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sarebbe
esemplificativa
di
tale
orientamento,
posto
che
all’imputato
è
contestato
di
avere
prospettato
alla
vittima,
in
caso
di
mancato
pagamento
dei
debiti,
gravi
ritorsioni
con
l’intervento
di
“amici”
appartenenti
alla
criminalità
organizzata.
Alla
posizione
dell’imputato,
al
quale
in
nessun
modo
sarebbe
attribuita
l’appartenenza
o
la
contiguità
a
un
sodalizio
mafioso,
non
si
attaglierebbero
le
considerazioni
svolte
dalla
Corte
costituzionale
e
dalla
Corte
europea
dei
diritti
dell’uomo
per
giustificare
la
presunzione
assoluta
di
adeguatezza
della
sola
custodia
cautelare
in
carcere:
«non
si
vede,
infatti,
quali
legami
con
l’associazione
di
tipo
mafioso
l’appellante
debba
recidere
posto
che
essi
non
sono
stati
in
alcun
modo
ritenuti
esistenti».
Se
la
presunzione
assoluta
è
stata
ritenuta
ingiustificata
nei
confronti
di
appartenenti
ad
associazioni
dedite
al
traffico
di
stupefacenti,
«non
si
vede
come
essa
possa
operare
nei
confronti
di
chi
in
ipotesi
agisca
individualmente
e
si
“limiti”
ad
evocare
–
a
meri
fini
funzionali
al
successo
dell’azione
delittuosa
–
un’entità
della
quale
non
fa
parte».
Ad
avviso
del
rimettente,
tale
sola
manifestazione
di
una
condotta
che
altrimenti
sarebbe
sfuggita
alla
presunzione
in
esame
non
potrebbe
far
ritenere
una
pericolosità
sociale
del
suo
autore
così
elevata
da
richiedere
inevitabilmente
l’applicazione
della
custodia
in
carcere,
sicché
la
possibilità
di
formulare
un’ipotesi
concreta
idonea
a
smentire
la
generalizzazione
posta
a
base
della
presunzione
stessa
renderebbe
conto
della
sua
irragionevolezza.
Se
la
legittimità
costituzionale
dell’art.
275,
comma
3,
cod.
proc.
pen.
è
stata
ravvisata
solo
per
la
peculiarità
della
fattispecie
e
delle
sue
connotazioni
criminologiche
(l’una
e
le
altre
connesse
alla
circostanza
che
l’appartenenza
ad
associazioni
di
tipo
mafioso
implicherebbe
un’adesione
permanente
a
un
sodalizio
criminoso
di
norma
fortemente
radicato
nel
territorio,
caratterizzato
da
una
fitta
rete
di
collegamenti
personali
e
dotato
di
particolare
forza
intimidatrice)
e
per
l’esistenza
di
una
regola
di
esperienza
sufficientemente
condivisa
circa
l’insufficienza
delle
misure
“minori”
a
recidere
i
rapporti
tra
l’indiziato
e
l’ambito
delinquenziale
di
appartenenza,
dovrebbe
concludersi
che
questa
ratio
non
è
riscontrabile
nel
caso
in
cui
tali
condizioni
mancano.
Ne
conseguirebbe
un’ingiustificata
parificazione
tra
chi
abbia
aderito
ad
associazioni
di
tipo
mafioso
o
intenda
agevolarle
e
chi,
invece,
«senza
appartenere
ad
esse
intenda
approfittare
della
condizione
di
assoggettamento
dalle
medesime
creato
per
portare
più
efficacemente
a
compimento
il
proprio
proposito
criminoso».
L’art.
275,
comma
3,
cod.
proc.
pen.,
conclude
il
rimettente,
nell’imporre
necessariamente
l’applicazione
della
custodia
cautelare
in
carcere
all’autore
di
un
delitto
commesso
avvalendosi
delle
condizioni
previste
dall’art.
416-‐bis
cod.
pen.,
impedirebbe
al
giudice
di
valutare
se
nel
caso
concreto
risultino
elementi
specifici
che
facciano
ritenere
altrettanto
idonee
misure
meno
afflittive.
La
norma
censurata
sarebbe
quindi
in
contrasto
con
l’art.
3
Cost.,
«sia
per
l’irragionevole
parificazione
di
situazioni
tra
loro
diverse
(all’interno
delle
ipotesi
per
le
quali
la
presunzione
assoluta
opera)
che
per
l’altrettanto
irragionevole
disparità
di
trattamento
tra
soggetti
che
esprimano
il
medesimo
grado
di
pericolosità
sociale»;
con
l’art.
13
Cost.,
«per
la
lesione
dell’affermato
principio
del
minor
sacrificio
possibile
al
bene
della
libertà
personale»;
con
l’art.
27,
secondo
comma,
Cost.,
«in
quanto
l’applicazione
della
custodia
in
carcere
in
mancanza
di
una
effettiva
e
concreta
esigenza
cautelare
costituisce
una
indebita
anticipazione
di
una
pena
prima
ancora
di
un
giudiziale
definitivo
accertamento
della
responsabilità
penale».
2.–
Nel
giudizio
di
legittimità
costituzionale
è
intervenuto
il
Presidente
del
Consiglio
dei
ministri,
rappresentato
e
difeso
dall’Avvocatura
generale
dello
Stato;
anche
l’imputato
nel
giudizio
principale
si
è
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