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ostava, a livello di ordinamento nazionale ed europeo, alla rilevanza penale dell’abuso del diritto, in ragione del rispetto del principio di capacità contributiva (articolo 53, comma 1, della Costituzione) e del principio di progressività dell’imposizione (articolo 53, comma 2, della Costituzione), dovendosi desumere da tali principi che il contribuente non possa trarre indebiti vantaggi fiscali dall’utilizzo in modo distorto di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio fiscale in mancanza di ragioni economicamente apprezzabili che possano giustificare l’operazione. Dal divieto di abuso del diritto discendeva, dal punto di vista tributario, l’inopponibilità all’amministrazione finanziaria, per ogni profilo di indebito vantaggio tributario che il contribuente pretenda di far discendere dall’operazione elusiva, del negozio utilizzato per ottenere un’agevolazione o un risparmio di imposta. Mentre, dal punto di vista penale, secondo tale prospettazione, discendeva la rilevanza penale delle condotte elusive in materia fiscale che fossero state idonee a determinare una riduzione o una esclusione della base imponibile, e ciò senza che potesse ipotizzarsi alcun contrasto con il principio di legalità: infatti, si sosteneva, che tale principio, pur non consentendo la configurabilità della generale fattispecie della truffa, non sarebbe stato invece ostativo alla configurabilità degli illeciti speciali tributari, basati sulla dichiarazione fiscale e sull’infedeltà contributiva, rispetto a quelle condotte che siano idonee a determinare elusivamente una riduzione o una esclusione della base imponibile [cfr., tra le altre, Sezione III, 6 marzo 2013. Proc. Rep. Trib. Roma in proc. Bova; nonchè, Sezione IV, 20 novembre 2014, Bellavista Caltagirone, e Sezione V, 23 maggio 2013, Della Gatta].
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