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3.–
L’art.
275,
comma
3,
cod.
proc.
pen.
stabilisce
–
nella
parte
che
interessa
–
che
nei
confronti
della
persona
gravemente
indiziata
di
taluni
delitti,
specificamente
elencati,
è
applicata
la
misura
della
custodia
cautelare
in
carcere,
senza
alcuna
possibile
alternativa,
salvo
che
siano
acquisiti
elementi
rivelatori
dell’insussistenza
delle
esigenze
cautelari.
Viene
stabilita,
in
tal
modo,
una
duplice
presunzione:
relativa,
quanto
alla
sussistenza
del
periculum
libertatis;
assoluta,
quanto
all’adeguatezza
della
sola
custodia
carceraria
a
fronteggiarlo.
Ciò,
in
deroga
alla
disciplina
generale
in
tema
di
scelta
delle
misure
cautelari,
che
affida
al
giudice
il
compito
di
individuare,
entro
il
ventaglio
prefigurato
dal
legislatore
(artt.
281-‐286
cod.
proc.
pen.),
la
misura
meno
gravosa
tra
quelle
astrattamente
idonee
a
soddisfare
le
esigenze
cautelari
ravvisabili
nel
caso
concreto,
in
aderenza
al
principio
–
desumibile
dalle
previsioni
degli
artt.
13,
primo
comma,
e
27,
secondo
comma,
Cost.
–
del
“minimo
sacrificio
necessario”
della
libertà
personale.
La
lista
dei
delitti
cui
accede
il
regime
speciale
–
introdotto
dal
decreto-‐legge
13
maggio
1991,
n.
152
(Provvedimenti
urgenti
in
tema
di
lotta
alla
criminalità
organizzata
e
di
trasparenza
e
buon
andamento
dell’attività
amministrativa),
convertito,
con
modificazioni,
dalla
legge
12
luglio
1991,
n.
203
–
è
stata
variamente
modulata
nel
corso
del
tempo,
con
pendolari
alternanze
tra
interventi
di
restringimento
e
di
dilatazione.
Al
centro
della
disciplina
derogatoria
sono,
peraltro,
costantemente
rimasti
i
delitti
di
criminalità
mafiosa
o
(lato
sensu)
di
“contiguità”
alla
mafia:
più
in
particolare,
il
delitto
di
associazione
di
tipo
mafioso
(art.
416-‐bis
cod.
pen.)
e
i
delitti
aggravati
ai
sensi
dell’art.
7
del
citato
d.l.
n.
152
del
1991,
in
quanto
commessi
con
“metodo
mafioso”
(ossia
avvalendosi
delle
condizioni
previste
dal
citato
art.
416-‐bis
cod.
pen.),
ovvero
al
fine
di
agevolare
l’attività
delle
associazioni
previste
dallo
stesso
articolo.
Nel
testo
attuale
della
norma
–
frutto
delle
modifiche
disposte
dall’art.
2
del
decreto-‐legge
23
febbraio
2009,
n.
11
(Misure
urgenti
in
materia
di
sicurezza
pubblica
e
di
contrasto
alla
violenza
sessuale,
nonché
in
tema
di
atti
persecutori),
convertito,
con
modificazioni,
dalla
legge
23
aprile
2009,
n.
38
–
il
riferimento
alle
predette
ipotesi
criminose
è
operato
in
via
mediata,
tramite
il
richiamo,
effettuato
in
via
preliminare
dal
secondo
periodo
dell’art.
275,
comma
3,
cod.
proc.
pen.,
alla
norma
processuale
di
cui
all’art.
51,
comma
3-‐bis,
dello
stesso
codice,
che
le
considera
assieme
a
numerose
altre.
Chiamata
a
pronunciarsi
sulla
presunzione
assoluta
di
adeguatezza
della
sola
misura
carceraria
in
un
momento
nel
quale,
per
effetto
della
legge
8
agosto
1995,
n.
332
(Modifiche
al
codice
di
procedura
penale
in
tema
di
semplificazione
dei
procedimenti,
di
misure
cautelari
e
di
diritto
di
difesa),
i
delitti
dianzi
indicati
erano
gli
unici
sottoposti
al
regime
speciale,
e
con
riferimento
a
fattispecie
concreta
nella
quale
si
discuteva
di
delitti
aggravati
dalla
finalità
di
agevolare
associazioni
mafiose,
questa
Corte,
con
l’ordinanza
n.
450
del
1995,
escluse
la
denunciata
violazione
degli
artt.
3,
13,
primo
comma,
e
27,
secondo
comma,
Cost.
La
Corte
rilevò
che,
a
differenza
della
verifica
della
sussistenza
delle
esigenze
cautelari,
la
quale
non
può
prescindere
da
un
accertamento
in
concreto,
l’individuazione
della
misura
da
applicare
può
essere
effettuata
anche
in
via
astratta
dal
legislatore,
purché
«nel
rispetto
della
ragionevolezza
della
scelta
e
del
corretto
bilanciamento
dei
valori
costituzionali
coinvolti».
Nella
specie,
deponeva
nel
senso
della
ragionevolezza
della
soluzione
adottata
«la
delimitazione
della
norma
all’area
dei
delitti
di
criminalità
organizzata
di
tipo
mafioso»,
tenuto
conto
del
«coefficiente
di
pericolosità
per
le
condizioni
di
base
della
convivenza
e
della
sicurezza
collettiva
che
agli
illeciti
di
quel
genere
è
connaturato».
4.–
Il
nuovo
indirizzo
della
giurisprudenza
costituzionale
sul
tema,
inaugurato
dalla
sentenza
n.
265
del
2010
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