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ravvisata
in
rapporto
ai
delitti
di
mafia:
ossia
che
dalla
struttura
stessa
della
fattispecie
e
dalle
sue
connotazioni
criminologiche
–
legate
alla
circostanza
che
l’appartenenza
ad
associazioni
di
tipo
mafioso
implica
un’adesione
permanente
ad
un
sodalizio
criminoso
di
norma
fortemente
radicato
nel
territorio,
caratterizzato
da
una
fitta
rete
di
collegamenti
personali
e
dotato
di
particolare
forza
intimidatrice
–
deriva,
nella
generalità
dei
casi
e
secondo
una
regola
di
esperienza
sufficientemente
condivisa,
una
esigenza
cautelare
alla
cui
soddisfazione
sarebbe
adeguata
solo
la
custodia
in
carcere
(non
essendo
le
misure
“minori”
sufficienti
a
troncare
i
rapporti
tra
l’indiziato
e
l’ambito
delinquenziale
di
appartenenza,
neutralizzandone
la
pericolosità).
Per
quanto
odiosi
e
riprovevoli,
i
delitti
in
discorso
–
oltre
a
presentare
disvalori
nettamente
differenziabili
–
possono
essere,
e
spesso
sono,
meramente
individuali
e
tali,
per
le
loro
connotazioni,
da
non
postulare
esigenze
cautelari
affrontabili
solo
con
la
massima
misura.
Sovente,
inoltre,
essi
si
manifestano
all’interno
di
specifici
contesti
(ad
esempio,
quello
familiare
o
scolastico
o
di
particolari
comunità),
così
che
le
esigenze
cautelari
possono
trovare
risposta
in
misure,
diverse
da
quella
carceraria
e
già
previste
allo
scopo,
che
comportino
l’esclusione
coatta
dal
contesto:
arresti
domiciliari
in
luogo
diverso
dall’abitazione
(art.
284
cod.
proc.
pen.),
eventualmente
accompagnati
da
particolari
strumenti
di
controllo
(quale
il
cosiddetto
braccialetto
elettronico:
art.
275-‐bis);
obbligo
o
divieto
di
dimora
o
anche
solo
di
accesso
in
determinati
luoghi
(art.
283);
allontanamento
dalla
casa
familiare
(art.
282-‐bis).
Questa
Corte
ha
formulato,
altresì,
due
ulteriori
precisazioni,
di
tutto
rilievo
anche
ai
presenti
fini.
In
primo
luogo,
cioè,
ha
sottolineato
che
la
ragionevolezza
della
soluzione
normativa
scrutinata
non
può
essere
rinvenuta
neppure
nella
gravità
astratta
del
reato,
desunta
dalla
misura
della
pena
o
dall’elevato
rango
dell’interesse
protetto:
parametri,
questi,
significativi
in
sede
di
giudizio
di
colpevolezza,
ma
inidonei,
di
per
sé,
a
fungere
da
elementi
preclusivi
ai
fini
della
verifica
della
sussistenza
di
esigenze
cautelari
e
del
loro
grado,
che
condiziona
l’identificazione
delle
misure
idonee
a
soddisfarle.
In
secondo
luogo,
si
è
rilevato
che
tanto
meno
la
presunzione
in
esame
potrebbe
rimanere
legittimata
dall’esigenza
di
contrastare
situazioni
di
allarme
sociale,
legate
all’asserita
crescita
numerica
di
taluni
delitti
(convinzione
che
viceversa
traspare
dai
lavori
parlamentari
relativi
alla
novella
del
2009,
almeno
in
rapporto
ai
reati
sessuali).
L’eliminazione
o
la
riduzione
dell’allarme
sociale
causato
dal
reato
del
quale
l’imputato
è
accusato
non
può
essere,
infatti,
annoverata
tra
le
finalità
della
custodia
cautelare,
costituendo
una
funzione
istituzionale
della
pena,
perché
presuppone
la
certezza
circa
il
responsabile
del
delitto
che
ha
provocato
l’allarme.
5.3.
–
Alla
luce
di
tali
rilievi,
questa
Corte
ha
quindi
concluso
che
la
norma
impugnata
violava,
in
parte
qua,
sia
l’art.
3
Cost.,
per
l’ingiustificata
parificazione
dei
procedimenti
relativi
ai
delitti
considerati
a
quelli
concernenti
i
delitti
di
mafia,
nonché
per
l’irrazionale
assoggettamento
ad
un
medesimo
regime
cautelare
delle
diverse
ipotesi
concrete
riconducibili
ai
relativi
paradigmi
punitivi;
sia
l’art.
13,
primo
comma,
Cost.,
quale
referente
fondamentale
del
regime
ordinario
delle
misure
cautelari
privative
della
libertà
personale;
sia,
infine,
l’art.
27,
secondo
comma,
Cost.,
in
quanto
attribuiva
alla
coercizione
processuale
tratti
funzionali
tipici
della
pena.
Al
fine
di
ricondurre
il
sistema
a
sintonia
con
i
valori
costituzionali,
non
era
peraltro
necessario
rimuovere
integralmente
la
presunzione
de
qua,
ma
solo
il
suo
carattere
assoluto,
che
implicava
una
indiscriminata
e
totale
negazione
di
rilievo
al
principio
del
“minore
sacrificio
necessario”.
La
previsione
di
una
presunzione
solo
relativa
di
adeguatezza
della
custodia
carceraria
–
atta
a
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