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di
una
associazione
mafiosa
(ipotesi
considerata
dalla
citata
sentenza
n.
57
del
2013)
può,
a
seconda
dei
casi,
appartenere
o
meno
all’associazione
stessa,
il
concorrente
esterno
è,
per
definizione,
un
soggetto
che
non
fa
parte
del
sodalizio:
diversamente,
perderebbe
tale
qualifica,
trasformandosi
in
un
«associato».
Nei
confronti
del
concorrente
esterno
non
è,
quindi,
in
nessun
caso
ravvisabile
quel
vincolo
di
«adesione
permanente»
al
gruppo
criminale
che
–
secondo
la
giurisprudenza
di
questa
Corte
–
è
in
grado
di
legittimare,
sul
piano
«empirico-‐ sociologico»,
il
ricorso
in
via
esclusiva
alla
misura
carceraria,
quale
unico
strumento
idoneo
a
recidere
i
rapporti
dell’indiziato
con
l’ambiente
delinquenziale
di
appartenenza
e
a
neutralizzarne
la
pericolosità.
Al
riguardo,
non
gioverebbe
opporre
che
il
concorrente
esterno,
analogamente
al
partecipante
all’associazione,
apporta
comunque
un
contributo
causale
al
raggiungimento
dei
fini
del
sodalizio:
con
la
conseguenza
che
la
sua
condotta
risulterebbe
pienamente
espressiva
del
disvalore
del
delitto
di
cui
all’art.
416-‐bis
cod.
pen.,
concretandosi
anzi,
talora,
in
apporti
di
maggior
rilievo
rispetto
a
quelli
dell’“intraneus”.
Il
che
non
potrebbe
certamente
dirsi,
invece,
per
l’autore
di
un
reato
aggravato
ai
sensi
dell’art.
7
del
d.l.
n.
152
del
1991:
giacché,
per
un
verso
–
come
rimarcato
dalla
stessa
sentenza
n.
57
del
2013
–
l’anzidetta
aggravante
può
accedere
a
qualsiasi
delitto,
anche
della
più
modesta
entità;
e,
per
altro
verso,
anche
quando
si
discuta
di
un
delitto
aggravato
dalla
finalità
di
“agevolazione
mafiosa”,
non
è
comunque
richiesto
che
l’obiettivo
si
realizzi.
Tali
considerazioni
attengono,
in
effetti,
alla
gravità
dell’illecito
commesso
dal
concorrente
esterno,
che
dovrà
essere
congruamente
apprezzata
in
sede
di
determinazione
della
pena,
all’esito
della
formulazione
di
un
giudizio
definitivo
di
colpevolezza.
Esse
non
impongono,
per
converso,
preclusioni
sul
diverso
piano
della
verifica
della
sussistenza
e
–
per
quanto
qui
rileva
–
del
grado
delle
esigenze
cautelari,
che
condiziona
l’identificazione
della
misura
idonea
a
soddisfarle.
Non
ne
risulta
inficiato,
infatti,
il
rilievo
di
fondo,
espresso
dalla
sentenza
n.
57
del
2013,
secondo
il
quale
il
mero
«contesto
mafioso»
in
cui
si
colloca
la
condotta
criminosa
addebitata
all’indiziato
non
basta
ad
offrire
una
congrua
“base
statistica”
alla
presunzione,
ove
esso
non
presupponga
necessariamente
l’«appartenenza»
al
sodalizio
criminoso.
E,
nella
specie,
a
prescindere
dal
“peso
specifico”
dei
rispettivi
contributi,
la
figura
del
concorrente
esterno
–
se
pure
espressiva
di
una
posizione
di
“contiguità”
alla
consorteria
mafiosa
–
si
differenzia
da
quella
dell’associato
proprio
in
relazione
all’elemento
che
è
in
grado
di
rendere
costituzionalmente
compatibile
la
presunzione
assoluta:
e,
cioè,
lo
stabile
inserimento
in
una
organizzazione
criminale
con
caratteristiche
di
spiccata
pericolosità
(assente
nel
primo
caso,
presente
nel
secondo).
Secondo
quanto
più
volte
affermato
dalla
Corte
di
cassazione
(ex
plurimis,
Corte
di
cassazione,
sezione
sesta,
27
giugno-‐24
luglio
2013,
n.
32412;
Corte
di
cassazione,
sezione
seconda,
11
giugno-‐10
settembre
2008,
n.
35051),
anche
a
sezioni
unite
(Corte
di
cassazione,
sezione
unite,
30
ottobre
2002-‐ 21
maggio
2003,
n.
22327;
Corte
di
cassazione,
sezione
unite,
5
ottobre-‐28
dicembre
1994,
n.
16),
il
“supporto”
del
concorrente
esterno
all’associazione
mafiosa
può
risultare,
in
effetti,
anche
meramente
episodico,
o
estrinsecarsi
addirittura
in
un
unico
contributo:
circostanza
che
rende
ancor
meno
giustificabile
tanto
la
totale
equiparazione
del
concorrente
esterno
all’associato
(il
cui
“supporto”
è,
invece,
per
definizione,
stabile
e
duraturo
nel
tempo),
quanto
l’omologazione
delle
diverse
modalità
concrete
con
cui
il
concorso
esterno
è
suscettibile
di
manifestarsi,
ai
fini
dell’esclusione
di
qualunque
possibile
alternativa
alla
custodia
carceraria
come
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