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proporzionalità
e
minor
sacrificio,
così
da
realizzare
una
piena
“individualizzazione”
della
coercizione
cautelare.
Da
tali
coordinate
si
discosta
in
modo
vistoso
–
assumendo,
con
ciò,
carattere
derogatorio
ed
eccezionale
–
la
disciplina
attualmente
espressa
dal
secondo
e
dal
terzo
periodo
del
comma
3
dell’art.
275
cod.
proc.
pen.,
non
presente
nel
testo
originario
del
codice,
ma
in
esso
inserita
via
via,
con
lo
strumento
della
decretazione
d’urgenza,
in
un
primo
tempo
tramite
l’aggiunta
del
solo
secondo
periodo
al
citato
art.
275,
comma
3,
sulla
spinta
di
una
situazione
apprezzata
come
“emergenziale”,
legata
segnatamente
alla
rilevata
recrudescenza
del
fenomeno
della
criminalità
mafiosa
e
di
altri
gravi
o
gravissimi
reati
(art.
5,
comma
1,
del
decreto-‐legge
13
maggio
1991,
n.
152,
recante
«Provvedimenti
urgenti
in
tema
di
lotta
alla
criminalità
organizzata
e
di
trasparenza
e
buon
andamento
dell’attività
amministrativa»,
convertito,
con
modificazioni,
dalla
legge
12
luglio
1991,
n.
203,
e
art.
1,
comma
1,
del
decreto-‐legge
9
settembre
1991,
n.
292,
recante
«Disposizioni
in
materia
di
custodia
cautelare,
di
avocazione
dei
procedimenti
penali
per
reati
di
criminalità
organizzata
e
di
trasferimenti
di
ufficio
di
magistrati
per
la
copertura
di
uffici
giudiziari
non
richiesti»,
convertito,
con
modificazioni,
dalla
legge
8
novembre
1991,
n.
356);
successivamente
(attraverso
l’art.
5
della
legge
8
agosto
1995,
n.
332,
recante
«Modifiche
al
codice
di
procedura
penale
in
tema
di
semplificazione
dei
procedimenti,
di
misure
cautelari
e
di
diritto
di
difesa»)
con
un
contenimento
di
questa
speciale
disciplina,
mediante
una
drastica
riduzione
dei
reati
a
essa
assoggettati
a
quelli
di
cui
all’art.
416-‐bis
cod.
pen.
ovvero
commessi
avvalendosi
delle
condizioni
previste
da
detto
articolo
o
per
agevolare
le
associazioni
ivi
indicate;
infine,
nuovamente
e
notevolmente
ampliando
il
novero
dei
reati
stessi,
con
le
addizioni
recate
al
vigente
secondo
periodo
e
con
quelle
ulteriori
incluse
nel
nuovo
terzo
periodo
del
comma
3
dell’art.
275
(mediante
gli
interventi
parimenti
emergenziali
dell’art.
2
del
decreto-‐legge
23
febbraio
2009,
n.
11,
convertito,
con
modificazioni,
dalla
legge
23
aprile
2009,
n.
38).
In
base
alla
disciplina
in
questione,
nei
procedimenti
per
taluni
delitti,
analiticamente
elencati,
ove
ricorra
la
condizione
della
gravità
indiziaria,
il
giudice
dispone
senz’altro
l’applicazione
della
misura
cautelare
della
custodia
carceraria,
«salvo
che
siano
acquisiti
elementi
dai
quali
risulti
che
non
sussistono
esigenze
cautelari».
Per
comune
opinione,
la
previsione
ora
ricordata
racchiude
una
duplice
presunzione.
La
prima,
a
carattere
relativo,
attiene
alle
esigenze
cautelari,
che
il
giudice
deve
considerare
sussistenti,
quante
volte
non
consti
la
prova
della
loro
mancanza
(prova
di
tipo
negativo,
dunque,
che
deve
necessariamente
proiettarsi
su
ciascuna
delle
fattispecie
identificate
dall’art.
274
cod.
proc.
pen.).
La
seconda,
a
carattere
assoluto,
concerne
la
scelta
della
misura:
ove
la
presunzione
relativa
non
risulti
vinta,
subentra
un
apprezzamento
legale,
vincolante
e
incontrovertibile,
di
adeguatezza
della
sola
custodia
carceraria
a
fronteggiare
le
esigenze
presupposte,
con
conseguente
esclusione
di
ogni
soluzione
“intermedia”
tra
questa
e
lo
stato
di
piena
libertà
dell’imputato.
Il
modello
ora
evidenziato
si
traduce,
sul
piano
pratico,
in
una
marcata
attenuazione
dell’obbligo
di
motivazione
dei
provvedimenti
applicativi
della
custodia
cautelare
in
carcere.
Secondo
un
indirizzo
consolidato
della
giurisprudenza
di
legittimità,
difatti,
in
presenza
di
gravi
indizi
di
colpevolezza
per
uno
dei
reati
considerati,
il
giudice
assolve
il
suddetto
obbligo
dando
semplicemente
atto
dell’inesistenza
di
elementi
idonei
a
vincere
la
presunzione
di
sussistenza
delle
esigenze
cautelari,
senza
dovere
specificamente
motivare
sul
punto;
mentre
solo
nel
caso
in
cui
l’indagato
o
la
sua
difesa
abbiano
allegato
elementi
di
segno
contrario,
egli
sarà
tenuto
a
giustificare
la
ritenuta
inidoneità
degli
stessi
a
superare
la
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