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–
considerazioni
che
il
rimettente
riproduce
integralmente
nell’ordinanza
di
rimessione
–
varrebbero
anche
in
rapporto
al
delitto
di
omicidio.
In
particolare,
allo
stesso
modo
dei
delitti
a
sfondo
sessuale
oggetto
della
sentenza
n.
265
del
2010,
neppure
il
reato
di
omicidio
potrebbe
essere
assimilato,
sotto
il
profilo
che
interessa,
ai
delitti
di
mafia,
relativamente
ai
quali
tanto
questa
Corte
(con
l’ordinanza
n.
450
del
1995)
che
la
Corte
europea
dei
diritti
dell’uomo
(con
la
sentenza
6
novembre
2003,
Pantano
contro
Italia)
hanno
ritenuto
giustificabile
la
presunzione
assoluta
di
adeguatezza
della
sola
custodia
cautelare
in
carcere,
sancita
dalla
norma
denunciata.
I
diversi
fatti
concreti,
riferibili
al
paradigma
punitivo
di
cui
all’art.
575
cod.
pen.,
risulterebbero,
infatti,
anch’essi
marcatamente
eterogenei
sul
piano
del
disvalore
–
come
attesterebbero
i
casi
dell’omicidio
determinato
da
dolo
d’impeto,
o
commesso
in
stato
d’ira
determinato
da
un
fatto
ingiusto
altrui,
ovvero
per
motivi
di
particolare
valore
morale
o
sociale
–
e,
soprattutto,
potrebbero
far
emergere
esigenze
cautelari
suscettibili
di
essere
soddisfatte
con
misure
diverse
e
meno
gravose
della
custodia
carceraria.
Tali
circostanze
farebbero
sì
che
la
presunzione
censurata
si
ponga
in
contrasto
sia
con
l’art.
3
Cost.,
per
l’ingiustificata
parificazione
dei
procedimenti
relativi
al
delitto
in
questione
a
quelli
concernenti
i
delitti
di
mafia,
nonché
per
l’irrazionale
assoggettamento
ad
un
medesimo
regime
cautelare
delle
diverse
ipotesi
concrete
riconducibili
al
relativo
paradigma
punitivo;
sia
con
l’art.
13,
primo
comma,
Cost.,
quale
referente
fondamentale
del
regime
ordinario
delle
misure
cautelari
privative
della
libertà
personale
–
ispirato
al
principio
del
«minimo
sacrificio
necessario»
–
cui
la
disposizione
denunciata
deroga;
sia,
infine,
con
l’art.
27,
secondo
comma,
Cost.,
in
quanto
attribuirebbe
alla
coercizione
processuale
tratti
funzionali
tipici
della
pena,
in
contrasto
con
la
presunzione
di
non
colpevolezza
dell’imputato
prima
della
condanna
definitiva.
1.2.
–
È
intervenuto
nel
giudizio
di
legittimità
costituzionale
il
Presidente
del
Consiglio
dei
ministri,
rappresentato
e
difeso
dall’Avvocatura
generale
dello
Stato,
chiedendo
che
la
questione
sia
dichiarata
non
fondata.
La
difesa
dello
Stato
ricorda
come
questa
Corte
abbia
affermato
–
in
particolare,
con
l’ordinanza
n.
450
del
1995
–
che
mentre
l’apprezzamento
delle
esigenze
cautelari
deve
essere
lasciato
al
giudice,
la
scelta
della
misura
può
bene
essere
operata
in
via
generale
dal
legislatore,
nei
limiti
della
ragionevolezza
e
del
corretto
bilanciamento
dei
beni
coinvolti.
L’assoluta
gravità
del
delitto
di
omicidio
e
la
pericolosità
sociale
della
persona
sottoposta
alla
misura
–
persona
che,
nella
specie,
è
stata
condannata
tanto
in
primo
grado
che
in
appello
–
accomunerebbero,
d’altro
canto,
il
delitto
in
questione
a
quelli
di
tipo
mafioso,
rispetto
ai
quali
la
Corte,
con
la
medesima
ordinanza,
ha
ritenuto
ragionevole
l’imposizione
della
misura
carceraria.
1.3.
–
Si
è
costituita,
altresì,
L.
G.,
imputata
nel
giudizio
a
quo,
chiedendo
che
la
questione
venga
accolta.
La
difesa
della
parte
privata
rileva
come
la
norma
oggetto
di
scrutinio
debba
ritenersi
del
tutto
irragionevole
nella
parte
in
cui
equipara
il
reato
di
omicidio
volontario,
non
soltanto
ai
delitti
previsti
dall’art.
51,
commi
3-‐bis
e
3-‐quater,
cod.
proc.
pen.,
ma
anche
a
quelli
di
cui
agli
artt.
600-‐bis,
primo
comma,
600-‐ter,
600-‐quinquies,
609-‐bis,
609-‐quater
e
609-‐octies
cod.
pen.
Nonostante
la
sua
gravità,
l’omicidio
può
essere,
infatti,
commesso
con
diversi
gradi
di
dolo,
compreso
il
dolo
eventuale;
può
trovare
giustificazioni
«condivise»
dalla
collettività
(motivi
di
particolare
valore
morale
e
sociale);
può
essere
realizzato
sotto
l’impulso
di
uno
stato
d’ira
determinato
da
fatto
ingiusto
altrui
(artt.
62,
numeri
2
e
3,
cod.
pen.):
evenienze
tutte
difficilmente
configurabili,
per
contro,
tanto
in
rapporto
ai
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