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cod.
proc.
pen.),
non
come
criterio
di
scelta
sul
“se”
e
sulla
“specie”
della
misura.
Un
giudizio
di
gravità
può
essere
legittimato,
in
determinate
prospettive,
solo
sul
fatto
concreto
oggetto
del
procedimento
(ad
esempio,
artt.
274,
comma
1,
lettera
c,
e
275,
comma
2,
cod.
proc.
pen.)
e
in
via
generale
è
richiesto,
come
condizione
di
applicazione
delle
misure,
sugli
indizi
a
carico:
è
la
cosiddetta
gravità
indiziaria
prevista
dall’art.
273,
comma
1,
dello
stesso
codice.
Si
tratta,
peraltro,
di
condizione
necessaria,
ma
non
sufficiente,
dovendo
la
gravità
indiziaria
sempre
accompagnarsi
ad
esigenze
cautelari,
specificamente
individuate
dalla
legge,
legate
alla
tutela
dell’acquisizione
o
della
genuinità
della
prova,
al
pericolo
di
fuga
dell’imputato
ovvero
al
rischio
di
commissione
di
gravi
reati
o
di
reati
della
stessa
specie
di
quello
per
cui
si
procede
(art.
274
cod.
proc.
pen.).
In
accordo
con
il
modello
sopra
indicato,
viene
altresì
tipizzato
un
“ventaglio”
di
misure,
di
gravità
crescente
in
relazione
all’incidenza
sulla
libertà
personale:
divieto
di
espatrio
(art.
281),
obbligo
di
presentazione
alla
polizia
giudiziaria
(art.
282),
allontanamento
dalla
casa
familiare
(art.
282-‐ bis),
divieto
e
obbligo
di
dimora
(variamente
modulabile
quanto
ai
tempi
e
ai
limiti
territoriali:
art.
283),
arresti
domiciliari
(variamente
modulabili
anche
in
luoghi
diversi
dall’abitazione
propria
del
soggetto,
vale
a
dire
in
altri
luoghi
privati
o
in
luoghi
pubblici
di
cura
o
di
assistenza:
art.
284),
custodia
cautelare
in
carcere
(art.
285).
Di
particolare
rilievo,
ai
presenti
fini,
sono
poi
i
criteri
di
scelta
delle
misure
nel
novero
di
quelle
tipizzate.
Il
primo
e
fondamentale
è
quello
di
adeguatezza
(art.
275,
comma
1),
secondo
il
quale,
«nel
disporre
le
misure,
il
giudice
tiene
conto
della
specifica
idoneità
di
ciascuna
in
relazione
alla
natura
e
al
grado
delle
esigenze
cautelari
da
soddisfare
nel
caso
concreto».
A
questo
precetto
fa
riscontro
uno
specifico
obbligo
di
motivazione
sul
punto,
sancito
a
pena
di
nullità
(art.
292,
comma
2,
lettera
c,
cod.
proc.
pen.).
È
di
tutta
evidenza
come
proprio
nel
criterio
di
adeguatezza,
correlato
alla
“gamma”
graduata
delle
misure,
trovi
espressione
il
principio
–
implicato
dal
quadro
costituzionale
di
riferimento
–
del
“minore
sacrificio
necessario”:
entro
il
“ventaglio”
delle
alternative
prefigurate
dalla
legge,
il
giudice
deve
infatti
prescegliere
la
misura
meno
afflittiva
tra
quelle
astrattamente
idonee
a
tutelare
le
esigenze
cautelari
nel
caso
concreto,
in
modo
da
ridurre
al
minimo
indispensabile
la
lesività
determinata
dalla
coercizione
endoprocedimentale.
A
completamento
e
specificazione
del
criterio
in
parola
è,
poi,
previsto
che
la
più
gravosa
delle
misure
cautelari
personali
coercitive,
vale
a
dire
la
custodia
cautelare
carceraria,
«può
essere
disposta
soltanto
quando
ogni
altra
misura
risulti
inadeguata»
(art.
275,
comma
3,
primo
periodo,
cod.
proc.
pen.).
Su
ciò
il
giudice
che
la
applica
è
tenuto
a
dare,
a
pena
di
nullità,
una
motivazione
appropriata,
mediante
«l’esposizione
delle
concrete
e
specifiche
ragioni
per
le
quali
le
esigenze
di
cui
all’articolo
274
non
possono
essere
soddisfatte
con
altre
misure»
(art.
292,
comma
2,
lettera
c-‐bis,
cod.
proc.
pen.).
Si
tratta
della
natura
cosiddetta
residuale-‐ eccezionale,
o
di
extrema
ratio,
di
questa
misura.
È
inoltre
enunciato
il
criterio
di
proporzionalità,
secondo
il
quale
«ogni
misura
deve
essere
proporzionata
all’entità
del
fatto
e
alla
sanzione
che
sia
stata
o
si
ritiene
possa
essere
irrogata»
(art.
275,
comma
2,
cod.
proc.
pen.).
7.
–
Tratto
saliente
complessivo
del
regime
ora
ricordato
–
conforme
al
quadro
costituzionale
di
riferimento
–
è
quello
di
non
prevedere
automatismi
né
presunzioni.
Esso
esige,
invece,
che
le
condizioni
e
i
presupposti
per
l’applicazione
di
una
misura
cautelare
restrittiva
della
libertà
personale
siano
apprezzati
e
motivati
dal
giudice
sulla
base
della
situazione
concreta,
alla
stregua
dei
ricordati
principi
di
adeguatezza,
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