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Alfredo Rocco: La scienza del diritto privato in Italia negli ultimi cinquant'anni.

Quali fossero le condizioni della scienza e dell'insegnamento del diritto privato in Italia nella prima metà del secolo decimonono, risulta dalla sobria descrizione che ce ne ha lasciato un osservatore autorevolissimo, imparziale e benevolo, profondo conoscitore della vita italiana e della storia nostra: Federico Carlo di Savigny.
L'insigne storico e giurista tedesco pubblicava nell'annata 1828 della Zeitschrift fur geschichtliche Rechtswissenschaft (pag. 201-228) uno scritto sopra l'insegnamento giuridico in Italia, i cui giudizi sono tanto più severi nella sostanza quanto più temperati nella forma, e colpiscono tanto più giusto, quanto più sono ispirati non da malevolenza o da diffidenza, ma da viva simpatia e da amichevoli fiducia nelle forze e nell'avvenire del genio italico. Questo scritto il Savigny ristampava, con qualche piccolissima aggiunta, nel 1850 (1) e con la sola avvertenza preliminare che se avesse dovuto scrivere in quell'anno, avrebbe potuto dare notizie più consolanti, specie riguardo alle condizioni delle Università toscane.

(1) Vermischte Schriften, IV (Berlino, 1850), pag. 309-342

Ma, in sostanza, si può dire che, ancora intorno al 1850, la scienza e l'insegnamento del diritto privato in Italia erano in una fase di profonda decadenza.
Lo studio del diritto romano, che pure era diritto vigente in taluni Stati d'Italia, negletta completamente l'indagine immediata sulle fonti, e la ricerca storica si riduceva all'esposizione delle dottrine di qualche scrittore più in voga, per lo più al volgarizzamento delle Istituzioni dell'Eineccio. Savigny nel 1828 nota che l'insegnamento del Villani, professore di testo civile nell'Università romana, poteva assomigliarsi a quello che s'impartiva trent'unni prima nelle Università tedesche (1).

(1) Verm. Schriften, IV, p. 323-325; v. anche p. 326-227

E si trattava di un giovane professore e non privo di qualche merito.
Nè in migliori condizioni versava lo studio del diritto civile e commerciale e quello della procedura. Interrotta la continuità della nostra tradizione giuridica dalla introduzione dei codici francesi, l'elaborazione nazionale del diritto privato, che ebbe sempre sprazzi di vivida luce, anche in tempi di decadenza, ne rimase come paralizzata. L'attività scientifica in questi rami del diritto si esaurì pertanto quasi del tutto nelle traduzioni delle opere francesi, brutte traduzioni per lo più, che restano 3 documentare lo stato della cultura nei giuristi italiani dell'epoca, e non soltanto della cultura giuridica.
Quali poi fossero le condizioni degl'insegnanti e dell'insegnamento e quale contributo potesse portare la Università al progresso degli studi del diritto, risulta, tra l'altro, dalla testimonianza dello stesso Savigny. Ecco come, dopo aver rivelato i difetti dell'insegnamento, mancanza della storia interna del diritto, mancanza di connessione tra la dogmatica e l'esegesi, il Savigny giudica i professori dell'Università romana: "Perchè potessero sparire questi difetti occorrerebbe soprattutto che prendesse radici un giusto concetto dello studio del diritto, ma anche che i professori oltre la buona volontà avessero il tempo di proseguire questo concetto coi loro propri studi. Villani, ad esempio, avrebbe inclinazione e capacità a diventare un buon insegnante, ma egli è, inoltre, Uditore del Camerlengo, vale a dire Consigliere relatore al Ministero dell'interno: questo ufficio gli occupa in maggior parte della giornata, ed il professorato diventa di necessità una cosa accessoria" (1).

(1) Verm. Schriften, IV, pag. 327

E di Francesco Avellino, professore di istituzioni giustinianee a Napoli, fra i migliori dell'Ateneo napoletano, e degli altri insegnanti di questa Università, non parla diversamente: "Fra i professori qui nominati Avellino potrebbe avere un valore scientifico più di qualunque altro. Egli è un colto, intelligente uomo di mezza età, i cui mutamenti di occupazione possono dare un'idea della mobilità della vita napoletana. Prima fu professore di letteratura greca, poi di economia politica, ora lo è di istituzioni; ma la materia di cui si occupa di preferenza e con maggior passione, è la numismatica. Inoltre, sotto il Ito Gioacchino curò l'istruzione dei principi reali. Ma eccellente egli è soprattutto fin dalla sua prima gioventù come avvocato, e questa occupazione gli porta via anche oggi la maggior parte del suo tempo. Così anche gli altri professori di legge sono o impiegati dello Stato o avvocati, ed il professorato diventa per essi una pura cosa accessoria" (1).

(1) Verm. Schriftem, IV, pag. 330-371

Peggio poi i professori delle Università toscane. "Tutte le Pandette - dice il Savigny - si riducono ad alcune misere esposizioni di dottrine sconnesse, ed arbitrariamente ricavate. Così è impossibile, come so, per testimonianza di una persona molto colta, che ha studiato a Pisa, anche ad uno scolaro diligente, l'apprendere all'Università qualche cosa di soddisfacente" (1).

(1) Verm. Schriftem, IV, p. 318

Malgrado tutto ciò, il giudizio del Savigny sull'avvenire degli studi giuridici in Italia non è sfavorevole. "Secondo le descrizioni di molti viaggiatori si potrebbero ritenere le condizioni intellettuali dell'Italia odierna come completamente disperate, ma chi osserva le cose senza pregiudizio e con animo aperto e libero, devo sicuramente giudicare in modo diverso. Egli troverà anche oggi la nazione riccamente dotata, capace di una cultura superiore, che nei secoli passati tenne il primo posto in Europa. Le qualità, per le quali essa acquistò allora il primato nella cultura, possono essere assopite, ma non spente. Sa si volesse tendere fortemente, volentierosamente la mano alla nazione, essa si mostrerebbe degna del suo grande passato, e presto entrerebbe in nobile gara col resto dell'Europa" (1).

(1) Verm. Schriften, IV, pag. 311

Questo avvenire migliore era meno lontano di quanto il Savigny stesso avrebbe pensato. Tuttavia il cammino da percorrere era grande e grandi le difficoltà che si frapponevano al compimento di un lavoro fruttuoso.
Primo ostacolo, la servitù politica che aveva accasciato gli animi dei più deboli, e concentrate le energie dei più forti nelle lotte per la libertà.
Secondo ostacolo, il disprezzo per la cultura straniera, ed in particolare per la cultura tedesca, frutto in parte di ignoranza, in parte di falso patriottismo, che impediva agli italiani di conoscere o di sfruttare tutto il ricchissimo materiale scientifico accumulato, specialmente in Germania, dove così intensa elaborazione aveva avuto il pensiero giuridico nel secolo decimonono. Ed ancora dopo parecchi anni dalla unificazione politica, nel 1869, nell'assumere la direzione dell'Archivio giuridico, Filippo Serafini poteva scrivere: "Culla della scienza del diritto all'epoca romana, sede del risorgimento dei buoni studi giuridici nel medio-evo, patria di profondi giuristi in ogni tempo, l'Italia si è riposata neghittosa sui mietuti allori, e lasciò passare senza contesa alle vicine nazioni quel primato che aveva un di formato la sua gloria più bella. da molti anni, l'Italia, fatte poche illustri eccezioni, non dà segno di vita nel campo del pensiero giuridico" (1).

(1) Serafini, Arch. giur. 111 (1869), pag. 229

Ciò, tuttavia, non vuol dire che alcuni buoni germi non vi fossero. Furono, qua o là, alcuni dotti uomini, che davano opera con vigore d'ingegno agli studi di diritto privato e processuale; cito fra gli altri, Giuseppe Pisanelli, Antonio Scialoia, Nicola Rocco, Matteo Pescatore. Ma l'ambiente sociale non era favorevole ad un lavoro fruttuoso: mancava poi soprattutto l'opera collettiva e continua senza la quale anche gli sforzi di talune menti privilegiate, di cui l'Italia nostra non ha mai avuto difetto, rimangono manifestazioni isolate e prive di influenza sul progresso della scienza mondiale. Questa opera collettiva e continua non era possibile, principalmente perchè l'Università, a cui spetta appunto il compito di diffondere la cultura, di fornire mezzi per la ricerca, di migliorare il metodo dell'indagine, viveva miseramente del tutto fuori delle grandi correnti del pensiero scientifico internazionale.
I primi segni del risveglio seguirono di poco l'unità politica.
Conquistata la libertà di discussione e di critica, calmata la febbre delle cospirazioni e dello lotte, reso possibile, con l'ottenuta indipendenza politica, un più ponderato giudizio sulla cultura e sulla scienza straniera, l'ambiente era divenuto di assai più proporzionato ad un miglior sviluppo della scienza del diritto.
Le Università che avevano intanto ottenuto dalla Legge Casati un assetto, intorno al quale ancora oggi deve esprimersi un giudizio favorevole, compresero l'importanza del compito loro spettante nella rinnovata società italiana. E nelle Università ebbe inizio il movimento destinato a rifare la nostra cultura giuridica: nelle Università fu preparato, ed in buona parte compiuto, il lavoro che era divenuto più urgente, dopo tanti e tanti anni di neghittoso isolamento scientifico: l'assimilazione della cultura straniera. La creazione di una scienza giuridica italiana, la partecipazione attiva della patria nostra ai progressi della scienza del diritto, sarebbero state vane speranze, fino a che in Italia si fosse continuato ad ignorare ciò che si faceva oltre alpe, nel campo del pensiero giuridico. Prima di creare e per potere creare, i giuristi italiani dovevano incominciare con l'apprendere.
Il primo periodo del rinnovamento degli studi del diritto in Italia è, dunque, di necessità un periodo di assimilazione.
Il compito che gli studiosi italiani del diritto privato si proposero nel ventennio che seguì il sessanta, fu quello di impadronirsi della cultura giuridica straniera, e particolarmente tedesca, di apprendere e divulgare i metodi di ricerca, di creare la passione e l'abitudine dell'indagine scientifica.
I pochi studiosi, che già prima del sessanta con l'insegnamento e con gli scritti si adoperarono ad accrescere la cultura giuridica nazionale, facendo conoscere agli italiani ciò che si era fatto e che si stava facendo in Germania (cito fra gli altri il Conticini a Pisa, il Polignani a Napoli, il Bellavite e il Serafini a Pavia), non avevano potuto esercitare che una scarsa influenza sul movimento scientifico italiano. Il loro piccolo numero la difficoltà e le diffidenze d'ogni genere donde erano circondati rendevano presso che sterile l'opera loro. Soltanto negli anni che seguirono la costituzione del regno d'Italia, le fatiche di questi valentuomini cominciarono a fruttificare. Non solo il loro numero si accrebbe, ma il lavoro di ciascuno si intensificò e l'opera di tutti si andò coordinando e divenne più organica e sistematica.

In questo rinnovato ardore di indagini, lo sforzo maggiore si appunto - come sempre avviene pei periodi di rinnovamento della cultura giuridica - verso il diritto romano. Dalla Germania, nelle cui Università accorrevano i nostri giovani studiosi ad ascoltare l'insegnamento dei più celebri cultori del diritto romano, si appresero non soltanto i risultati della scienza, ma s'imparò e si divulgò il metodo della ricerca: ritornò in fiore lo studio diretto delle fonti e quello della storia interna ed esterna del diritto. Questo lavoro, di cui impulso fu dato dalle Università, fu anche compiuto nell'ambito delle Università. Ed alla Università appartengono come professori ufficiali o come privati docenti tutti i volentierosi per merito dei quali l'Italia potè, nel volgere di pochi lustri, rinnovare completamente la sua cultura romanistica.
All'attività didattica si congiunge ora l'attività scientifica. Nicola De Crescenzio volgarizza nel Sistema di diritto civile romano i migliori risultati della scienza tedesca; Francesco Filomusi-Guelfi, con le traduzioni dei lavori del Keller e dello Scheurl e con le ricerche personali sul processo contumaciale, inizia, si può dire, presso di noi lo studio scientifico del processo civile romano; Francesco Schupfer espone col completo possesso della letteratura nostrana e straniera, il diritto delle obbligazioni; Francesco Buonamici cogli studi sul Poliziano Giureconsulto dà un bell'esempio di ricerche originali sulla storia del diritto romano in Italia; con lo scritto sulle legis actiones dà opera alla conoscenza del processo civile romano; con molti studi critici e recensioni segue con vivo ardore i lavori dei giuristi tedeschi; Guido Padelletti, giovane di forte ingegno, di amplissima cultura, di sorprendente attività, troppo presto rapito alla scienza, in pochi anni con una serie di monografie, recensioni, articoli critici, o infine con un completo manuale di storia del diritto romano, che fu presto tradotto, onore non isperabile fino a pochi anni prima, in lingua tedesca, dà un gagliardo impulso agli studi di storia del diritto romano (1)

(1) Cfr. BRUNS, Kril. Vierteljahrschrift, XX, 513 e segg.

In tutto questo fecondo movimento di pensiero due nomi vanno in modo particolare segnalati: Filippo Serafini ed Ilario Alibrandi. Questi due giuristi, che vissero nella stessa epoca (l'Alibrandi, nato nel 1823, era di soli otto anni più vecchio del Serafini) che coltivarono con pari ardore la stessa disciplina, il diritto romano, furono, per le qualità dell'ingegno e dell'animo, l'uno la perfetta antitesi dell'altro.
Il Serafini educato nelle Università germaniche, s'impadronì subito della cultura tedesca o del metodo di studio che aveva dato frutti così copiosi in Germania. Spirito liberale, sentì la necessità di un rinnovamento della nostra cultura giuridica, ed ebbe il merito grandissimo di vedere e seguire con fiducia e con fermezza la via, che poteva condurre a questa altissima meta. Assunta nel 1869 la direzione dall'Archivio giuridico, rivista fondata l'anno innanzi da Pietro Ellero, la quale aveva durante il primo anno di vita dato veramente frutti non molto notabili, egli, mentre dalla cattedra spronava i giovani allo studio del diritto, e con cura amorosa incoraggiava quelli, che terminati i corsi universitari, dimostravano amore alla ricerca, con riviste critiche di scritti tedeschi, con riassunti e cenni bibliografici di monografie e trattati stranieri, con la traduzione arricchita di copiosissime indicazioni bibliografiche delle Pandette dell'Arntds, diffondeva in Italia la cultura romanistica e civilistica tedesca. Certo, il contributo originale che il Serafini recò allo studio del diritto romano non fu notevole, ma il suo nome resterà nella storia della nostra cultura giuridica come quello di un maestro eccellente, di un divulgatore alacre del metodo e dei risultati della scienza giuridica straniera, di un organizzatore geniale e fortunato, al cui impulso si deve in buona parte il rinnovamento degli studi di diritto romano in Italia.
Mentre il Serafini, direttore della più reputata rivista giuridica d'Italia, professore a Pavia, a Bologna, a Roma, a Pisa, acquistava fama di principe dei romanisti italiani, viveva ignorato a Roma Ilario Alibrandi, singolare figura di insegnante e di scienziato. Discepolo del Villani, sul cui insegnamento il Savigny aveva emesso il non certo favorevole giudizio che abbiamo ricordato, l'Alibrandi rinnovò completamente il metodo della ricerca negli studi di diritto romano. Profondo latinista e giurista, conoscitore meraviglioso delle fonti latine e greche di ogni genere, giuridiche e letterarie, dotto archeologo, studiò il diritto romano con quell'indirizzo storico critico, che doveva prevalere solo molti anni dopo. In un'epoca, in cui anche in Germania le menti dei giuristi più eletti si affaticavano in un'ermeneutica artificiosa, in cui ogni sforzo si dirigeva a cercare le più assurde conciliazioni fra i vari testi del corpus iuris, che si interpretava come può farsi di un codice moderno, l'Alibrandi rivolse i suoi studi verso la splendida giurisprudenza classica, i cui principi egli tentò di restituire nella loro genuina figura. A questo scopo egli ricercò le alterazioni subite dagli scritti dei giureconsulti classici nella compilazione giustinianea, utilizzò le nuove fonti giuridiche, in ispecie le Istituzioni di Gaio ed i frammenti vaticani, e gli scrittori non giuristi, sfruttò le iscrizioni, illustrando ed integrando quello che man mano erano messe in luce, adoperò le fonti greche, che, con meravigliosa intuizione, affermò contenere molti elementi classici degni di essere rilevati. In tal modo riuscì, molti anni prima del Lenel, a ricostruire singole parti dell'editto, ventidue anni prima dell'Eisele dimostrò che il concorso delle azioni nel diritto classico si riconnette alla consumazione processuale e che nella compilazione giustinianea fu alterato mediante numerose interpolazioni dei testi antichi; sedici anni prima dello Czyhlarz sostenne che tutta la materia dell'acquisto dei frutti da parte del possessore di buona fede la irrevocabile proprietà dei frutti. L'Alibrandi dunque non fu un precursore fra i romanisti italiani, lo fu anche fra i romanisti di tutto il mondo. Eppure questa mirabile tempra, che ignorando il tedesco, precorse anche la scienza tedesca, non ebbe, si può dire, alcuna influenza sul movimento scientifico italiano, e cade in una inesattezza storica l'Erman chiamando la scuola italiana di diritto romano, scuola dell'Alibrandi. Uomo modesto, alieno dal rumore, e non dotato di alcuno spirito di combattività, l'Alibrandi, che fin dal 1849 insegnava come Professore nell'Università di Roma, si dimise nel 1870, in seguito alle pressioni del partito cattolico a cui per lunga consuetudine era legato. Così, per un cumulo di circostanze intrinseche ed estrinseche, ed anche per la natura del suo metodo e delle sue indagini, che di troppo sorpassavano la cultura dei suoi contemporanei e lo stato della scienza romanistica italiana ai suoi tempi, l'Alibrandi, per molti e molti anni, fu quasi completamente ignorato dagli stessi italiani. La modesta cattedra che egli occupava presso l'Accademia pontificia di conferenze storico-giuridiche, non poteva dare alcuna diffusione al suo insegnamento, ed i non molti scritti, che la naturale ritrosia gli consentiva di pubblicare, erano inseriti in pubblicazioni troppo poco diffuse. Solo nell'ultimo periodo, quando incominciò a collaborare prima negli Studi e documenti di storia e di diritto, e poi nel Bollettino dell'istituto di diritto romano, i suoi lavori furono apprezzati ed utilizzati. Ma era stato necessario, perchè l'opera dell'Alibrandi fosse conosciuta e prendesse il suo posto nello sviluppo organico della scienza italiana, che l'Italia rinnovasse, prima, la sua cultura romanistica! In questa constatazione è tutto il valore dell'opera dell'Alibrandi, ma vi è anche il lato manchevole che essa ebbe, cioè la scarsa influenza esercitata sul rinnovamento della cultura italiana.

Mentre questo intenso lavoro si compiva, nell'ambito del diritto romano, anche lo studio del diritto privato italiano dava segni promettenti di risveglio.
Qui il lavoro non fu certamente così intenso, ma ebbe forse un carattere di maggior originalità, ciò che del resto era una esigenza propria della materia. Se per il diritto romano era necessaria e sufficiente la assimilazione e divulgazione della cultura straniera, per il diritto civile e commerciale occorreva qualche cosa di più: almeno l'adattamento delle dottrine straniere al diritto vigente in Italia; naturale perciò che in questo adattamento la scuola giuridica italiana tendesse ad assumere una fisionomia più caratteristica. Tuttavia non mancò, e non doveva, anche nel campo del diritto privato odierno, il lavoro di diffusione e di divulgazione del metodo e degli studi stranieri.
In tal lavoro primeggia, anche qui, Filippo Serafini. Per molti e molti anni egli seguì con copiosissimi scritti bibliografici, inseriti nell'Archivio giuridico, il movimento degli studi di diritto civile o commerciale nel Belgio, in Olanda ed in Germania; promosse, come direttore dell'Archivio, la conoscenza della ricchissima letteratura tedesca, pubblicando recensioni e traduzioni; fornì, nelle note alla traduzione delle Pandette dell'Arndts, copioso indicazioni bibliografiche sulla dottrina germanica. In questo lavoro il Serafini ebbe collaboratori quanti giovani in quell'epoca si dedicavano agli studi di diritto, ed a compiere queste modeste ma utili fatiche, egli incitava i discepoli e tutti gli studiosi che si rivolgevano a lui per aiuti e consigli.
Fra i molti che, collaborando nell'Archivio concorsero con recensioni ed articoli critici, a diffondere presso di noi la cultura civilistica straniera, sono da ricordare il Maierini ed il Forlani: del primo sono notevoli le numerose ed ampie recensioni e riviste bibliografiche di opere tedesche: del secondo gli scritti critici sulle persone giuridiche e sul diritto di pegno.
Ma notevole anche fu il rinnovamento che si iniziò nel metodo della ricerca e della esposizione, nel campo del diritto privato odierno.
La grande somiglianza tra i codici di diritto privato vigenti in Italia prima della unificazione, e anche fra i nuovi codici promulgati nel 1865, ed i codici francesi, aveva da lunghi anni conferito presso di noi grandissima autorità agli scrittori francesi di diritto civile e commerciale. Il magnifico sviluppo della giurisprudenza francese nella prima metà dei secolo XIX aveva come abbarbagliato i nostri giuristi: in modo che per lungo tempo si credette di non poter fare opera migliore che adoperare senz'altro gli scrittori francesi in più o meno ben fatte traduzioni, le quali in breve tempo inondarono il nostro mercato librario.
La promulgazione del codice civile e del codice di commercio migliorò, ma non di molto, le condizioni della scienza civilistica italiana: alle semplici traduzioni si sostituirono trattazioni italiane calcate sul modello degli esempi francesi. Le imitazioni furono, come spesso accade, infelici, e dovevano esserlo infallibilmente, giacchè la dottrina francese doveva i suoi pregi migliori, la limpidezza delle soluzioni, lo spirito pratico, l'abbondanza dell'operato giurisprudenziale, alla splendida e ricchissima giurisprudenza che si era formata nelle Corti e specialmente nella Cassazione di Francia, giurisprudenza piena di finezza, di senso pratico, di equità, la quale fornì alla dottrina francese un materiale ed una guida, che in Italia mancavano completamente.
Il rinnovamento operatosi negli studi di diritto romano, il contatto in cui per merito precipuo dei romanisti la scienza giuridica nostra entrò con quella tedesca, tutta informata ad uno spirito critico e sistematico ignoto alla dottrina francese, non fu senza influsso anche sullo svolgimento della nostra dottrina civilistica. Il mutamento qui avvenne più che lentamente, e ciò si comprende, se si consideri che, mentre lo studio del diritto romano era tutto o quasi tutto nelle Università, donde parti e dove si operò il rinnovamento della nostra cultura, quello del diritto civile e commerciale si compiva anche all'infuori delle Università, dove dominava ancora il metodo francese. Mentre dunque pullulavano i commentari, i trattati, gli articoli di giurisprudenza, nei quali tutta la trattazione consisteva nel riferimento delle opinioni di qualche scrittore francese ed in una esegesi pedestre, nelle Università andava germogliando il seme fecondo di un completo rinnovamento del metodo.
Notevole fu, anche sotto questo aspetto, l'opera del Serafini, il quale non solo come insegnante e come direttore dell'Archivio giuridico, ma anche con contributi personali, quali lo scritto sul telegrafo in rapporto alla giurisprudenza civile e commerciale, e le numerose riviste critiche di giurisprudenza, si adoperò ad elevare gli studi di diritto moderno.
Un altro romanista, il Bellavite, professore prima a Pavia, poi a Padova, con l'insegnamento e con gli scritti, fra cui le eleganti e dotte note illustrative e critiche del codice civile italiano, fu tra i primissimi ad introdurre nello studio del diritto civile il metodo sistematico, lo sfruttamento giudizioso del diritto romano, l'uso della letteratura germanica.
Romanisti e civilisti ad un tempo furono anche Francesco Filomusi-Guelfi, prima docente privato a Napoli, poi professore all'Università di Roma; Cesare Nani, che tenne la cattedra di storia del diritto a l'orino; Filippo Milone, libero docente e poi professore a Napoli. Il che prova come dal diritto romano venisse principalmente l'impulso al rinnovamento degli studi di diritto privato moderno.
Questo rinnovamento ebbe un contributo gagliardo, in un'opera ancora di formazione, dall'opera Carlo Francesco Gabba, professore filosofia del diritto o diritto civile, ingegno robusto, autore di note, monografie e particolarmente con un'opera sistematica di vasto respiro, la Teoria della retroattività delle leggi, fu tra i più efficaci rinnovatoli del metodo negli studi di diritto privato.
Non ebbe invece cattedra un altro pioniere, Angelo Maierini, giurista lucido e acuto, conoscitore profondo della dottrina tedesca, autore di un trattato sull'azione revocatoria e di svariatissime recensioni, studi critici, monografie; morto a trent'anni, nel vigore delle forze e dell'ingegno, quando dal molto che aveva dato si poteva arguire di moltissimo che avrebbe avuto da lui la scienza giuridica italiana.
Neanche appartennero all'Università altri due eminenti civilisti, che fiorirono in questo periodo: Assuero Tartufari e Giorgio Giorgi. Il metodo dell'indagine e della esposizione per cui vanno segnalati i loro scritti, che si allontana vigorosamente dalla pedestre imitazione dei commentari francesi, rende l'opera loro di grande importanza per il rinnovamento degli studiosi di diritto privato.

Anche il diritto commerciale, in quest'epoca, comincia ad essere coltivato di proposito, con metodo più rigoroso, con più vasta ed esatta conoscenza del diritto comparato.
Dalla scuola di Pavia, dove aveva insegnato Filippo Serafini, uscì Ercole Vidari, professore di diritto internazionale, poi di diritto commerciale in quella Università, che fu tra i pochissimi a studiare il diritto commerciale con metodo sistematico e con ampiezza di cultura economica e giuridica: il suo saggio sulla cambiale, gli scritti bibliografici e critici, e infine il vasto ed organico corso di diritto commerciale iniziarono il rinascimento degli studi di diritto commerciale, che il risveglio dei nostri traffici faceva oramai sentire come una viva necessità della pratica.
In quest'opera di rinnovamento vanno ricordati Alberto Marghieri, Adolfo Sacerdoti, David Supino, che nelle Università di Napoli, di Padova e di Pisa, con l'insegnamento e con gli scritti, collaborarono alla formazione di una scuola italiana di diritto commerciale.

Il ventennio così trascorso in un vasto lavoro di assimilazione e di preparazione della cultura giuridica non soltanto fruttò qualche pregevole contributo della scienza italiana allo studio del diritto privato, ma - e fu questo il lato più importante e significativo del grande sforzo compiuto - preparò il terreno per la creazione di una scuola giuridica nazionale. L'opera di ricezione del primo ventennio dalla unificazione politica, rese possibile l'opera di elaborazione indipendente del secondo ventennio.
S'intende che non conviene prendere alla lettera questa distinzione di epoche: il lavoro di assimilazione non si può dire certamente terminato con la prima, chè anzi rispetto a qualche ramo speciale del diritto, esso si è iniziato solo negli ultimi anni: così non sarebbe esatto affermare che nell'ultimo ventennio la scienza italiana del diritto si sia affermata vigorosamente con fisionomia propria in tutti i campi del diritto privato e della procedura: ciò che diremo mostrerà come molta strada ancora sia da percorrere per giungere a questa meta. Ma resta, in ogni modo, indubitato, che il primo e più urgente lavoro per la restaurazione degli studi giuridici in Italia, la conoscenza e la diffusione della cultura straniera, fu in buona parte compiuto nel primo periodo; mentre nel secondo s'inizia la formazione di una scuola italiana di diritto privato.

Anche nel lavoro di ricostruzione il posto d'onore spetta al diritto romano. L'assimilazione dei risultati ottenuti all'estero, in questo campo fu più completa ed intensa; l'indole di questa scienza, più ardua, più lontana dai bisogni della pratica, ma per ciò stesso, più adatta ad assorbire completamente l'attività dello studioso: il fascino naturale che esercita sugli italiani lo studio del più meraviglioso prodotto della civiltà latina, e soprattutto l'esser fioriti in questo tempo romanisti, clte non furono solo scienziati valorosi, ma maestri appassionati e pazienti, tutto questo complesso di cause spiega il perchè della fortunata preminenza del diritto romano. Del resto le condizioni per uno sviluppo originale della scienza del diritto romano esistevano in questo periodo, ed era merito del lavoro fatto nel ventennio precedente, l'averle create.
Antesignani e fattori importanti di questo movimento, che doveva condurre alla creazione di una scuola italiana di diritto romano, furono Vittorio Scialoia e Carlo Fadda.
Scolaro del De Crescenzio, da cui derivò, più che il metodo di studio, il sentimento della nobiltà della scienza, e della grandezza del diritto romano (1), Vittorio Scialoia fu forse il primo a comprendere che era oramai giunto il tempo, per la scienza italiana del diritto, di affrancarsi dalla dipendenza straniera e di correre libera per la propria via. Quel singolare e finissimo spirito critico, che è stata sempre la più saliente delle sue facoltà, gli rese possibile, iti mezzo all'universale venerazione per tutto quanto si faceva oltr'alpe, di reagire sulla stessa dottrina straniera, e di sottoporre anche questa ad una critica, da cui dovevano di necessità balzare gli elementi per la ricostruzione originale. E perchè era proprio questo che abbisognava ai nostri giuristi, non è esagerato dare a Vittorio Scialoia il merito di aver contribuito potentemente alla creazione di una scuola giuridica italiana. Dire di più dell'opera sua, assegnare a questa il posto che le spetta nel movimento del pensiero italiano contemporaneo, non è possibile oggi, mentre ancora tutti sentiamo la viva attrazione di un intelletto così potentemente dotato. Ma chi legga ciò che egli, a venticinque anni, scriveva intorno al problema ed al metodo dell'insegnamento universitario (2), non può meravigliarsi se la maggior parte dei romanisti che insegnano nelle Università italiane, e molti dei cultori delle altre disciplino giuridiche: che coprono cattedre universitarie, siano effettivamente o si professino spiritualmente suoi discepoli.

(1) Ricordo delle onoranze a V. Scialoia, Prato, 1905, Discorso di V. Scialoia, p. 20

(2) Scialoia, Sul metodo d'insegnamento del dir. rom. nelle Università italiane, Arch. Giur. XXVI (1881), p. 486 e segg.

Il possesso completo della letteratura giuridica tedesca, che avrebbe assorbito e forse asservito un intelletto meno vigoroso, fu invece in Carlo Fadda ragione per dominare la scienza germanica, e per porsi di fronte ad essa, in una condizione di perfetta uguaglianza. Così egli potè, in una critica indipendente, percorrere da gran signore quasi tutto il campo del diritto romano e, tempra davvero gagliarda di giurista, usare dei nuovi metodi di esegesi, senza abusarne, opponendosi anzi ragionevolmente alle esagerazioni dei troppo facili improvvisatori. Come giurista egli ha avuto sempre squisito il sentimento del valore pratico del diritto romano, e fra i romanisti italiani contemporanei è forse quello, da cui più vigoroso impulso hanno ricevuto gli studi di diritto privato attuale.
La propaganda assidua ed entusiasta del Serafini, l'esempio dello Scialoia e del Fadda non furono senza frutto; chi già teneva il campo lavorò con più intensa lena: una schiera numerosa di giovani sorse a esplorare il mondo giuridico romano, con l'intento di portare alla sua conoscenza il contributo filiale del genio italiano; il movimento scientifico, intensificandosi, si fece più organico: lo stesso Alibrandi, che per tanti anni aveva lavorato isolato ed ignoto, fu attratto da questo movimento, vi si mescolò con nuova energia, prendendo fra i romanisti italiani il posto che gli spettava.
In questo periodo di febbrile lavoro ricordata anzitutto l'opera di un illustre estinto: Contardo Ferrini. Poche vite furono così operose e così feconde di risultati, come quella di lui, scomparso a quarantatre anni, dopo aver fatto tanto per la scienza del diritto romano, che la metà sarebbe bastata a creare la fama di qualunque studioso. Per l'indirizzo delle sue ricerche e per l'indole della cultura, se non per la natura dell'ingegno che fu d'assai più fecondo, il Ferrini si può rassomigliare all'Alibrandi. Dottissimo filologo, profondo conoscitore della lingua latina e della greca, sovrano nella padronanza delle fonti, egli continuò l'indirizzo storico critico dell'Alibrandi. Lo studio del diritto greco, così importante per la conoscenza del diritto romano, fu il primo lavoro a cui si accinse il Ferrini, e durante tutta la sua vita fu uno dei campi che coltivò con maggior predilezione e profitto. Egli contribuì, fra l'altro, vigorosamente a stabilire l'importanza delle fonti greche per lo studio del diritto romano classico. Delle fonti bizantine fu editore ed illustratore espertissimo: a lui si deve l'edizione della parafrasi delle istituzioni attribuita a Teofilo, a lui l'edizione degli scolii inediti dello Pseudo Teofilo e gli altri testi minori graco-romani: a lui unitamente al Mercati la scoperta e l'edizione di alcuni libri dei Basilici, che formarono il libro VII da essi aggiunti all'edizione dell'Heimbach: a lui ancora ed al Mercati l'edizione dell'Heimbach, a lui la traduzione del libro romano-siriaco. Tale fama egli acquistò per la conoscenza delle fonti bizantine, che lo Zacharias von Lingenthal, principe di questi studi, volle il Ferrini continuatore dell'opera propria e lo lasciò erede di tutti gli studi e dei manoscritti che aveva preparati. Nè di minore importanza che nel campo dello fonti, è l'opera del Ferrini in quello della storia interna e della dottrina del diritto romano. I suoi lavori sul diritto penale romano sono fra i migliori che siano stati pubblicati anche all'estero, e del suo trattato di diritto penale romano, inserito nella Enciclopedia del Pessina, può dirsi, vanto a cui pochi potrebbero aspirare, che per taluni rispetti esso è superiore allo stesso trattato del Mommsen. I numerosissimi Scritti di diritto privato romano, in ispecie il volume legali, e soprattutti l'eccellente manuale di Pandette, sintesi mirabile per precisione o concisione, costituiscono un formidabile contributo, di cui la scienza romanistica deve essere riconoscente all'Italia.
A questo lavoro, così considerevole, si deve aggiungere quello che una falange intera di studiosi andava contemporaneamente compiendo nei vari campi del diritto romano.
Nel campo delle interpolazioni lavorano, con risultati sicuri e subito apprezzati, Muzio Pampaloni, coi suoi belli ed originali studi sul delitto di furto; Alfredo Ascoli che collo scritto sulle obbligazioni solidali, risolve, contemporaneamente all'Eisele, un problema che aveva formato sino ad allora un enigma insolubile: Carlo Longo e Flaminio Mancaleoni, il primo specialmente coi suoi lavori sulle servitutes e sull'origine della successione particolare, il secondo con gli scritti sulla reivindicatio utilis.
Nel campo storico e dommatico, Pietro Bonfante dà una nuova, geniale concezione dell'eredità romana, che riverbera viva luce sugli istituti romani della famiglia e dell'eredità, e devo contarsi tra i migliori contributi della scuola italiana alla conoscenza del diritto romano; Silvio Perozzi con gli scritti sulla massima fructus servitutis esse non potest, sull'editto publiciano, sul concetto delle obbligazioni romane, avanza congetture sempre geniali, talora accettato come vere e definitive, su concetti o questioni fondamentali; Giovanni Pacchioni, con riferimento al diritto moderno, studia la negotiorum gestio, e i contratti a favore di terzi; Francesco Schupfer, con lo scritto sulle singrafe e sui chirografi, illumina di molta luce in vita giuridica dei romani.
Nel campo più propriamente storico Biagio Brugi studia in un libro aureo la dottrina dei gramatici in confronto con quelle dei Digesti, portando molta luce su tutto ciò che si riferisce alla divisione del suolo, alle vie, fiumi, ecc.: due insigni storici non giuristi, Ettore Pais ed Ettore De Ruggiero, illustrano genialmente le istituzioni primitive in Roma.
Nel campo della storia e della critica delle fonti Salvatore Riccobono imprende a studiare sistematicamente le opere e le dottrine dei giureconsulti classici, e continuando l'opera di Alibrandi e di Ferrini, ricerca il contributo del diritto greco alla formazione del diritto romano classico.
E ciò senza contare gli altri molti, le cui opere non è possibile qui menzionare, e che nel campo della storia, dell'esegesi, della dommatica, nello studio delle fonti latine e greche, nelle ricerche papirologiche, dettero all'Italia un posto eminente fra le nazioni del mondo, nello studio del diritto di Roma, ricordo soltanto i nomi di taluni dei più fecondi e benemeriti; Gino Segrè, Carlo Manenti, Federico Patetta, Cesare Bertolini, Emilio Costa, Siro Solazzi, Salvatore Di Marzo, Giovanni Baviera, Roberto De Ruggiero, Pier Paolo Zanzucchi.
In questo intenso movimento un fatto importante va segnalato: si riprendono le edizioni delle fonti, segno sicuro di risorgimento degli studi romanistici. Si pubblica una nuova edizione critica del Digesto, giunta ormai al XXVIII libro, si stampa un manuale di fonti, comprendente in giurisprudenza antegiustinianea, le leggi, senatoconsulti, costituzioni ed infine in versione latina del Ferrini del libro romano-siriaco; infine si riproduce in fototipia il famoso manoscritto fiorentino delle Pandette.

Nell'ambito del diritto privato attuale il cammino percorso non fu così rapido, come in quello del diritto romano. il diritto civile manca della universalità propria del diritto romano, che tanto favorisce lo scambio e la diffusione delle idee e dei risultati. Nel diritto civile il lavoro di assimilazione non è lavoro di ricezione mera, ma di adattamento: se esso quindi dà adito a qualche maggiore originalità, è anche necessariamente più lento. Nel diritto civile inoltre il compito della scuola nazionale è incomparabilmente più vasto; non si tratta più di contribuire al progresso di una scienza mondiale; si tratta di elaborare completamente, senza l'ausilio diretto della scienza straniera, tutto un corpo vastissimo di dottrine. Ciò spiega come, sebbene il lavoro fatto nel campo del diritto civile non sia stato meno intonso di quello fatto nel campo del diritto romano, in elaborazione scientifica di tutto il diritto civile italiano debba ancora dirsi incompiuta. Tuttavia anche qui i progressi sono stati grandi ed innegabili.
I pochi solitari che nel periodo antecedente studiavano scientificamente e sistematicamente il diritto civile, divengono in questo periodo, una folta o vigorosa schiera: si acquista la coscienza del metodo e se ne inizia la divulgazione. Ed appunto con una polemica intorno al metodo, si apre questo periodo. Un giovane giurista meridionale, Emanuele Gianturco, disputando sulla questione del metodo negli studi di diritto civile (1) delinea, con molta precisione e chiarezza, il compito della scuola italiana di diritto civile; trarre dalle nuove correnti della cita politica o sociale gli elementi vivificatori dell'indagine giuridica o questa condurre con metodo sistematico, sostituendo alla arida casistica ed al commentario pedestre, la ricerca dello linee generali e direttive degli istituti. Al Gianturco fanno eco Gian Pietro Chironi e Vittorio Polacco.
Queste polemiche non furono senza influsso sugli studi civilistici. La nuova scuola italiana di diritto civile si afferma appunto nell'indirizzo preconizzato dal Gianturco, dal Chironi e dal Polacco. Usando del metodo sistematico, condotto dai giuristi tedeschi a squisito grado di perfezione, i civilisti italiani di questo periodo si guardarono dal formalismo eccessivo e dalle astruserie metafisiche della dottrina tedesca: è merito della scuola italiana l'avere accoppiato all'uso delle generalizzazioni o della sistemazione, lo studio dell'elemento sociale del diritto, una visione più netta della funzione pratica della giurisprudenza.
In questa direttiva generale, il lavoro è stato assiduo e fecondo. Mentre il Gabba e il Filomusi-Guelfi continuavano nell'opera felicemente intrapresa, il primo con una moltitudine di monografie o note, raccolte poi in tre volumi di questioni di diritto civile, il secondo pure con molte note e con gli scritti sul diritto di successione, nuove e gagliarde forze entravano in campo.
Fra i pionieri sono da menzionare Gian Pietro Chironi che nei volumi sulla colpa e in quelli sui privilegi e le ipoteche tratta cuti copia di dottrina e vigore d'ingegno argomenti ardui e nuovi in Italia all'indagine scientifica; Vittorio Polacco, che con gli studi sulla divisione d'ascendente, sulla dazione in pagamento, e con molti scritti minori, indaga con precisione di concetti, con larga cultura, con fine intuito pratico, più svariati ed ardui problemi del diritto civile; Emanuele Gianturco, felicissima tempra di giurista teorico e pratico che, col lavoro delle fiducie, col primo volume di un sistema di diritto civile rimasto, purtroppo, incompiuto, con la prolusione su l'individualismo e il socialismo nel diritto contrattuale, dimostra come lo studio del sistema non possa andar disgiunto dall'analisi dell'elemento pratico del diritto (2)

(1) Gianturco, Gli studi del diritto civile e la questione del metodo nel Filangieri, 1881, 722, 724

(2) V. Polacco, In memoria di E. Gianturco negli Atti del R.. Istituto Veneto di Scienze, lettere ed arti, Venezia, 1907

Un ricordo speciale meritano anche più chiari ingegni anch'essi come il Gianturco troppo presto rapiti agli studi: Enrico Cimbali e Ferdinando Bianchi; il primo, pieno di giovanile fervore, propugnò nei suoi volumi sulla nuova fase del diritto civile, sul possesso per acquistare i frutti, sulla capacità di contrattare, il rinnovamento della legislazione e della scienza del diritto privato sulla base delle nuove esigenze sociali; il secondo, con gli scritti sul pegno commerciale, sulle servitù legali, e con una quantità di note, piccole monografie, pur preferendo l'indirizzo esegetico al dommatico, vi seppe portare tanto rigore di metodo o tanta abbondanza di dottrina, da riuscire civilista, sotto molti rispetti, eccellente.
A questi che furono i primi fondatori e primi cultori della nuova scienza italiana del diritto civile, si aggiunge ben presto un manipolo valoroso di lavoratori.
Vincenzo Simoncelli con una serie numerosa di scritti, fra cui particolarmente notevoli quelli sulla destinazione del padre di famiglia, sull'enfiteusi, sulla locazione, sulla custodia, adopera l'osservazione della odierna vita sociale per vivificare l'indagine giuridica, condotta sempre con la disciplina di un metodo rigoroso; Giacomo Venezian, con la monografia sull'usufrutto, con lo scritto sul danno e risarcimento allarga gli orizzonti della trattazione giuridica sfruttando una serie di materiali nuovi desunti dall'analisi economica e storica, dallo studio della giurisprudenza inglese e americana; Nicola Coviello, scrivendo sui giudicati di stato, sul mandato parificato, sul contratto estimatorio, sul caso fortuito, sulla successione nei debiti, sulla trascrizione, sulla responsabilità senza colpe, affronta con vigorosa analisi argomenti ardui, e colma ogni volta una lacuna nella letteratura civilistica italiana: Luigi Tartufari, con larghezza d'indagini reca un contributo notevole alla sistemazione, ancora troppo poco progredita in Italia, della parte generale del diritto privato delle obbligazioni, con le monografie sui contratti a favore di terzi e sulla rappresentanza nella conclusione dei contratti; Leonardo Coviello, con le monografie sui contratti preliminari, sulla vendita a prova, sulla quota indivisa, sul possesso dell'alienante, e con molti altri articoli e note, percorrere zone poco esplorate del diritto civile con quel sentimento squisito del diritto, che fa di lui il tipo del giureconsulto pratico, nel significato più genuino o più nobile della parola; Bartolomeo Dusi scrive sull'eredità giacente, sulla successione nel possesso per atto tra vivi, sulla filiazione, con vigoria di analisi giuridica o sicurezza di criterio filosofico; Ludovico Barassi ricostruisce, con ricchezza di materiali dottrinali e giurisprudenziali, la disciplina giuridica del contratto di lavoro nel vigente diritto positivo, sciogliendo uno dei desiderata della scienza civilistica.
Taluni valenti romanisti e storici vengono, in questo periodo, ad accrescere la falange degli studiosi intenti a creare la nuova scienza italiana del diritto civile: Carlo Fadda insieme al civilista Paolo Emilio Bensa traduce le Pandette del Windscheid arricchendole di bellissime note sul diritto vigente, da cui gli studi di diritto civile hanno avuto vigoroso impulso; Carlo Manenti scrive sul gioco e sulla scommessa, con acutezza e copia di dottrina; Alfredo Ascoli tratta l'argomento delle donazioni; Biagio Brugi pubblica un compendio di istituzioni di diritto civile pregevole sotto vari aspetti; Francesco Ruffini reca un contributo eccellente alla difficile teoria delle persone giuridiche. Nè qui si arresta l'attività dei civilisti italiani, fra cui, senza togliere nulla al merito degli altri, mi piace ricordare, fra i giovani, Giuseppe Messina e Francesco Ferrara.

Meno intenso, come comportava in materia assai più ristretta, ma più rigoroso e forse più organico, fu il lavoro compiuto nel campo del diritto commerciale.
Già vedemmo come nel periodo antecedente fosse stato assunto specialmente dal Vidari, il compito di restituire a dignità di scienza lo studio del diritto commerciale. Il terreno era assai ben preparato perchè il germe fecondo fruttificasse. Lo spirito eminentemente pratico del popolo italiano, le belle tradizioni che aveva in Italia il diritto mercantile, sorto appunto in Italia, dove fiorì anche in secoli di decadenza degli studi giuridici, il risveglio dei traffici che si andò iniziando, dopo superata la crisi economica che seguì l'unificazione politica, costituivano un complesso di condizioni assai favorevoli per uno svolgimento vigoroso ed originale di questa scienza.
Mentre il Vidari compiva la pubblicazione del suo corso di diritto commerciale e ne moltiplicava le edizioni, mentre il Supino seguiva con assidua attenzione i lavori preparatori del nuovo codice di commercio, mentre il Marghieri esponeva con semplicità e chiarezza l'organismo del nuovo diritto cambiario, e iniziava un'esposizione sistematica del diritto commerciale italiano, mentre il Sacerdoti, con articoli e piccole monografie, sperimentava in vari temi il suo robusto ingegno di giurista, nuove, promettenti energie accorrevano nel campo del diritto commerciale a recare un contributo gagliardo alla formazione di una scuola italiana. Lucio Papa D'Amico si rivolge alla storia del diritto commerciale: Leone Bolaffio - vigoroso ingegno - commenta sagacemente alcuni titoli del codice di commercio o di una moltitudine di monografie e note a sentenze illustra, con interpretazione spesso fortunata, i punti più controversi della nuova legislazione commerciale; Ulisse Manara lavora con precisione di concetti giuridici nel campo quasi inesplorato del diritto ferroviario: Luigi Franchi studia lo svolgimento del diritto commercialo, e tratta con acume punti importatiti del diritto delle assicurazioni e del diritto industriale.
Ma lo scrittore, che della nuova scuola italiana riassume le caratteristiche più eminenti, che procedè, fin dall'inizio, sicuro, con la piena coscienza del metodo, e per cui principalmente la scienza italiana del diritto commerciale assume una fisionomia propria ed autonoma, è Cesare Vivante. Fin dai primi scritti di diritto marittimo si afferma la personalità scientifica del Vivante, ma i frutti più maturi ed organici di questa tempra singolare di giurista, sono la monografia in tre volumi sul contratto di assicurazione, ed il trattato di diritto commerciale, opera vasta ed originale di ricostruzione sistematica del diritto commerciale vigente. Se nel Vivante non è la inflessibile logica giuridica del Thöl, nè l'ampiezza e profondità della cultura storica e romanistica del Goldschmidt, è in più alto grado la conoscenza della struttura tecnica e della funzione economica degli istituti di diritto commerciale, più squisito il senso delle esigenze pratiche del diritto. L'influsso esercitato dal Vivante sullo svolgimento della scienza italiana del diritto commerciale, fu considerevole.
Sull'esempio di lui il Bolaffio con raddoppiata energia lavora, con vedute proprie e brillantemente nei più svariati campi del diritto commerciale e in una serie di scritti sottopone a sagace critica l'opera del Vivante; il Manara illustra la teoria degli atti di commercio, e tratta diffusamente la dottrina della società; il Franchi inizia la pubblicazione di un buon Manuale di diritto commerciale, e con acume giuridico studia alcune speciali questioni sulle cambiali e sulle casse di risparmio.
Ma più direttamente sentirono l'influsso della mentalità eminente di Cesare Vivante coloro che egli ebbe effettivamente o spiritualmente suoi discepoli, cioè tutti quelli che dai suoi libri o dal suo insegnamento appresero il diritto commerciale.
Al Vivante spiritualmente si ricollega Angelo Sraffa, che di quello ha oltre il sentimento vivo della vita commerciale, la conoscenza della tecnica degli affari, e l'uno e l'altra sagacemente utilizza per la ricostruzione giuridica degli istituti, con la guida di un criterio sempre sicuro, e di una cultura attinta alle fonti più moderne. Dello Sraffa è da ricordare, oltre il contributo personale recato alla scienza con gli scritti sulle società e sul mandato, l'opera assidua che da oltre otto anni egli spiega come fondatore, insieme col Vivante, e direttore della Rivista di diritto commerciale e del diritto generale delle obbligazioni, pubblicazione che ha raccolto intorno a sè il fiore dei giuristi italiani, e che, a giudizio degli stessi stranieri, occupa oggi il primo posto tra le Riviste congeneri d'ogni paese.
Non posso chiudere questi brevi cenni senza ricordare gli altri egregi che contribuirono e contribuiscono a rendere viva e fiorente la scuola italiana di diritto commerciale: Arnaldo Bruschettini, autore di un buon trattato sui titoli al portatore, Umberto Navarrini, commentatore acuto e diligente delle disposizioni del codice sulle società commerciali; Alberto Vighi, robusto ingegno, troppo presto rapito ah scienza, che a lui deve notevoli saggi sulla personalità giuridica delle società commerciali, e sui diritti individuali degli azionisti; e fra i più giovani, Ageo Arcangeli, Antonio Scialoia, Alfredo De Gregorio.
E taccio degli altri molti valenti romanisti, civilisti, e storici, Pietro Bonfante, Gino Segrè, Luigi Tartufari, Leonardo Coviello, Giovanni Pacchioni, Silvio Perozzi, Arrigo Solmi, Francesco Brandileone, Ludovico Zdekauer, Alessandro Lattes, che così gagliardo contributo di forze hanno portato agli studi di diritto commerciale, allargando il campo della indagine e arricchendola di nuovi elementi dottrinali e storici. Oggi, si può dirlo senza esagerazione, la scuola italiana di diritto commerciale si afferma con caratteri propri di fronte alle scuole straniere; in confronto della francese, essa si distingue per una maggior cura del sistema, per una più profonda analisi dei Concetti giuridici, per una tendenza più precisa alla costruzione organica degli istituti: di fronte alla scienza tedesca, essa ha il merito di uno studio più accurato dei fatti, di un sentimento più vivo della realtà dei rapporti sociali, di una maggiore lucidezza nella concezione o nella esposizione.
In questo campo la scienza non ufficiale ha dato una delle più complete figure di giurista dell'Italia contemporanea, che ha lasciato davvero un'orma non cancellabile in quest'ordine di studi: Gustavo Bonelli, di cui il commento sul fallimento, e gli studi sulla società e sui titoli di credito sono tra le più vigoroso e profonde trattazioni della nostra letteratura giuridica. Al Bonelli spetta il merito di aver affermato e propugnato, con risultati sotto ogni aspetto eccellenti, la necessità di un indirizzo più strettamente sistematico nello studio del diritto commerciale.

Non così fortunato come le scienze sorelle fu il diritto processuale, di cui veramente più per ragioni di connessione che di appartenenza io mi occupo, in questa rapida rassegna storica, che concerne principalmente il diritto privato.
Le cause di questo più imperfetto sviluppo non sono difficili a rintracciarsi: da un canto il falso concetto che lo studio del processo non appartenga tanto alla scienza del diritto, quanto alla pratica del foro: dall'altro l'intima connessione del diritto processuale con gli altri rami del diritto pubblico, a cui più propriamente appartiene, e che rendeva impossibile la costituzione in Italia di una scienza del diritto processuale, sino a che non si fosse elevato a dignità di scienza lo studio del diritto pubblico, per tanti anni in Italia divagante nello vacue e nebulose generalità sociologiche e politiche.
La bella eredità lasciata da Antonio Scialoia, Giuseppe Pisanelli e Pasquale Stanislao Mancini, i quali nel loro commentario del Codice di Procedura per gli Stati Sardi, dettero un saggio per i tempi meraviglioso, di trattazione scientifica della procedura, non fu, si può dire, raccolta, dalla rinnovata scienza italiana del diritto.
Nè l'ingegno profondo del Pescatore, tutto pregno di una filosofia antiquata anche per i suoi tempi, riuscì a dare un concetto organico del processo. Gli studi processuali consistettero dunque in meschine esegesi del codice; e neppure si iniziò per la procedura quel lavoro di divulgazione della dottrina tedesca che, con così largo profitto si andava invece compiendo nei vari rami del diritto privato.
Di tanto più notevole appare perciò l'opera di un procedurista che fu ignoto a molti: Domenico Viti, professore all'Università di Napoli. Eppure il suo commento sistematico sul codice di procedura scritto con profonda conoscenza della storia e della letteratura, concepito largamente, rimane anche oggi tra le migliori opere sul codice di procedura vigente e meriterebbe una diffusione assai maggiore, di quella che gli abbia consentita la modestia eccessiva dell'autore, a cui faceva purtroppo difetto una delle qualità indispensabili dello scienziato, la virtù di propagare le proprie idee e il proprio metodo di ricerca.
Per queste ragioni e mentre si moltiplicavano i commentari pedestri e le meschino controversie esegetiche. mancarono per lunghi anni gli studi scientifici sul diritto processuale.
Il primo compiuto trattato sistematico scritto sul codice di procedura italiana, quello del Mattirolo, pur esso pregevole sotto vari aspetti, ma difettoso totalmente dal lato dell'indagine storica e dei concetti fondamentali sull'essenza del processo, sulla sua natura, sulla costruzione dei rapporti processuali, se potè costituire una buona guida pei pratici, poco o punto servi a far progredire la scienza.
Il primo tentativo di sistemazione scientifica del diritto processuale fu quello di Lodovico Mortara, professore a Pisa e a Napoli, ora Procuratore generale alla Cassazione di Roma. Questo grande giurista compreso che il segreto per la sistemazione scientifica del processo, sta nel ricollegarne le nozioni ai principi fondamentali del diritto pubblico, o con sicurezza meravigliosa di intuito si accinse a un'alta opera di ricostruzione completa nel Commentario al Codice e alle leggi di procedura civile, trattato sistematico di vasta mole, dove è messo in evidenza per la prima volta in modo esauriente il lato pubblicistico del processo, ne sono rilevati i nessi col diritto costituzionale e amministrativo, e si trae finalmente il diritto processuale dalla morta gora dell'esegesi.
Dopo l'impulso dato dal Mortara le ricerche scientifiche nel campo processuale si intensificano: si sfrutta la dottrina straniera, si approfondisce l'indagine storica, indispensabile in questa scienza più che in ogni atra, per intendere gli istituti del diritto vigente. Antonio Castellari, professore a Genova e a Torino, studia con larghezza di indagini storiche e copia di dottrina, la materia della competenza; Giuseppe Chiovenda, professore a Parma, a Bologna, a Napoli, a Roma, reca preziosi contributi alla storia del processo, orienta con lo scritto sull'azione la dottrina italiana su alcuni problemi fondamentali del diritto processuale, e nel manuale di diritto processuale illumina di nuova luce, col sussidio della dottrina tedesca, tutti gli istituti del processo; Federico Cammeo ricostruisce con vasto disegno il sistema della giustizia amministrativa; Francesco Menestrina con gli scritti sull'esecuzione e sulle questioni pregiudiziali mette più vivamente a contatto con la dottrina italiana la scienza e la legislazione germanica. Cosi lo studio del diritto processuale, anche per opera di altri benemeriti risorge a dignità di scienza.

Questa la ingente mole del lavoro compiuto, nell'ultimo cinquantennio. Sul quale varie cose sono da osservarsi.

Anzitutto la parte preponderante, anzi, quasi assorbente avuta in essa dalle Università. Il che torna certamente ad onore di questi centri di cultura e dimostra che, malgrado tutto, l'istituto universitario risponde al suo compito scientifico. Ma è, d'altro canto, indizio di una deficienza che non può ripercuotersi sfavorevolmente sullo sviluppo della scienza e della pratica del diritto in Italia. L'assenza quasi completa dei pratici dal campo del lavoro e della lotta per la creazione di una scuola giuridica italiana, ha, in parte, reso vano lo sforzo degli studiosi. Salve alcune notevoli eccezioni, la giurisprudenza italiana è rimasta quasi estranea a questo movimento, ed è anche torto della dottrina il non aver saputo trascinarvela che scarsamente. Non mancano invero i segni di un promettente risveglio anche sotto questo punto di vista, ma la separazione fra scienza e pratica è stata quasi completa fino a poco tempo fa e non è certo finita. Mentre la dottrina si rinnovava, la giurisprudenza rimaneva fedele ai vecchi esegeti e ingombrava le sue decisioni coi vecchi detriti delle polemiche dei commentatori francesi. Non voglio indagare da quale parte sia il torto: ma questa separazione d'intenti e di metodi dimostra che la scienza non ha raggiunto ancora completamente uno dei suoi scopi fondamentali: quello di costituire una guida sicura per l'applicazione pratica del diritto.

Del resto questa specie di isolamento, in cui la dottrina si è ridotta (e qui è un altro lato manchevole del movimento), si manifesta anche nel campo legislativo. La nuova scienza italiana del diritto privato non ha dato che una sola legge importante: il codice di commercio; e non si può dire che abbia saputo imprimervi un'impronta di originalità. Tutto il resto del movimento legislativo (salvo poche eccezioni, e metto fra queste due riforme che non hanno raccolto il consenso universale, la legge sul procedimento sommario, e l'altra sul concordato preventivo e i piccoli fallimenti) non ha sentito che poco o punto l'influsso della elaborazione scientifica che si veniva compiendo.

Infine non si deve nascondere che il progresso degli studi giuridici non è stato uguale in tutti i campi. Molto intonso nel campo del diritto romano, dove non è forse vana la speranza che sia per ritornare all'Italia quel primato negli studi romanistici, sfuggitele da tanti secoli; abbastanza notevole nel campo del diritto commerciale, dove la innegabile decadenza della dottrina francese e tedesca ha dato maggior risalto al promettente risveglio della nostra, esso non è stato sufficientemente rapido nel campo del diritto civile. Zone intere di questa scienza non sono ancora stato esplorate con metodo scientifico: mancano, a tacer d'altro. studi approfonditi sui contralti speciali e sul diritto di famiglia. Ma soprattutto è torto grave della dottrina civilistica italiana il non aver saputo dare un trattato completo di diritto civile che valga ad orientare ed illuminare i pratici.

Molto cammino si è fatto. Molto rimane ancora da percorrere. Lo sguardo al lavoro compiuto non deve essere fonte di sterile soddisfazione. ma deve servirci di incitamento a fare più e meglio, come dobbiamo e possiamo.