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ordinanza
del
Giudice
per
le
indagini
preliminari
del
21
luglio
2008.
A
seguito
di
impugnazione
del
difensore,
il
Tribunale
rimettente,
con
ordinanza
del
19
settembre
2008
–
non
impugnata
dal
pubblico
ministero
–
aveva,
peraltro,
disposto
la
sostituzione
della
misura
con
gli
arresti
domiciliari.
Entrato
in
vigore
l’art.
2
del
decreto-‐legge
n.
11
del
2009,
il
pubblico
ministero
aveva
chiesto
e
ottenuto
il
ripristino
della
misura
carceraria,
alla
luce
della
nuova
disciplina
recata
dalla
novella.
Il
difensore
aveva
quindi
presentato
una
nuova
istanza
di
sostituzione
alla
Corte
di
assise
di
appello
di
Lecce
(a
ciò
competente,
essendo
stata
l’imputata
condannata,
nelle
more,
da
detta
Corte
alla
pena
di
sedici
anni
e
due
mesi
di
reclusione):
istanza
motivata
tanto
con
l’asserita
incompatibilità
delle
condizioni
di
salute
dell’imputata
con
la
custodia
carceraria,
quanto
con
la
dedotta
illegittimità
costituzionale
del
nuovo
testo
dell’art.
275,
comma
3,
cod.
proc.
pen.
L’ordinanza
di
rigetto
di
tale
istanza
era
stata,
infine,
impugnata
con
l’appello
sul
quale
il
giudice
a
quo
è
chiamato
a
pronunciarsi.
Quanto
alla
rilevanza
della
questione,
il
rimettente
osserva
che,
nel
caso
di
specie,
la
sussistenza
dei
gravi
indizi
di
colpevolezza
è
fuori
discussione,
essendo
stata
l’imputata
già
condannata
in
grado
di
appello.
Per
quel
che
concerne,
poi,
le
esigenze
cautelari,
il
Tribunale
aveva
già
accertato,
con
la
citata
ordinanza
del
19
settembre
2008,
che
le
esigenze
di
cui
all’art.
274,
comma
1,
lettera
c),
cod.
proc.
pen.
(connesse
al
pericolo
di
commissione
di
delitti
della
stessa
specie
di
quello
per
cui
si
procede)
potevano
essere
soddisfatte
con
la
meno
gravosa
misura
degli
arresti
domiciliari.
Ciò,
in
quanto
«la
peculiarità
del
caso
–
a
carattere
reattivo
a
fronte
di
una
lunga
storia
di
violenze
subite
–
e
la
presenza
nella
vicenda
di
un
uomo
di
ben
maggiore
esperienza
[...],
con
precedenti
specifici»,
induceva
a
riconoscere
alla
donna
«un
ruolo
servente»
nel
fatto,
tale
da
delineare
una
pericolosità
attenuata,
tanto
più
che
la
stessa
non
risultava
«avere
mai
violato
gli
ordini
dell’autorità».
Rispetto
a
tale
valutazione
–
divenuta
«giudicato
cautelare»,
stante
la
mancata
impugnazione
del
provvedimento
da
parte
del
pubblico
ministero
–
non
sarebbe
intervenuto
alcun
elemento
di
novità,
atto
a
far
supporre
un
aggravamento
delle
esigenze
cautelari.
L’unico
dato
nuovo
–
di
ordine
normativo
–
sarebbe
costituito
dalla
preclusione
introdotta
dalla
novella
legislativa
modificativa
dell’art.
275,
comma
3,
cod.
proc.
pen.,
in
forza
della
quale,
quando
sussistono
gravi
indizi
di
colpevolezza
per
una
serie
di
reati
–
tra
cui
quello
di
omicidio
volontario
–
«è
applicata
la
custodia
cautelare
in
carcere,
salvo
che
siano
acquisiti
elementi
dai
quali
risulti
che
non
sussistono
esigenze
cautelari».
La
questione
di
costituzionalità
risulterebbe,
pertanto,
dirimente
ai
fini
della
decisione
da
assumere
nel
procedimento
a
quo:
ciò,
tenuto
conto
anche
dell’infondatezza
del
primo
dei
motivi
di
appello,
dovendosi
escludere
–
alla
luce
dell’espletata
consulenza
medico-‐legale
–
che
le
condizioni
di
salute
dell’interessata
siano
realmente
incompatibili
con
la
custodia
carceraria.
Quanto,
poi,
alla
non
manifesta
infondatezza
della
questione,
il
giudice
a
quo
rileva
come
questa
Corte,
con
la
sentenza
n.
265
del
2010,
abbia
già
dichiarato
costituzionalmente
illegittima
la
norma
censurata,
per
contrasto
con
gli
artt.
3,
13,
primo
comma,
e
27,
secondo
comma,
Cost.,
nella
parte
in
cui
–
nel
prevedere
che,
quando
sussistono
gravi
indizi
di
colpevolezza
in
ordine
ai
delitti
di
cui
agli
artt.
600-‐bis,
primo
comma,
609-‐bis
e
609-‐quater
cod.
pen.,
è
applicata
la
custodia
cautelare
in
carcere,
salvo
che
siano
acquisiti
elementi
dai
quali
risulti
che
non
sussistono
esigenze
cautelari
–
non
fa
salva,
altresì,
l’ipotesi
in
cui
siano
acquisiti
elementi
specifici,
in
relazione
al
caso
concreto,
dai
quali
risulti
che
le
esigenze
cautelari
possono
essere
soddisfatte
con
altre
misure.
Ad
avviso
del
giudice
a
quo,
le
medesime
considerazioni
poste
a
base
di
tale
pronuncia
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