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dopo
che
il
d.l.
n.
11
del
2009
aveva
esteso
il
regime
speciale
ad
un
eterogeneo
complesso
di
altre
figure
criminose,
si
caratterizza
per
due
aspetti
di
rilievo
agli
odierni
fini.
L’art.
275,
comma
3,
cod.
proc.
pen.
è
stato
dichiarato,
di
volta
in
volta,
parzialmente
illegittimo
in
rapporto
ad
un
determinato
reato
o
gruppo
di
reati,
ponendo
in
evidenza
la
differenza
strutturale
tra
essi
e
i
fatti
di
criminalità
mafiosa.
Il
tratto
nodale
di
questi
ultimi,
idoneo
a
giustificare
la
presunzione,
è
stato,
peraltro,
specificamente
identificato
nell’«appartenenza»
dell’indiziato
all’associazione
mafiosa.
Ribadendo
un
principio
già
ad
altri
fini
affermato
(sentenza
n.
139
del
2010),
questa
Corte
ha
rilevato
che
le
presunzioni
assolute,
specie
quando
limitano
diritti
fondamentali
della
persona,
violano
il
principio
di
eguaglianza
se
sono
arbitrarie
e
irrazionali,
cioè
se
non
rispondono
a
dati
di
esperienza
generalizzati,
riassunti
nella
formula
dell’id
quod
plerumque
accidit:
evenienza
che
si
riscontra
segnatamente
allorché
sia
“agevole”
formulare
ipotesi
di
accadimenti
reali
contrari
alla
generalizzazione
posta
a
base
della
presunzione
stessa.
Con
riguardo
ai
«delitti
di
mafia»,
la
presunzione
posta
dall’art.
275,
comma
3,
cod.
proc.
pen.
appariva
in
grado
di
superare
una
simile
verifica.
Ciò,
in
ragione
del
fatto
che
«l’appartenenza
ad
associazioni
di
tipo
mafioso
implica
un’adesione
permanente
ad
un
sodalizio
criminoso
di
norma
fortemente
radicato
nel
territorio,
caratterizzato
da
una
fitta
rete
di
collegamenti
personali
e
dotato
di
particolare
forza
intimidatrice»:
donde
la
condivisa
regola
d’esperienza
–
evocata
anche
dalla
Corte
europea
dei
diritti
dell’uomo
nella
sentenza
6
novembre
2003,
Pantano
contro
Italia
–
per
cui
solo
la
custodia
carceraria
può
ritenersi
in
grado
di
«troncare
i
rapporti
tra
l’indiziato
e
l’ambito
delinquenziale
di
appartenenza,
neutralizzandone
la
pericolosità»
(sentenza
n.
265
del
2010).
Analoghe
connotazioni
criminologiche
non
erano,
di
contro,
riscontrabili
in
rapporto
ad
altre
–
e
pur
gravi
–
figure
delittuose
assoggettate
al
regime
cautelare
speciale:
figure
che
–
oltre
a
presentare
disvalori
nettamente
differenziabili
–
in
un
numero
non
marginale
di
casi
non
postulavano,
tenuto
conto
delle
caratteristiche
dei
fatti
incriminati,
esigenze
cautelari
affrontabili
solo
con
la
massima
misura.
Con
riferimento
ad
esse,
la
norma
censurata
violava,
dunque,
«sia
l’art.
3
Cost.,
per
l’ingiustificata
parificazione
dei
procedimenti
relativi
ai
delitti
in
questione
a
quelli
concernenti
i
delitti
di
mafia
nonché
per
l’irrazionale
assoggettamento
ad
un
medesimo
regime
cautelare
delle
diverse
ipotesi
concrete
riconducibili
ai
paradigmi
punitivi
considerati;
sia
l’art.
13,
primo
comma,
Cost.,
quale
referente
fondamentale
del
regime
ordinario
delle
misure
cautelari
privative
della
libertà
personale;
sia,
infine,
l’art.
27,
secondo
comma,
Cost.,
in
quanto
attribui[va]
alla
coercizione
processuale
tratti
funzionali
tipici
della
pena»
(sentenza
n.
265
del
2010).
A
determinare
i
rilevati
vulnera
non
era,
peraltro,
la
presunzione
in
sé,
ma
il
suo
carattere
assoluto,
che
implicava
una
indiscriminata
e
totale
negazione
di
rilievo
al
principio
del
“minimo
sacrificio
necessario”.
L’art.
275,
comma
3,
cod.
proc.
pen.
è
stato
dichiarato,
quindi,
costituzionalmente
illegittimo
nella
parte
in
cui,
con
riguardo
alle
ipotesi
criminose
in
questione,
prevedeva
una
presunzione,
per
l’appunto,
assoluta
di
adeguatezza
della
misura
massima,
anziché
una
presunzione
solo
relativa:
superabile,
cioè
–
analogamente
a
quella
di
sussistenza
delle
esigenze
cautelari
–
ove
«siano
acquisiti
elementi
specifici,
in
relazione
al
caso
concreto,
dai
quali
risulti
che
le
esigenze
cautelari
possono
essere
soddisfatte
con
altre
misure».
5.–
Le
considerazioni
ora
ricordate
e
la
conseguente
declaratoria
di
illegittimità
costituzionale,
riferite
inizialmente
a
taluni
delitti
monosoggettivi
a
sfondo
sessuale
(sentenza
n.
265
del
2010),
sono
state
successivamente
estese
ad
altre
figure
criminose,
comprendenti
–
oltre
a
reati
essi
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