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con
la
presunzione
di
non
colpevolezza
è
necessario
che
esse
assumano
connotazioni
nitidamente
differenziate
da
quelle
della
pena,
irrogabile
solo
dopo
l’accertamento
definitivo
della
responsabilità:
e
ciò,
ancorché
si
tratti
di
misure
–
nella
loro
specie
più
gravi
–
ad
essa
corrispondenti
sul
piano
del
contenuto
afflittivo.
Il
principio
enunciato
dall’art.
27,
secondo
comma,
Cost.
rappresenta,
in
altre
parole,
uno
sbarramento
insuperabile
ad
ogni
ipotesi
di
assimilazione
della
coercizione
processuale
penale
alla
coercizione
propria
del
diritto
penale
sostanziale,
malgrado
gli
elementi
che
le
accomunano.
Da
ciò
consegue
–
come
questa
Corte
ebbe
a
rilevare
sin
dalla
sentenza
n.
64
del
1970
–
che
l’applicazione
delle
misure
cautelari
non
può
essere
legittimata
in
alcun
caso
esclusivamente
da
un
giudizio
anticipato
di
colpevolezza,
né
corrispondere
–
direttamente
o
indirettamente
–
a
finalità
proprie
della
sanzione
penale,
né,
ancora
e
correlativamente,
restare
indifferente
ad
un
preciso
scopo
(cosiddetto
“vuoto
dei
fini”).
Il
legislatore
ordinario
è
infatti
tenuto,
nella
tipizzazione
dei
casi
e
dei
modi
di
privazione
della
libertà,
ad
individuare
–
soprattutto
all’interno
del
procedimento
e
talora
anche
all’esterno
(sentenza
n.
1
del
1980)
–
esigenze
diverse
da
quelle
di
anticipazione
della
pena
e
che
debbano
essere
soddisfatte
–
entro
tempi
predeterminati
(art.
13,
quinto
comma,
Cost.)
–
durante
il
corso
del
procedimento
stesso,
tali
da
giustificare,
nel
bilanciamento
di
interessi
meritevoli
di
tutela,
il
temporaneo
sacrificio
della
libertà
personale
di
chi
non
è
stato
ancora
giudicato
colpevole
in
via
definitiva.
Ulteriore
indefettibile
corollario
dei
principi
costituzionali
di
riferimento
è
che
la
disciplina
della
materia
debba
essere
ispirata
al
criterio
del
“minore
sacrificio
necessario”
(sentenza
n.
299
del
2005):
la
compressione
della
libertà
personale
dell’indagato
o
dell’imputato
va
contenuta,
cioè,
entro
i
limiti
minimi
indispensabili
a
soddisfare
le
esigenze
cautelari
riconoscibili
nel
caso
concreto.
Sul
versante
della
“qualità”
delle
misure,
ne
consegue
che
il
ricorso
alle
forme
di
restrizione
più
intense
–
e
particolarmente
a
quella
“massima”
della
custodia
carceraria
–
deve
ritenersi
consentito
solo
quando
le
esigenze
processuali
o
extraprocessuali,
cui
il
trattamento
cautelare
è
servente,
non
possano
essere
soddisfatte
tramite
misure
di
minore
incisività.
Questo
principio
è
stato
affermato
in
termini
netti
anche
dalla
Corte
europea
dei
diritti
dell’uomo,
secondo
la
quale,
in
riferimento
alla
previsione
dell’art.
5,
paragrafo
3,
della
Convenzione,
la
carcerazione
preventiva
«deve
apparire
come
la
soluzione
estrema
che
si
giustifica
solamente
allorché
tutte
le
altre
opzioni
disponibili
si
rivelino
insufficienti»
(sentenze
2
luglio
2009,
Vafiadis
contro
Grecia,
e
8
novembre
2007,
Lelièvre
contro
Belgio).
Il
criterio
del
“minore
sacrificio
necessario”
impegna,
dunque,
in
linea
di
massima,
il
legislatore,
da
una
parte,
a
strutturare
il
sistema
cautelare
secondo
il
modello
della
“pluralità
graduata”,
predisponendo
una
gamma
alternativa
di
misure,
connotate
da
differenti
gradi
di
incidenza
sulla
libertà
personale;
dall’altra,
a
prefigurare
meccanismi
“individualizzati”
di
selezione
del
trattamento
cautelare,
parametrati
sulle
esigenze
configurabili
nelle
singole
fattispecie
concrete.
6.
–
Il
complesso
di
indicazioni
costituzionali
dianzi
evidenziate
trova
puntuale
eco
nella
disciplina
dettata
dal
codice
di
procedura
penale,
in
attuazione
della
direttiva
n.
59
della
legge
di
delegazione
16
febbraio
1987,
n.
81.
Nella
cornice
di
tale
disciplina,
la
gravità
in
astratto
dei
reati
oggetto
del
procedimento
rileva,
difatti
–
in
linea
di
principio
–
solo
come
limite
generale
di
applicazione
delle
misure
cautelari
(art.
280,
commi
1
e
2,
cod.
proc.
pen.)
o
come
quantum
del
limite
temporale
massimo
di
durata
(ai
fini
della
cosiddetta
scarcerazione
automatica:
art.
303
140