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buon
andamento
dell’attività
amministrativa),
convertito,
con
modificazioni,
dalla
legge
12
luglio
1991,
n.
203.
Il
pubblico
ministero
ha
impugnato
l’ordinanza
lamentando
la
violazione
del
comma
3
dell’art.
275
cod.
proc.
pen.,
in
forza
del
quale,
quando
sussistono
gravi
indizi
di
colpevolezza
in
ordine
ai
delitti
di
cui
all’art.
51,
commi
3-‐bis
e
3-‐quater,
cod.
proc.
pen.,
è
applicata
la
custodia
cautelare
in
carcere,
salvo
che
siano
acquisiti
elementi
dai
quali
risulti
che
non
sussistono
esigenze
cautelari.
Anche
la
difesa
ha
impugnato
l’ordinanza
deducendo
il
ruolo
marginale
rivestito
dall’imputato
in
un
unico
episodio
di
estorsione
risalente
nel
tempo
e
l’ingiustificata
sperequazione
rispetto
al
trattamento
riservato
ad
altri
coimputati.
Nell’ipotesi
di
accoglimento
dell’appello
del
pubblico
ministero,
la
difesa,
con
un’articolata
serie
di
considerazioni,
ha
eccepito
l’illegittimità
costituzionale
della
presunzione
di
adeguatezza
posta
dall’art.
275,
comma
3,
cod.
proc.
pen.
La
norma
censurata
costituirebbe
irragionevole
esercizio
della
discrezionalità
del
legislatore,
violando
gli
artt.
3,
13,
primo
comma,
e
27,
secondo
comma,
Cost.:
verrebbe,
infatti,
sottratto
al
giudice
il
potere
di
adeguare
la
misura
al
caso
concreto,
sicché,
in
violazione
del
principio
di
uguaglianza,
la
norma
si
risolverebbe
nell’«appiattire»
situazioni
oggettivamente
e
soggettivamente
diverse,
con
una
uguale
risposta
cautelare.
Inoltre,
dalla
lettura
combinata
degli
artt.
13
e
27
Cost.
emergerebbe
l’esigenza
di
circoscrivere
allo
strettamente
necessario
le
misure
limitative
della
libertà
personale,
attribuendo
alla
custodia
in
carcere
il
connotato
del
rimedio
estremo,
laddove
la
norma
censurata
stabilirebbe
un
automatismo
applicativo
tale
da
rendere
inoperanti
i
criteri
di
proporzionalità
e
di
adeguatezza.
Posto
che
l’art.
7
del
decreto-‐legge
n.
152
del
1991
prevede
due
articolazioni
della
circostanza
aggravante,
quella
del
“metodo
mafioso”
e
quella
dell’“agevolazione
mafiosa”,
per
la
prima
verrebbe
in
evidenza
il
carattere
di
preponderante
autonomia
rispetto
al
reato
associativo
mafioso:
il
ricorso
al
metodo
mafioso
potrebbe
essere
addebitato
tanto
come
generale
connotato
di
struttura
del
reato
associativo
e/o
dei
suoi
delitti-‐scopo,
quanto
come
concreta
modalità
di
esecuzione
di
taluno
dei
delitti
previsti
dalla
legge
penale
che
nulla
condividono
con
il
fenomeno
associativo
mafioso;
soggetti
attivi
dei
delitti
aggravati
dal
metodo
mafioso
potrebbero
essere
tanto
gli
intranei,
quanto
gli
estranei
al
sodalizio
mafioso.
Richiamati
alcuni
orientamenti
dottrinali
e
l’indirizzo
della
giurisprudenza
di
legittimità
secondo
cui
l’aggravante
in
esame
prescinde
di
per
sé
dall’appartenenza
all’associazione
criminale,
la
cui
compresenza
resta
comunque
con
essa
compatibile,
la
difesa
ha
osservato
ancora
che,
al
di
là
della
coincidenza
letterale,
l’elemento
costitutivo
previsto
dall’art.
416-‐bis
cod.
pen.
e
la
circostanza
aggravante
ex
art.
7
del
decreto-‐ legge
n.
152
del
1991
si
collocherebbero
in
ordini
di
grandezza
incommensurabili,
tali
da
imporne
una
ricostruzione
in
termini
di
reciproca
autonomia.
Mentre
la
previsione
legale
di
una
presunzione
iuris
et
de
iure
di
adeguatezza
della
custodia
carceraria
per
i
delitti
aggravati
dalla
finalità
di
agevolare
l’associazione
mafiosa
e
per
quelli
aggravati
dal
metodo
mafioso
commessi
dagli
intranei
al
sodalizio
potrebbe
apparire
ragionevole,
in
quanto
giustificata
dalla
effettiva
esigenza
di
stroncare
il
vincolo
particolarmente
qualificato
tra
l’associazione
mafiosa
radicata
in
un
certo
ambito
territoriale
e
il
proprio
affiliato,
altrettanto
non
potrebbe
dirsi
nel
caso
dei
reati
commessi
con
il
metodo
mafioso
da
persone
prive
di
qualsiasi
legame
con
un
sodalizio
mafioso,
come
nel
caso
dell’imputato
nel
giudizio
principale.
Richiamata
la
più
recente
giurisprudenza
costituzionale
sulla
norma
censurata,
la
difesa
ha
osservato
che
l’aggravante
del
metodo
mafioso
potrebbe
ricomprendere
fattispecie
concrete
marcatamente
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