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Ad
avviso
del
rimettente,
le
esigenze
cautelari
non
sarebbero
venute
meno,
tenuto
conto
della
perdurante
operatività
dell’associazione
e
dei
legami
che
l’indagato
avrebbe
dimostrato
di
avere
con
i
suoi
membri.
Dette
esigenze
potrebbero
essere,
tuttavia,
adeguatamente
soddisfatte
con
la
misura
meno
gravosa
degli
arresti
domiciliari,
in
considerazione
del
ruolo
di
semplice
concorrente
esterno
dell’interessato,
che
non
implicherebbe
l’appartenenza
al
gruppo
malavitoso.
La
misura
degli
arresti
domiciliari
risulterebbe,
in
particolare,
idonea
a
fronteggiare
il
pericolo
di
reiterazione
di
fatti
del
genere
di
quelli
per
i
quali
si
procede,
dovendosi
escludere
che
l’indagato
–
una
volta
ristretto
nella
propria
abitazione
–
possa
mettere
nuovamente
a
disposizione
dell’associazione
criminosa
le
proprie
capacità
tecniche.
All’accoglimento
dell’istanza
osterebbe,
tuttavia,
la
norma
censurata,
che
impone
di
applicare
la
custodia
cautelare
in
carcere
nei
confronti
della
persona
raggiunta
da
gravi
indizi
di
colpevolezza
per
il
delitto
previsto
dall’art.
416-‐bis
cod.
pen.,
salvo
che
siano
acquisiti
elementi
dai
quali
risulti
che
non
sussistono
esigenze
cautelari.
Di
qui,
dunque,
la
rilevanza
della
questione.
Quanto,
poi,
alla
non
manifesta
infondatezza,
il
giudice
a
quo
ricorda
che
la
Corte
costituzionale,
con
l’ordinanza
n.
450
del
1995,
ha
affermato
che
la
scelta
del
tipo
di
misura
cautelare
da
applicare
non
deve
essere
necessariamente
rimessa
all’apprezzamento
in
concreto
del
giudice,
potendo
formare
oggetto
anche
di
predeterminazione
legislativa,
nei
limiti
della
ragionevolezza
e
del
corretto
bilanciamento
dei
valori
costituzionali
coinvolti.
Su
tale
premessa,
la
Corte
ha
ritenuto
non
irragionevole
la
presunzione
di
adeguatezza
della
sola
custodia
cautelare
in
carcere,
stabilita
dalla
norma
censurata
–
nel
testo
allora
vigente
–
nei
confronti
dei
soggetti
gravemente
indiziati
di
delitti
di
criminalità
organizzata
di
tipo
mafioso,
stante
il
coefficiente
di
pericolosità
per
le
condizioni
di
base
della
convivenza
e
della
sicurezza
collettiva
proprio
di
detti
illeciti.
Secondo
il
rimettente,
tale
conclusione
dovrebbe
essere,
tuttavia,
necessariamente
rivista
alla
luce
delle
successive
e
recenti
dichiarazioni
di
illegittimità
costituzionale
parziale
che
hanno
colpito
la
presunzione
sancita
dall’art.
275,
comma
3,
cod.
proc.
pen.,
il
cui
ambito
applicativo
è
stato
esteso
ben
oltre
il
settore
della
criminalità
mafiosa
dal
decreto-‐legge
23
febbraio
2009,
n.
11
(Misure
urgenti
in
materia
di
sicurezza
pubblica
e
di
contrasto
alla
violenza
sessuale,
nonché
in
tema
di
atti
persecutori),
convertito,
con
modificazioni,
dalla
legge
23
aprile
2009,
n.
38.
Al
riguardo,
verrebbe
in
rilievo,
in
modo
particolare,
la
sentenza
n.
57
del
2013,
con
la
quale
la
Corte
ha
dichiarato
costituzionalmente
illegittima
la
norma
censurata,
nella
parte
in
cui
stabilisce
una
presunzione
assoluta
di
adeguatezza
della
sola
custodia
cautelare
in
carcere
nei
confronti
della
persona
raggiunta
da
gravi
indizi
di
colpevolezza
in
ordine
a
delitti
commessi
avvalendosi
delle
condizioni
previste
dall’art.
416-‐bis
cod.
pen.,
ovvero
al
fine
di
agevolare
l’attività
delle
associazioni
previste
dallo
stesso
articolo.
Nell’occasione,
la
Corte
ha
rilevato
che
le
ipotesi
criminose
ora
indicate,
anche
se
collocate
«in
un
contesto
mafioso»,
non
postulano
indefettibilmente
che
il
loro
autore
faccia
parte
dell’associazione
mafiosa:
circostanza
a
fronte
della
quale
la
presunzione
censurata
rimane
priva
di
una
«congrua
“base
statistica”»
e,
con
essa,
di
«un
fondamento
giustificativo
costituzionalmente
valido».
Non
si
è,
infatti,
al
cospetto
di
un
«reato
che
implichi
o
presupponga
necessariamente
un
vincolo
di
appartenenza
permanente
a
un
sodalizio
criminoso
con
accentuate
caratteristiche
di
pericolosità
–
per
radicamento
nel
territorio,
intensità
dei
collegamenti
personali
e
forza
intimidatrice
–
vincolo
che
solo
la
misura
più
severa
risulterebbe,
nella
generalità
dei
casi,
in
grado
di
interrompere».
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