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pure
ordinariamente
monosoggettivi
(sentenze
n.
164
e
n.
331
del
2011,
n.
213
del
2013,
concernenti
rispettivamente
l’omicidio
volontario,
i
reati
di
favoreggiamento
dell’immigrazione
clandestina
e
il
sequestro
di
persona
a
scopo
di
estorsione)
–
anche
fattispecie
necessariamente
plurisoggettive
(sentenza
n.
232
del
2013,
relativa
alla
violenza
sessuale
di
gruppo),
talune
delle
quali
a
carattere
associativo,
ma
diverse
da
quelle
di
tipo
mafioso:
in
particolare,
l’associazione
finalizzata
al
traffico
illecito
di
sostanze
stupefacenti
o
psicotrope
(sentenza
n.
231
del
2011)
e
l’associazione
per
delinquere
finalizzata
a
commettere
delitti
in
materia
di
contraffazione
e
alterazione
di
segni
distintivi
(sentenza
n.
110
del
2012).
Anche
con
riguardo
a
tali
ultime
fattispecie
criminose,
questa
Corte
ha
posto
in
evidenza
i
tratti
differenziali
rispetto
al
delitto
di
associazione
di
tipo
mafioso,
avendo
specificamente
di
mira
la
posizione
dell’«associato».
Si
è
rilevato,
in
specie,
che
il
delitto
di
associazione
di
tipo
mafioso
è
«normativamente
connotato
–
di
riflesso
ad
un
dato
empirico-‐sociologico
–
come
quello
in
cui
il
vincolo
associativo
esprime
una
forza
di
intimidazione
e
condizioni
di
assoggettamento
e
di
omertà,
che
da
quella
derivano,
per
conseguire
determinati
fini
illeciti.
Caratteristica
essenziale
è
proprio
tale
specificità
del
vincolo,
che,
sul
piano
concreto,
implica
ed
è
suscettibile
di
produrre,
da
un
lato,
una
solida
e
permanente
adesione
tra
gli
associati,
una
rigida
organizzazione
gerarchica,
una
rete
di
collegamenti
e
un
radicamento
territoriale
e,
dall’altro,
una
diffusività
dei
risultati
illeciti,
a
sua
volta
produttiva
di
accrescimento
della
forza
intimidatrice
del
sodalizio
criminoso.
Sono
tali
peculiari
connotazioni
a
fornire
una
congrua
“base
statistica”
alla
presunzione
considerata,
rendendo
ragionevole
la
convinzione
che,
nella
generalità
dei
casi,
le
esigenze
cautelari
derivanti
dal
delitto
in
questione
non
possano
venire
adeguatamente
fronteggiate
se
non
con
la
misura
carceraria,
in
quanto
idonea
–
per
valersi
delle
parole
della
Corte
europea
dei
diritti
dell’uomo
–
“a
tagliare
i
legami
esistenti
tra
le
persone
interessate
e
il
loro
ambito
criminale
di
origine”,
minimizzando
“il
rischio
che
esse
mantengano
contatti
personali
con
le
strutture
delle
organizzazioni
criminali
e
possano
commettere
nel
frattempo
delitti”
(sentenza
6
novembre
2003,
Pantano
contro
Italia)»
(sentenza
n.
231
del
2011).
Tratti
similari
non
presentavano
i
delitti
associativi
oggetto
di
scrutinio,
che
si
connotano
come
fattispecie
“aperte”,
qualificate
solo
dalla
tipologia
dei
reati-‐fine
e
non
già
da
particolari
caratteristiche
del
vincolo
associativo,
così
da
abbracciare
situazioni
marcatamente
eterogenee
sotto
il
profilo
considerato:
donde
l’impossibilità
di
«enucleare
una
regola
di
esperienza,
ricollegabile
ragionevolmente
a
tutte
le
“connotazioni
criminologiche”
del
fenomeno,
secondo
la
quale
la
custodia
carceraria
sarebbe
l’unico
strumento
idoneo
a
fronteggiare
le
esigenze
cautelari»
(sentenza
n.
231
del
2011;
analogamente
sentenza
n.
110
del
2012).
6.–
Particolare
rilievo,
agli
odierni
fini,
assume
la
sentenza
n.
57
del
2013,
con
la
quale
questa
Corte
–
ad
ulteriore
sviluppo
delle
conclusioni
ora
ricordate
–
ha
dichiarato
costituzionalmente
illegittima
la
presunzione
di
cui
si
tratta
in
rapporto
ai
delitti
aggravati
ai
sensi
dell’art.
7
del
d.l.
n.
152
del
1991,
in
quanto
commessi
con
“metodo
mafioso”
o
per
agevolare
l’attività
di
associazioni
mafiose:
superando,
così,
relativamente
ad
essi,
la
soluzione
adottata
con
l’ordinanza
n.
450
del
1995.
Nell’occasione,
la
Corte
ha
rilevato
come
sia
consolidato,
nella
giurisprudenza
di
legittimità,
l’indirizzo
secondo
il
quale
l’aggravante
in
discorso,
in
entrambe
le
forme
in
cui
può
atteggiarsi,
non
richiede
che
l’autore
del
fatto
sia
partecipe
di
un
sodalizio
di
stampo
mafioso,
potendo
trattarsi
anche
di
un
estraneo:
il
che
comporta
che
la
presunzione
assoluta
sulla
quale
fa
leva
il
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