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costituito
con
atto
depositato
dal
proprio
difensore.
2.1.–
L’Avvocatura
dello
Stato
ha
chiesto
che
la
questione
sia
dichiarata
infondata.
Richiamata
l’ordinanza
della
Corte
costituzionale
n.
450
del
1995,
l’Avvocatura
dello
Stato
osserva
che
la
sentenza
n.
265
del
2010
ha
ritenuto
l’impossibilità
di
estendere
alle
figure
criminose
interessate
da
quel
giudizio
la
ratio
già
considerata
idonea
a
giustificare
la
deroga
alla
disciplina
ordinaria
stabilita
per
i
procedimenti
relativi
ai
delitti
di
mafia
in
senso
stretto:
secondo
l’Avvocatura,
tale
ratio
sarebbe
riferibile
anche
ai
procedimenti
relativi
ai
delitti
connotati
dalla
contestazione
della
circostanza
aggravante
dell’art.
7
del
decreto-‐legge
n.
152
del
1991,
essendo
ragionevolmente
sostenibile
che
la
mera
evocazione
di
un’associazione
criminale,
reale
o
supposta,
al
fine
di
accrescere
la
portata
intimidatoria
della
condotta
renda
la
disposizione
censurata
conforme
allo
standard
di
legittimità
costituzionale
della
scelta
legislativa
sul
tipo
di
misura
cautelare
da
adottare.
2.2.–
La
difesa
dell’imputato
nel
giudizio
principale
ha
chiesto
che
la
questione
di
legittimità
costituzionale
sollevata
dal
Tribunale
di
Lecce
sia
accolta.
Ribadite
le
argomentazioni
diffusamente
riportate
nell’ordinanza
di
rimessione
e
aderendo
a
quelle
prospettate
dal
giudice
rimettente,
la
medesima
difesa
ha
osservato
che,
secondo
la
giurisprudenza
di
legittimità,
affinché
la
circostanza
aggravante
de
qua
possa
dirsi
integrata
è
sufficiente
il
riferimento
a
un’organizzazione
criminale,
reale
o
supposta,
con
la
quale,
in
realtà,
l’agente
non
abbia
alcun
collegamento
e
ha
messo
in
luce
il
contrasto
della
norma
censurata:
con
l’art.
3
Cost.,
sussistendo
l’ingiustificata
parificazione
–
denunciata
dal
giudice
rimettente
–
tra
persona
appartenente
e
persona
non
appartenente
a
un’associazione
di
tipo
mafioso;
con
l’art.
13
Cost.,
che
imporrebbe
di
circoscrivere
allo
strettamente
necessario
le
misure
limitative
della
libertà
personale,
attribuendo
alla
custodia
in
carcere
il
connotato
di
estremo
rimedio;
con
l’art.
27,
secondo
comma,
Cost.,
in
quanto
l’applicazione
della
custodia
in
carcere,
in
mancanza
di
una
effettiva
e
concreta
esigenza
cautelare,
rappresenterebbe
un’indebita
anticipazione
della
pena
prima
del
definitivo
accertamento
giudiziale
della
responsabilità
penale.
3.–
Con
ordinanza
depositata
il
7
giugno
2012
(r.o.
n.
175
del
2012),
il
Tribunale
di
Lecce,
sezione
del
riesame,
ha
sollevato,
in
riferimento
agli
artt.
3,
13
e
27,
secondo
comma,
Cost.,
questione
di
legittimità
costituzionale
dell’art.
275,
comma
3,
cod.
proc.
pen.
«nella
parte
in
cui
prescrivendo
che
quando
sussistono
gravi
indizi
di
colpevolezza
in
ordine
a
delitti
commessi
avvalendosi
delle
condizioni
di
cui
all’art.
416
bis
c.p.
è
applicata
la
misura
cautelare
della
custodia
in
carcere,
salvo
che
siano
acquisiti
elementi
dai
quali
risulti
che
non
sussistono
esigenze
cautelari,
non
fa
salva
l’ipotesi
in
cui
siano
acquisiti
elementi
specifici,
in
relazione
al
caso
concreto,
dai
quali
risulti
che
le
esigenze
cautelari
possono
essere
soddisfatte
con
altre
misure».
Il
rimettente
riferisce
di
essere
investito
dell’appello
presentato
dalla
difesa
avverso
l’ordinanza
del
27
giugno
2011,
con
la
quale
il
Giudice
dell’udienza
preliminare
del
Tribunale
di
Lecce
aveva
rigettato
l’istanza
di
revoca
della
custodia
cautelare
in
carcere
o
di
sostituzione
con
gli
arresti
domiciliari.
Su
appello
dell’indagato,
il
tribunale
del
riesame
aveva
sostituito
la
misura
originariamente
applicata
con
quella
degli
arresti
domiciliari,
ma
non
aveva
accolto
l’istanza
di
revoca
della
prima.
La
decisione
del
tribunale
del
riesame
era
stata
impugnata
con
ricorso
per
cassazione
sia
dal
pubblico
ministero,
lamentando
la
violazione
dell’art.
275,
comma
3,
cod.
proc.
pen.,
sia
dalla
difesa,
che
aveva
denunciato
il
vizio
di
motivazione
sull’attualità
delle
esigenze
cautelari.
La
Corte
di
cassazione
aveva
accolto
entrambi
i
ricorsi
e
aveva
censurato
l’ordinanza
impugnata
per
aver
«disatteso
la
presunzione
iuris
et
de
iure
di
adeguatezza
della
185