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differenziate
tra
loro
per
quanto
concerne
il
coefficiente
di
pericolosità
e,
pertanto,
sarebbe
indubbio
il
carattere
accentuatamente
discriminatorio
della
presunzione
in
materia
di
misure
cautelari:
il
carattere
assoluto
di
tale
presunzione
negherebbe
rilevanza
al
principio
del
“minor
sacrificio
necessario”,
laddove
la
previsione
di
una
presunzione
solo
relativa
non
eccederebbe
i
limiti
di
compatibilità
costituzionale.
L’ordinanza
n.
450
del
1995
della
Corte
costituzionale
ha
ritenuto
manifestamente
infondata
la
questione
di
legittimità
costituzionale
dell’art.
275,
comma
3,
cod.
proc.
pen.
proprio
in
relazione
al
reato
aggravato
ex
art.
7
del
decreto-‐legge
n.
152
del
1991
nella
differente
forma
dell’agevolazione
mafiosa,
ma
la
più
recente
evoluzione
della
giurisprudenza
costituzionale
porrebbe
nuovi
problemi
di
interpretazione
della
norma
in
questione,
soprattutto
nel
peculiare
caso
del
reato
aggravato
dal
metodo
mafioso;
nemmeno
dirimente,
al
riguardo,
sarebbe
la
pronuncia
della
Corte
europea
dei
diritti
dell’uomo
(sentenza
6
novembre
2003,
Pantano
contro
Italia),
relativa
al
solo
reato
di
associazione
di
tipo
mafioso.
Ripercorse
le
argomentazioni
difensive,
l’ordinanza
di
rimessione
mette
in
luce
la
potenziale
fondatezza
dell’appello
del
pubblico
ministero,
perché
l’imputato
è
stato
condannato
per
estorsione
aggravata
dal
metodo
mafioso
e,
in
applicazione
della
presunzione
di
adeguatezza
posta
dalla
norma
censurata,
si
dovrebbe
ripristinare
la
misura
della
custodia
in
carcere,
data
l’impossibilità
di
pervenire
a
un
giudizio
di
assenza
del
pericolo
di
reiterazione
di
reati
della
stessa
specie
di
quelli
per
i
quali
si
procede.
La
questione
di
legittimità
costituzionale
proposta
dal
difensore
perciò
sarebbe
rilevante
e
anche
non
manifestamente
infondata.
L’orientamento
espresso
dalla
giurisprudenza
costituzionale
sulla
non
riconducibilità
dei
delitti
contro
la
libertà
sessuale,
del
reato
dell’art.
74
del
decreto
del
Presidente
della
Repubblica
9
ottobre
1990,
n.
309
(Testo
unico
delle
leggi
in
materia
di
disciplina
degli
stupefacenti
e
sostanze
psicotrope,
prevenzione,
cura
e
riabilitazione
dei
relativi
stati
di
tossicodipendenza)
e
del
reato
dell’art.
575
cod.
pen.
tra
quelli
«espressione
dell’appartenenza
ad
associazioni
di
tipo
mafioso,
o
della
condivisione
dei
disvalori
da
queste
fatti
propri»
potrebbe
essere
agevolmente
ribadito
anche
per
«quella
particolare
manifestazione
della
condotta
criminosa
consistente
nell’avvalersi
delle
condizioni
di
assoggettamento
indicate
dall’art.
416
bis
c.p.».
Anche
questi
delitti
avrebbero
o
potrebbero
avere
una
struttura
individuale
e,
per
le
loro
connotazioni,
sarebbero
tali
da
non
postulare
necessariamente
esigenze
cautelari
affrontabili
esclusivamente
con
la
custodia
in
carcere.
Consistendo
in
una
peculiare
manifestazione
dell’azione
antigiuridica,
l’aggravante
in
questione,
osserva
ancora
il
rimettente,
può
accompagnare
la
commissione
di
qualsiasi
fattispecie
delittuosa.
La
locuzione
“delitti
di
mafia”
richiamata
dalla
giurisprudenza
costituzionale
finirebbe
con
«il
parificare
nella
sua
genericità,
sotto
il
profilo
del
disvalore
sociale
e
giuridico,
manifestazioni
delittuose
del
tutto
differenti
tra
loro
sia
con
riferimento
alla
loro
portata
criminale
che
con
riferimento
alla
pericolosità
dell’agente».
Per
integrare
l’aggravante
sarebbe
sufficiente
«la
mera
evocazione,
al
fine
di
accrescere
la
portata
intimidatoria
della
condotta
posta
in
essere,
di
un’organizzazione
criminale
reale
o
supposta
ma
con
la
quale
in
realtà
l’agente
non
abbia
alcun
collegamento».
La
giurisprudenza
di
legittimità
sarebbe
costante
nel
ritenere
che
la
circostanza
aggravante
in
esame
qualifica
l’uso
del
metodo
mafioso,
fondato
sull’esistenza
in
una
data
zona
di
associazioni
mafiose,
anche
riguardo
alla
condotta
di
un
soggetto
non
appartenente
a
tali
associazioni
e
la
fattispecie
oggetto
del
giudizio
principale
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