punto,
ordinanze
n.
130
del
2003
e
n.
40
del
2002).
Nella
specie,
deponeva
nel
senso
della
ragionevolezza
della
soluzione
adottata
«la
delimitazione
della
norma
all’area
dei
delitti
di
criminalità
organizzata
di
tipo
mafioso»,
tenuto
conto
del
«coefficiente
di
pericolosità
per
le
condizioni
di
base
della
convivenza
e
della
sicurezza
collettiva
che
agli
illeciti
di
quel
genere
è
connaturato».
A
sua
volta,
la
Corte
di
Strasburgo
–
pronunciando
su
un
ricorso
volto
a
denunciare
l’irragionevole
durata
della
custodia
cautelare
in
carcere
applicata
ad
un
indagato
per
il
delitto
di
cui
all’art.
416-‐bis
cod.
pen.
e
la
conseguente
violazione
dell’art.
5,
paragrafo
3,
della
Convenzione
europea
per
la
salvaguardia
dei
diritti
dell’uomo
–
non
aveva
mancato
di
rilevare
come
una
presunzione
quale
quella
prevista
dall’art.
275,
comma
3,
cod.
proc.
pen.
potesse,
in
effetti,
«impedire
al
giudice
di
adattare
la
misura
cautelare
alle
esigenze
del
caso
concreto»
e,
dunque,
«apparire
eccessivamente
rigida».
Nondimeno,
secondo
la
Corte
europea,
la
disciplina
in
esame
rimaneva
giustificabile
alla
luce
«della
natura
specifica
del
fenomeno
della
criminalità
organizzata
e
soprattutto
di
quella
di
stampo
mafioso»,
e
segnatamente
in
considerazione
del
fatto
che
la
carcerazione
provvisoria
delle
persone
accusate
del
delitto
in
questione
«tende
a
tagliare
i
legami
esistenti
tra
le
persone
interessate
e
il
loro
ambito
criminale
di
origine,
al
fine
di
minimizzare
il
rischio
che
esse
mantengano
contatti
personali
con
le
strutture
delle
organizzazioni
criminali
e
possano
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