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Ad
avviso
del
giudice
a
quo,
le
stesse
considerazioni
varrebbero
anche
in
rapporto
all’ipotesi
del
concorso
esterno
nell’associazione
mafiosa.
Alla
luce
della
complessa
elaborazione
giurisprudenziale
in
materia,
deve
essere,
infatti,
qualificato
come
concorrente
esterno
il
soggetto
che,
senza
essere
inserito
nella
struttura
organizzativa
del
sodalizio,
fornisce
un
contributo
concreto,
specifico
e
volontario
alla
conservazione
o
al
rafforzamento
dell’associazione
criminale.
La
posizione
del
concorrente
esterno
risulterebbe,
quindi,
pienamente
sovrapponibile
a
quella
dell’autore
di
un
reato
aggravato
ai
sensi
dall’art.
7
del
decreto-‐legge
13
maggio
1991,
n.
152
(Provvedimenti
urgenti
in
tema
di
lotta
alla
criminalità
organizzata
e
di
trasparenza
e
buon
andamento
dell’attività
amministrativa),
convertito,
con
modificazioni,
dalla
legge
12
luglio
1991,
n.
203,
in
quanto
finalizzato
ad
agevolare
una
associazione
mafiosa.
In
entrambi
i
casi,
infatti,
si
è
di
fronte
ad
un
soggetto
che
non
appartiene
all’associazione
–
e
che,
pertanto,
non
è
legato
da
un
vincolo
permanente
con
il
gruppo
criminale,
idoneo
a
giustificare
quel
giudizio
di
pericolosità
che
impone
di
ricorrere
in
via
esclusiva
alla
misura
carceraria
–
il
quale
si
limita
a
porre
in
essere
una
condotta
intesa
a
favorire
o
rafforzare
il
gruppo
stesso.
La
necessità
di
tener
distinta
la
posizione
del
concorrente
esterno
da
quella
del
partecipante
all’associazione
è
stata,
d’altra
parte,
riconosciuta
dalla
Corte
di
cassazione
con
riguardo
alla
presunzione
iuris
tantum
di
sussistenza
delle
esigenze
cautelari,
sancita
dallo
stesso
art.
275,
comma
3,
cod.
proc.
pen.
Secondo
la
giurisprudenza
di
legittimità,
infatti,
mentre
nei
confronti
del
soggetto
gravemente
indiziato
del
delitto
di
cui
all’art.
416-‐bis
cod.
pen.
nella
veste
di
appartenente
all’associazione,
e
dunque
di
partecipe
dell’«affectio
societatis»,
il
superamento
di
detta
presunzione
richiede
la
dimostrazione
della
rescissione
definitiva
del
vincolo
associativo;
nei
confronti
del
soggetto
gravemente
indiziato
del
medesimo
delitto
quale
concorrente
esterno,
i
parametri
per
superare
la
presunzione
si
legano
ad
una
prognosi
in
ordine
alla
ripetibilità
o
meno
della
situazione
che
ha
dato
luogo
al
contributo
dell’extraneus
alla
vita
della
consorteria.
Ciò
confermerebbe
l’impossibilità
di
accomunare
le
due
posizioni
in
rapporto
alla
presunzione
di
adeguatezza
della
sola
custodia
cautelare
in
carcere,
oggetto
di
censura:
profilo
per
il
quale
l’automatismo
applicativo
sancito
dalla
norma
denunciata
verrebbe
a
porsi
in
contrasto
con
il
principio,
desumibile
dal
sistema
costituzionale,
che
impone
di
circoscrivere
allo
stretto
necessario
le
misure
che
incidono
sulla
libertà
personale,
secondo
canoni
di
proporzionalità
e
adeguatezza
rispetto
al
caso
concreto.
Alla
luce
di
tali
considerazioni,
la
norma
denunciata
violerebbe,
dunque,
in
parte
qua,
l’art.
3
Cost.,
assoggettando
irrazionalmente
ad
un
medesimo
regime
cautelare
situazioni
diverse,
sotto
il
profilo
oggettivo
e
soggettivo;
l’art.
13,
primo
comma,
Cost.,
quale
referente
fondamentale
del
regime
ordinario
delle
misure
cautelari
limitative
della
libertà
personale;
nonché
l’art.
27,
secondo
comma,
Cost.,
attribuendo
alla
coercizione
personale
cautelare
i
tratti
funzionali
tipici
della
pena.
2.–
È
intervenuto
il
Presidente
del
Consiglio
dei
ministri,
rappresento
e
difeso
dall’Avvocatura
generale
dello
Stato,
chiedendo
che
la
questione
sia
dichiarata
manifestamente
infondata.
La
difesa
dello
Stato
rileva
come
nell’ordinanza
n.
450
del
1995,
citata
dallo
stesso
giudice
a
quo,
la
Corte
costituzionale
abbia
precisato
che
mentre
non
può
prescindersi
da
un
accertamento
in
concreto
dell’effettiva
sussistenza
delle
esigenze
cautelari,
la
scelta
del
tipo
di
misura
cautelare
da
applicare
può
bene
essere
effettuata
in
termini
generali
dal
legislatore,
nel
rispetto
della
ragionevolezza
della
scelta
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