:: ORDINE
Alfredo Rocco: La scienza del diritto privato in Italia negli ultimi cinquant'anni.
Quali fossero le condizioni della scienza e
dell'insegnamento del diritto privato in Italia nella prima metà del secolo
decimonono, risulta dalla sobria descrizione che ce ne ha lasciato un
osservatore autorevolissimo, imparziale e benevolo, profondo conoscitore
della vita italiana e della storia nostra: Federico Carlo di Savigny.
L'insigne storico e giurista tedesco pubblicava
nell'annata 1828 della Zeitschrift fur geschichtliche Rechtswissenschaft
(pag. 201-228) uno scritto sopra l'insegnamento giuridico in Italia,
i cui giudizi sono tanto più severi nella sostanza quanto più temperati
nella forma, e colpiscono tanto più giusto, quanto più sono ispirati non
da malevolenza o da diffidenza, ma da viva simpatia e da amichevoli fiducia
nelle forze e nell'avvenire del genio italico. Questo scritto il Savigny
ristampava, con qualche piccolissima aggiunta, nel 1850 (1) e con
la sola avvertenza preliminare che se avesse dovuto scrivere in quell'anno, avrebbe potuto dare notizie più consolanti, specie riguardo
alle condizioni delle Università toscane.
(1)
Vermischte Schriften, IV (Berlino, 1850), pag. 309-342
Ma, in sostanza, si può dire che, ancora intorno al 1850, la scienza e l'insegnamento del diritto privato in Italia erano in una
fase di profonda decadenza. (1) Verm. Schriften, IV, p.
323-325; v. anche p. 326-227
E si trattava di un giovane
professore e non privo di qualche merito. (1)
Verm. Schriften, IV, pag. 327
E di Francesco Avellino,
professore di istituzioni giustinianee a Napoli, fra i migliori dell'Ateneo
napoletano, e degli altri insegnanti di questa Università, non parla
diversamente: "Fra i professori qui nominati Avellino potrebbe avere un
valore scientifico più di qualunque altro. Egli è un colto, intelligente
uomo di mezza età, i cui mutamenti di occupazione possono dare un'idea
della mobilità della vita napoletana. Prima fu professore di letteratura
greca, poi di economia politica, ora lo è di istituzioni; ma la materia di
cui si occupa di preferenza e con maggior passione, è la numismatica.
Inoltre, sotto il Ito Gioacchino curò l'istruzione dei principi reali. Ma
eccellente egli è soprattutto fin dalla sua prima gioventù come avvocato,
e questa occupazione gli porta via anche oggi la maggior parte del suo
tempo. Così anche gli altri professori di legge sono o impiegati dello
Stato o avvocati, ed il professorato diventa per essi una pura cosa
accessoria" (1).
(1) Verm.
Schriftem, IV, pag. 330-371
Peggio poi i
professori delle Università toscane. "Tutte le Pandette - dice il Savigny - si riducono ad alcune misere esposizioni di dottrine sconnesse, ed
arbitrariamente ricavate. Così è impossibile, come so, per testimonianza
di una persona molto colta, che ha studiato a Pisa, anche ad uno scolaro
diligente, l'apprendere all'Università qualche cosa di soddisfacente" (1).
(1) Verm. Schriftem, IV, p. 318
Malgrado tutto ciò, il giudizio del
Savigny
sull'avvenire degli studi giuridici in Italia non è sfavorevole.
"Secondo le descrizioni di molti viaggiatori si potrebbero ritenere le
condizioni intellettuali dell'Italia odierna come completamente disperate,
ma chi osserva le cose senza pregiudizio e con animo aperto e libero, devo
sicuramente giudicare in modo diverso. Egli troverà anche oggi la nazione
riccamente dotata, capace di una cultura superiore, che nei secoli passati
tenne il primo posto in Europa. Le qualità, per le quali essa acquistò
allora il primato nella cultura, possono essere assopite, ma non spente. Sa
si volesse tendere fortemente, volentierosamente la mano alla nazione, essa
si mostrerebbe degna del suo grande passato, e presto entrerebbe in nobile
gara col resto dell'Europa" (1).
(1) Verm. Schriften,
IV, pag. 311
Questo avvenire migliore era meno lontano di quanto il
Savigny stesso avrebbe pensato. Tuttavia il cammino da percorrere era grande
e grandi le difficoltà che si frapponevano al compimento di un lavoro
fruttuoso. (1)
Serafini, Arch. giur. 111 (1869), pag. 229
Ciò, tuttavia, non vuol dire che alcuni buoni germi non
vi fossero. Furono, qua o là, alcuni dotti uomini, che davano opera con
vigore d'ingegno agli studi di diritto privato e processuale; cito fra gli
altri, Giuseppe Pisanelli, Antonio Scialoia, Nicola Rocco,
Matteo
Pescatore. Ma l'ambiente sociale non era favorevole ad un lavoro fruttuoso:
mancava poi soprattutto l'opera collettiva e continua senza la quale anche
gli sforzi di talune menti privilegiate, di cui l'Italia nostra non ha mai
avuto difetto, rimangono manifestazioni isolate e prive di influenza sul
progresso della scienza mondiale. Questa opera collettiva e continua non era
possibile, principalmente perchè l'Università, a cui spetta appunto il
compito di diffondere la cultura, di fornire mezzi per la ricerca, di
migliorare il metodo dell'indagine, viveva miseramente del tutto fuori delle
grandi correnti del pensiero scientifico internazionale. In questo rinnovato ardore di indagini, lo sforzo
maggiore si appunto - come sempre avviene pei periodi di rinnovamento della
cultura giuridica - verso il diritto romano. Dalla Germania, nelle cui
Università accorrevano i nostri giovani studiosi ad ascoltare
l'insegnamento dei più celebri cultori del diritto romano, si appresero non
soltanto i risultati della scienza, ma s'imparò e si divulgò il
metodo della ricerca: ritornò in fiore lo studio diretto delle fonti e
quello della storia interna ed esterna del diritto. Questo lavoro, di cui
impulso fu dato dalle Università, fu anche compiuto nell'ambito delle
Università. Ed alla Università appartengono come professori ufficiali o
come privati docenti tutti i volentierosi per merito dei quali l'Italia
potè, nel volgere di pochi lustri, rinnovare completamente la sua cultura
romanistica. (1)
Cfr. BRUNS, Kril. Vierteljahrschrift, XX, 513 e segg.
In tutto questo fecondo movimento di pensiero due nomi
vanno in modo particolare segnalati: Filippo Serafini ed Ilario Alibrandi.
Questi due giuristi, che vissero nella stessa epoca (l'Alibrandi, nato nel
1823, era di soli otto anni più vecchio del Serafini) che coltivarono con
pari ardore la stessa disciplina, il diritto romano, furono, per le qualità
dell'ingegno e dell'animo, l'uno la perfetta antitesi dell'altro. Mentre questo intenso lavoro si compiva, nell'ambito del
diritto romano, anche lo studio del diritto privato italiano dava segni
promettenti di risveglio. Anche il diritto commerciale, in quest'epoca, comincia ad
essere coltivato di proposito, con metodo più rigoroso, con più vasta ed
esatta conoscenza del diritto comparato. Il ventennio così trascorso in un vasto lavoro di
assimilazione e di preparazione della cultura giuridica non soltanto fruttò
qualche pregevole contributo della scienza italiana allo studio del diritto
privato, ma - e fu questo il lato più importante e significativo del grande
sforzo compiuto - preparò il terreno per la creazione di una scuola
giuridica nazionale. L'opera di ricezione del primo ventennio dalla
unificazione politica, rese possibile l'opera di elaborazione indipendente
del secondo ventennio. Anche nel lavoro di ricostruzione il posto d'onore spetta
al diritto romano. L'assimilazione dei risultati ottenuti all'estero, in
questo campo fu più completa ed intensa; l'indole di questa scienza, più
ardua, più lontana dai bisogni della pratica, ma per ciò stesso, più
adatta ad assorbire completamente l'attività dello studioso: il fascino
naturale che esercita sugli italiani lo studio del più meraviglioso
prodotto della civiltà latina, e soprattutto l'esser fioriti in questo
tempo romanisti, clte non furono solo scienziati valorosi, ma maestri
appassionati e pazienti, tutto questo complesso di cause spiega il perchè
della fortunata preminenza del diritto romano. Del resto le condizioni per
uno sviluppo originale della scienza del diritto romano esistevano in questo
periodo, ed era merito del lavoro fatto nel ventennio precedente, l'averle
create. (1) Ricordo
delle onoranze a V. Scialoia, Prato, 1905, Discorso di V. Scialoia, p.
20
(2) Scialoia, Sul
metodo d'insegnamento del dir. rom. nelle Università italiane, Arch.
Giur. XXVI (1881), p. 486 e segg.
Il possesso completo della letteratura giuridica tedesca,
che avrebbe assorbito e forse asservito un intelletto meno vigoroso, fu
invece in Carlo Fadda ragione per dominare la scienza germanica, e per porsi
di fronte ad essa, in una condizione di perfetta uguaglianza. Così egli
potè, in una critica indipendente, percorrere da gran signore quasi tutto
il campo del diritto romano e, tempra davvero gagliarda di giurista, usare
dei nuovi metodi di esegesi, senza abusarne, opponendosi anzi
ragionevolmente alle esagerazioni dei troppo facili improvvisatori. Come
giurista egli ha avuto sempre squisito il sentimento del valore pratico del
diritto romano, e fra i romanisti italiani contemporanei è forse quello, da
cui più vigoroso impulso hanno ricevuto gli studi di diritto privato
attuale. Nell'ambito del diritto privato attuale il cammino
percorso non fu così rapido, come in quello del diritto romano. il diritto
civile manca della universalità propria del diritto romano, che tanto
favorisce lo scambio e la diffusione delle idee e dei risultati. Nel diritto
civile il lavoro di assimilazione non è lavoro di ricezione mera, ma di
adattamento: se esso quindi dà adito a qualche maggiore originalità, è
anche necessariamente più lento. Nel diritto civile inoltre il compito
della scuola nazionale è incomparabilmente più vasto; non si tratta più
di contribuire al progresso di una scienza mondiale; si tratta di elaborare
completamente, senza l'ausilio diretto della scienza straniera, tutto un
corpo vastissimo di dottrine. Ciò spiega come, sebbene il lavoro fatto nel
campo del diritto civile non sia stato meno intonso di quello fatto nel
campo del diritto romano, in elaborazione scientifica di tutto il diritto
civile italiano debba ancora dirsi incompiuta. Tuttavia anche qui i
progressi sono stati grandi ed innegabili. (1)
Gianturco, Gli studi del diritto civile e la questione del metodo nel
Filangieri, 1881, 722, 724
(2) V. Polacco, In memoria di E.
Gianturco negli Atti del R.. Istituto Veneto di Scienze, lettere ed
arti, Venezia, 1907
Un ricordo speciale meritano anche più chiari ingegni
anch'essi come il Gianturco troppo presto rapiti agli studi: Enrico Cimbali
e Ferdinando Bianchi; il primo, pieno di giovanile fervore, propugnò nei
suoi volumi sulla nuova fase del diritto civile, sul possesso per
acquistare i frutti, sulla capacità di contrattare, il
rinnovamento della legislazione e della scienza del diritto privato sulla
base delle nuove esigenze sociali; il secondo, con gli scritti sul pegno
commerciale, sulle servitù legali, e con una quantità di note,
piccole monografie, pur preferendo l'indirizzo esegetico al dommatico, vi
seppe portare tanto rigore di metodo o tanta abbondanza di dottrina, da
riuscire civilista, sotto molti rispetti, eccellente. Meno intenso, come comportava in materia assai più
ristretta, ma più rigoroso e forse più organico, fu il lavoro compiuto nel
campo del diritto commerciale. Non così fortunato come le scienze sorelle fu il diritto
processuale, di cui veramente più per ragioni di connessione che di
appartenenza io mi occupo, in questa rapida rassegna storica, che concerne
principalmente il diritto privato. Questa la ingente mole del lavoro compiuto, nell'ultimo
cinquantennio. Sul quale varie cose sono da osservarsi. Anzitutto la parte preponderante, anzi, quasi assorbente
avuta in essa dalle Università. Il che torna certamente ad onore di questi
centri di cultura e dimostra che, malgrado tutto, l'istituto
universitario risponde al suo compito scientifico. Ma è, d'altro canto,
indizio di una deficienza che non può ripercuotersi sfavorevolmente sullo
sviluppo della scienza e della pratica del diritto in Italia. L'assenza
quasi completa dei pratici dal campo del lavoro e della lotta per la
creazione di una scuola giuridica italiana, ha, in parte, reso vano lo
sforzo degli studiosi. Salve alcune notevoli eccezioni, la giurisprudenza
italiana è rimasta quasi estranea a questo movimento, ed è anche torto
della dottrina il non aver saputo trascinarvela che scarsamente. Non
mancano invero i segni di un promettente risveglio anche sotto questo punto
di vista, ma la separazione fra scienza e pratica è stata quasi completa
fino a poco tempo fa e non è certo finita. Mentre la dottrina si rinnovava,
la giurisprudenza rimaneva fedele ai vecchi esegeti e ingombrava le sue
decisioni coi vecchi detriti delle polemiche dei commentatori francesi. Non
voglio indagare da quale parte sia il torto: ma questa separazione d'intenti
e di metodi dimostra che la scienza non ha raggiunto ancora completamente
uno dei suoi scopi fondamentali: quello di costituire una guida sicura per l'applicazione
pratica del diritto. Del resto questa specie di isolamento, in cui la dottrina
si è ridotta (e qui è un altro lato manchevole del movimento), si
manifesta anche nel campo legislativo. La nuova scienza italiana del diritto
privato non ha dato che una sola legge importante: il codice di commercio; e
non si può dire che abbia saputo imprimervi un'impronta di originalità.
Tutto il resto del movimento legislativo (salvo poche eccezioni, e metto fra
queste due riforme che non hanno raccolto il consenso universale, la legge
sul procedimento sommario, e l'altra sul concordato preventivo e i piccoli
fallimenti) non ha sentito che poco o punto l'influsso della elaborazione
scientifica che si veniva compiendo. Infine non si deve nascondere che il progresso
degli studi giuridici non è stato uguale in tutti i campi. Molto intonso
nel campo del diritto romano, dove non è forse vana la speranza che
sia per ritornare all'Italia quel primato negli studi romanistici,
sfuggitele da tanti secoli; abbastanza notevole nel campo del diritto commerciale,
dove la innegabile decadenza della dottrina francese e tedesca ha
dato maggior risalto al promettente risveglio della nostra, esso non è
stato sufficientemente rapido nel campo del diritto civile. Zone intere di
questa scienza non sono ancora stato esplorate con metodo scientifico:
mancano, a tacer d'altro. studi approfonditi sui contralti speciali e sul
diritto di famiglia. Ma soprattutto è torto grave della dottrina
civilistica italiana il non aver saputo dare un trattato completo di
diritto civile che valga ad orientare ed illuminare i pratici. Molto cammino si è fatto. Molto rimane ancora da
percorrere. Lo sguardo al lavoro compiuto non deve essere fonte di sterile
soddisfazione. ma deve servirci di incitamento a fare più e meglio, come
dobbiamo e possiamo.
Lo studio del diritto romano, che pure era
diritto vigente in taluni Stati d'Italia, negletta completamente l'indagine
immediata sulle fonti, e la ricerca storica si riduceva all'esposizione
delle dottrine di qualche scrittore più in voga, per lo più
al volgarizzamento delle Istituzioni dell'Eineccio. Savigny nel 1828 nota
che l'insegnamento del Villani, professore di testo civile nell'Università
romana, poteva assomigliarsi a quello che s'impartiva trent'unni prima nelle
Università tedesche (1).
Nè in migliori condizioni versava
lo studio del diritto civile e commerciale e quello della procedura.
Interrotta la continuità della nostra tradizione giuridica dalla
introduzione dei codici francesi, l'elaborazione nazionale del diritto
privato, che ebbe sempre sprazzi di vivida luce, anche in tempi di
decadenza, ne rimase come paralizzata. L'attività scientifica in questi
rami del diritto si esaurì pertanto quasi del tutto nelle traduzioni delle
opere francesi, brutte traduzioni per lo più, che restano 3 documentare lo
stato della cultura nei giuristi italiani dell'epoca, e non soltanto della
cultura giuridica.
Quali poi fossero le condizioni degl'insegnanti e
dell'insegnamento e quale contributo potesse portare la Università al
progresso degli studi del diritto, risulta, tra l'altro, dalla testimonianza
dello stesso Savigny. Ecco come, dopo aver rivelato i difetti
dell'insegnamento, mancanza della storia interna del diritto, mancanza di
connessione tra la dogmatica e l'esegesi, il Savigny giudica i professori
dell'Università romana: "Perchè potessero sparire questi difetti
occorrerebbe soprattutto che prendesse radici un giusto concetto dello
studio del diritto, ma anche che i professori oltre la buona volontà
avessero il tempo di proseguire questo concetto coi loro propri studi.
Villani, ad esempio, avrebbe inclinazione e capacità a diventare un buon
insegnante, ma egli è, inoltre, Uditore del Camerlengo,
vale a dire Consigliere relatore al Ministero dell'interno: questo
ufficio gli occupa in maggior parte della giornata, ed il
professorato diventa di necessità una cosa accessoria" (1).
Primo ostacolo, la servitù politica che aveva accasciato gli
animi dei più deboli, e concentrate le energie dei più forti nelle lotte
per la libertà.
Secondo ostacolo, il disprezzo per la cultura straniera, ed
in particolare per la cultura tedesca, frutto in parte di ignoranza, in
parte di falso patriottismo, che impediva agli italiani di conoscere o di
sfruttare tutto il ricchissimo materiale scientifico accumulato,
specialmente in Germania, dove così intensa elaborazione aveva avuto il
pensiero giuridico nel secolo decimonono. Ed ancora dopo parecchi anni dalla
unificazione politica, nel 1869, nell'assumere la direzione dell'Archivio
giuridico, Filippo Serafini poteva scrivere: "Culla della scienza
del diritto all'epoca romana, sede del risorgimento dei buoni studi
giuridici nel medio-evo, patria di profondi giuristi in ogni tempo, l'Italia
si è riposata neghittosa sui mietuti allori, e lasciò passare senza
contesa alle vicine nazioni quel primato che aveva un di formato la sua
gloria più bella. da molti anni, l'Italia, fatte poche illustri eccezioni,
non dà segno di vita nel campo del pensiero giuridico" (1).
I primi segni del risveglio seguirono di poco l'unità
politica.
Conquistata la libertà di discussione e di critica,
calmata la febbre delle cospirazioni e dello lotte, reso possibile, con
l'ottenuta indipendenza politica, un più ponderato giudizio sulla cultura e
sulla scienza straniera, l'ambiente era divenuto di assai più proporzionato
ad un miglior sviluppo della scienza del diritto.
Le Università che avevano intanto ottenuto dalla Legge Casati un assetto, intorno al quale ancora oggi
deve esprimersi un giudizio favorevole, compresero l'importanza del compito
loro spettante nella rinnovata società italiana. E nelle Università ebbe
inizio il movimento destinato a rifare la nostra cultura giuridica: nelle
Università fu preparato, ed in buona parte compiuto, il lavoro che era
divenuto più urgente, dopo tanti e tanti anni di neghittoso isolamento
scientifico: l'assimilazione della cultura straniera. La creazione di una
scienza giuridica italiana, la partecipazione attiva della patria nostra ai
progressi della scienza del diritto, sarebbero state vane speranze, fino a
che in Italia si fosse continuato ad ignorare ciò che si faceva oltre alpe,
nel campo del pensiero giuridico. Prima di creare e per potere creare, i
giuristi italiani dovevano incominciare con l'apprendere.
Il primo periodo del rinnovamento degli studi del diritto
in Italia è, dunque, di necessità un periodo di assimilazione.
Il
compito che gli studiosi italiani del diritto privato si proposero nel
ventennio che seguì il sessanta, fu quello di impadronirsi della cultura
giuridica straniera, e particolarmente tedesca, di apprendere e divulgare i
metodi di ricerca, di creare la passione e l'abitudine dell'indagine
scientifica.
I pochi studiosi, che già prima del sessanta con
l'insegnamento e con gli scritti si adoperarono ad accrescere la cultura
giuridica nazionale, facendo conoscere agli italiani ciò che si era fatto e
che si stava facendo in Germania (cito fra gli altri il Conticini a Pisa,
il Polignani a Napoli, il Bellavite e il Serafini a Pavia),
non avevano potuto esercitare che una scarsa influenza sul movimento
scientifico italiano. Il loro piccolo numero la difficoltà e le diffidenze
d'ogni genere donde erano circondati rendevano presso che sterile l'opera
loro. Soltanto negli anni che seguirono la costituzione del regno d'Italia,
le fatiche di questi valentuomini cominciarono a fruttificare. Non solo il
loro numero si accrebbe, ma il lavoro di ciascuno si intensificò e l'opera
di tutti si andò coordinando e divenne più organica e sistematica.
All'attività didattica si congiunge ora l'attività
scientifica. Nicola De Crescenzio volgarizza nel Sistema di diritto
civile romano i migliori risultati della scienza tedesca; Francesco Filomusi-Guelfi, con le traduzioni dei lavori del
Keller e dello Scheurl e
con le ricerche personali sul processo contumaciale, inizia, si può dire,
presso di noi lo studio scientifico del processo civile romano; Francesco Schupfer espone col completo possesso della letteratura nostrana e
straniera, il diritto delle obbligazioni; Francesco Buonamici cogli studi
sul Poliziano Giureconsulto dà un bell'esempio di ricerche originali
sulla storia del diritto romano in Italia; con lo scritto sulle legis
actiones dà opera alla conoscenza del processo civile romano; con molti
studi critici e recensioni segue con vivo ardore i lavori dei giuristi
tedeschi; Guido Padelletti, giovane di forte ingegno, di amplissima cultura,
di sorprendente attività, troppo presto rapito alla scienza, in pochi anni
con una serie di monografie, recensioni, articoli critici, o infine con un
completo manuale di storia del diritto romano, che fu presto
tradotto, onore non isperabile fino a pochi anni prima, in lingua tedesca,
dà un gagliardo impulso agli studi di storia del diritto romano (1)
Il
Serafini educato nelle Università germaniche, s'impadronì subito della
cultura tedesca o del metodo di studio che aveva dato frutti così copiosi
in Germania. Spirito liberale, sentì la necessità di un rinnovamento della
nostra cultura giuridica, ed ebbe il merito grandissimo di vedere e seguire
con fiducia e con fermezza la via, che poteva condurre a questa altissima
meta. Assunta nel 1869 la direzione dall'Archivio giuridico, rivista
fondata l'anno innanzi da Pietro Ellero, la quale aveva durante il primo
anno di vita dato veramente frutti non molto notabili, egli, mentre dalla
cattedra spronava i giovani allo studio del diritto, e con cura amorosa
incoraggiava quelli, che terminati i corsi universitari, dimostravano amore
alla ricerca, con riviste critiche di scritti tedeschi, con riassunti e
cenni bibliografici di monografie e trattati stranieri, con la traduzione
arricchita di copiosissime indicazioni bibliografiche delle Pandette dell'Arntds,
diffondeva in Italia la cultura romanistica e civilistica tedesca. Certo, il
contributo originale che il Serafini recò allo studio del diritto romano
non fu notevole, ma il suo nome resterà nella storia della nostra cultura
giuridica come quello di un maestro eccellente, di un divulgatore
alacre del metodo e dei risultati della scienza giuridica straniera, di un
organizzatore geniale e fortunato, al cui impulso si deve in buona parte il
rinnovamento degli studi di diritto romano in Italia.
Mentre il Serafini, direttore della più reputata rivista
giuridica d'Italia, professore a Pavia, a Bologna, a Roma, a Pisa,
acquistava fama di principe dei romanisti italiani, viveva ignorato a Roma
Ilario Alibrandi, singolare figura di insegnante e di scienziato. Discepolo
del Villani, sul cui insegnamento il Savigny aveva emesso il non certo
favorevole giudizio che abbiamo ricordato, l'Alibrandi rinnovò
completamente il metodo della ricerca negli studi di diritto romano.
Profondo latinista e giurista, conoscitore meraviglioso delle fonti latine e
greche di ogni genere, giuridiche e letterarie, dotto archeologo, studiò il
diritto romano con quell'indirizzo storico critico, che doveva prevalere
solo molti anni dopo. In un'epoca, in cui anche in Germania le menti dei
giuristi più eletti si affaticavano in un'ermeneutica artificiosa, in cui
ogni sforzo si dirigeva a cercare le più assurde conciliazioni fra i vari
testi del corpus iuris, che si interpretava come può farsi di un
codice moderno, l'Alibrandi rivolse i suoi studi verso la splendida
giurisprudenza classica, i cui principi egli tentò di restituire nella loro
genuina figura. A questo scopo egli ricercò le alterazioni subite dagli
scritti dei giureconsulti classici nella compilazione giustinianea,
utilizzò le nuove fonti giuridiche, in ispecie le Istituzioni di Gaio ed i frammenti
vaticani, e gli scrittori non giuristi, sfruttò le iscrizioni,
illustrando ed integrando quello che man mano erano messe in luce, adoperò
le fonti greche, che, con meravigliosa intuizione, affermò contenere molti
elementi classici degni di essere rilevati. In tal modo riuscì, molti anni
prima del Lenel, a ricostruire singole parti dell'editto, ventidue anni
prima dell'Eisele dimostrò che il concorso delle azioni nel diritto
classico si riconnette alla consumazione processuale e che nella
compilazione giustinianea fu alterato mediante numerose interpolazioni dei
testi antichi; sedici anni prima dello Czyhlarz sostenne che tutta la
materia dell'acquisto dei frutti da parte del possessore di buona fede la
irrevocabile proprietà dei frutti. L'Alibrandi dunque non fu un precursore
fra i romanisti italiani, lo fu anche fra i romanisti di tutto il mondo.
Eppure questa mirabile tempra, che ignorando il tedesco, precorse anche la
scienza tedesca, non ebbe, si può dire, alcuna influenza sul movimento
scientifico italiano, e cade in una inesattezza storica l'Erman chiamando la
scuola italiana di diritto romano, scuola dell'Alibrandi. Uomo modesto,
alieno dal rumore, e non dotato di alcuno spirito di combattività,
l'Alibrandi, che fin dal 1849 insegnava come Professore nell'Università di
Roma, si dimise nel 1870, in seguito alle pressioni del partito cattolico a
cui per lunga consuetudine era legato. Così, per un cumulo di circostanze
intrinseche ed estrinseche, ed anche per la natura del suo metodo e delle
sue indagini, che di troppo sorpassavano la cultura dei suoi contemporanei e
lo stato della scienza romanistica italiana ai suoi tempi, l'Alibrandi, per
molti e molti anni, fu quasi completamente ignorato dagli stessi italiani.
La modesta cattedra che egli occupava presso l'Accademia pontificia di
conferenze storico-giuridiche, non poteva dare alcuna diffusione al suo
insegnamento, ed i non molti scritti, che la naturale ritrosia gli
consentiva di pubblicare, erano inseriti in pubblicazioni troppo poco
diffuse. Solo nell'ultimo periodo, quando incominciò a collaborare prima
negli Studi e documenti di storia e di diritto, e poi nel Bollettino
dell'istituto di diritto romano, i suoi lavori furono apprezzati ed
utilizzati. Ma era stato necessario, perchè l'opera dell'Alibrandi fosse
conosciuta e prendesse il suo posto nello sviluppo organico della scienza
italiana, che l'Italia rinnovasse, prima, la sua cultura romanistica! In
questa constatazione è tutto il valore dell'opera dell'Alibrandi, ma vi è
anche il lato manchevole che essa ebbe, cioè la scarsa influenza esercitata
sul rinnovamento della cultura italiana.
Qui il lavoro non fu certamente così intenso, ma ebbe
forse un carattere di maggior originalità, ciò che del resto era una
esigenza propria della materia. Se per il diritto romano era necessaria e
sufficiente la assimilazione e divulgazione della cultura straniera, per il
diritto civile e commerciale occorreva qualche cosa di più: almeno
l'adattamento delle dottrine straniere al diritto vigente in Italia;
naturale perciò che in questo adattamento la scuola giuridica italiana
tendesse ad assumere una fisionomia più caratteristica. Tuttavia non
mancò, e non doveva, anche nel campo del diritto privato odierno, il lavoro
di diffusione e di divulgazione del metodo e degli studi stranieri.
In tal lavoro primeggia, anche qui,
Filippo Serafini. Per molti e molti anni egli seguì con copiosissimi scritti bibliografici,
inseriti nell'Archivio giuridico, il movimento degli studi di diritto
civile o commerciale nel Belgio, in Olanda ed in Germania; promosse, come
direttore dell'Archivio, la conoscenza della ricchissima letteratura
tedesca, pubblicando recensioni e traduzioni; fornì, nelle note alla
traduzione delle Pandette dell'Arndts, copioso indicazioni
bibliografiche sulla dottrina germanica. In questo lavoro il Serafini ebbe
collaboratori quanti giovani in quell'epoca si dedicavano agli studi di
diritto, ed a compiere queste modeste ma utili fatiche, egli incitava i
discepoli e tutti gli studiosi che si rivolgevano a lui per aiuti e
consigli.
Fra i molti che, collaborando nell'Archivio concorsero con
recensioni ed articoli critici, a diffondere presso di noi la cultura
civilistica straniera, sono da ricordare il Maierini ed il Forlani:
del primo sono notevoli le numerose ed ampie recensioni e riviste bibliografiche
di opere tedesche: del secondo gli scritti critici sulle persone giuridiche
e sul diritto di pegno.
Ma notevole anche fu il rinnovamento che si iniziò nel
metodo della ricerca e della esposizione, nel campo del diritto privato
odierno.
La grande somiglianza tra i codici di diritto privato
vigenti in Italia prima della unificazione, e anche fra i nuovi codici
promulgati nel 1865, ed i codici francesi, aveva da lunghi anni conferito
presso di noi grandissima autorità agli scrittori francesi di diritto
civile e commerciale. Il magnifico sviluppo della giurisprudenza francese
nella prima metà dei secolo XIX aveva come abbarbagliato i nostri giuristi:
in modo che per lungo tempo si credette di non poter fare opera migliore che
adoperare senz'altro gli scrittori francesi in più o meno ben fatte
traduzioni, le quali in breve tempo inondarono il nostro mercato librario.
La promulgazione del codice civile e del codice di commercio migliorò, ma
non di molto, le condizioni della scienza civilistica italiana: alle
semplici traduzioni si sostituirono trattazioni italiane calcate sul modello
degli esempi francesi. Le imitazioni furono, come spesso accade, infelici, e
dovevano esserlo infallibilmente, giacchè la dottrina francese doveva i
suoi pregi migliori, la limpidezza delle soluzioni, lo spirito pratico,
l'abbondanza dell'operato giurisprudenziale, alla splendida e ricchissima
giurisprudenza che si era formata nelle Corti e specialmente nella
Cassazione di Francia, giurisprudenza piena di finezza, di senso pratico, di
equità, la quale fornì alla dottrina francese un materiale ed una guida,
che in Italia mancavano completamente.
Il rinnovamento operatosi negli studi di diritto romano,
il contatto in cui per merito precipuo dei romanisti la scienza giuridica
nostra entrò con quella tedesca, tutta informata ad uno spirito critico e
sistematico ignoto alla dottrina francese, non fu senza influsso anche sullo
svolgimento della nostra dottrina civilistica. Il mutamento qui avvenne più
che lentamente, e ciò si comprende, se si consideri che, mentre lo studio
del diritto romano era tutto o quasi tutto nelle Università, donde parti e
dove si operò il rinnovamento della nostra cultura, quello del diritto
civile e commerciale si compiva anche all'infuori delle Università, dove
dominava ancora il metodo francese. Mentre dunque pullulavano i commentari,
i trattati, gli articoli di giurisprudenza, nei quali tutta la trattazione
consisteva nel riferimento delle opinioni di qualche scrittore francese ed
in una esegesi pedestre, nelle Università andava germogliando il seme
fecondo di un completo rinnovamento del metodo.
Notevole fu, anche sotto
questo aspetto, l'opera del Serafini, il quale non solo come insegnante e
come direttore dell'Archivio giuridico, ma anche con contributi
personali, quali lo scritto sul telegrafo in rapporto alla giurisprudenza
civile e commerciale, e le numerose riviste critiche di giurisprudenza, si
adoperò ad elevare gli studi di diritto moderno.
Un altro romanista, il Bellavite, professore prima a
Pavia, poi a Padova, con l'insegnamento e con gli scritti, fra cui le
eleganti e dotte note illustrative e critiche del codice civile italiano,
fu tra i primissimi ad introdurre nello studio del diritto civile il metodo
sistematico, lo sfruttamento giudizioso del diritto romano, l'uso della
letteratura germanica.
Romanisti e civilisti ad un tempo furono anche
Francesco Filomusi-Guelfi, prima docente privato a Napoli, poi professore
all'Università di Roma; Cesare Nani, che tenne la cattedra di storia del
diritto a l'orino; Filippo Milone, libero docente e poi professore a Napoli.
Il che prova come dal diritto romano venisse principalmente l'impulso al
rinnovamento degli studi di diritto privato moderno.
Questo rinnovamento
ebbe un contributo gagliardo, in un'opera ancora di formazione, dall'opera
Carlo Francesco Gabba, professore filosofia del diritto o diritto civile,
ingegno robusto, autore di note, monografie e particolarmente con un'opera
sistematica di vasto respiro, la Teoria della retroattività delle leggi, fu tra i più
efficaci rinnovatoli del metodo negli studi di diritto privato.
Non ebbe
invece cattedra un altro pioniere, Angelo Maierini, giurista lucido e acuto,
conoscitore profondo della dottrina tedesca, autore di un trattato
sull'azione revocatoria e di svariatissime recensioni, studi critici,
monografie; morto a trent'anni, nel vigore delle forze e dell'ingegno,
quando dal molto che aveva dato si poteva arguire di moltissimo che avrebbe
avuto da lui la scienza giuridica italiana.
Neanche appartennero
all'Università altri due eminenti civilisti, che fiorirono in questo
periodo: Assuero Tartufari e Giorgio Giorgi. Il metodo dell'indagine e della
esposizione per cui vanno segnalati i loro scritti, che si allontana
vigorosamente dalla pedestre imitazione dei commentari francesi, rende
l'opera loro di grande importanza per il rinnovamento degli studiosi di
diritto privato.
Dalla scuola di Pavia, dove aveva
insegnato Filippo Serafini, uscì Ercole Vidari, professore di diritto
internazionale, poi di diritto commerciale in quella Università, che fu tra
i pochissimi a studiare il diritto commerciale con metodo sistematico e con
ampiezza di cultura economica e giuridica: il suo saggio sulla cambiale,
gli scritti bibliografici e critici, e infine il vasto ed organico corso
di diritto commerciale iniziarono il rinascimento degli studi di diritto
commerciale, che il risveglio dei nostri traffici faceva oramai sentire come
una viva necessità della pratica.
In quest'opera di rinnovamento vanno
ricordati Alberto Marghieri, Adolfo Sacerdoti, David Supino, che nelle
Università di Napoli, di Padova e di Pisa, con l'insegnamento e con gli
scritti, collaborarono alla formazione di una scuola italiana di diritto
commerciale.
S'intende che non conviene prendere alla lettera questa
distinzione di epoche: il lavoro di assimilazione non si può dire
certamente terminato con la prima, chè anzi rispetto a qualche ramo
speciale del diritto, esso si è iniziato solo negli ultimi anni: così non
sarebbe esatto affermare che nell'ultimo ventennio la scienza italiana del
diritto si sia affermata vigorosamente con fisionomia propria in tutti i
campi del diritto privato e della procedura: ciò che diremo mostrerà come
molta strada ancora sia da percorrere per giungere a questa meta. Ma resta,
in ogni modo, indubitato, che il primo e più urgente lavoro per la
restaurazione degli studi giuridici in Italia, la conoscenza e la diffusione
della cultura straniera, fu in buona parte compiuto nel primo periodo;
mentre nel secondo s'inizia la formazione di una scuola italiana di diritto
privato.
Antesignani e fattori importanti di questo movimento, che
doveva condurre alla creazione di una scuola italiana di diritto romano,
furono Vittorio Scialoia e Carlo Fadda.
Scolaro del De Crescenzio, da cui
derivò, più che il metodo di studio, il sentimento della nobiltà della
scienza, e della grandezza del diritto romano (1), Vittorio Scialoia fu forse il primo a comprendere che era
oramai giunto il tempo, per la scienza italiana del diritto, di affrancarsi
dalla dipendenza straniera e di correre libera per la propria via. Quel
singolare e finissimo spirito critico, che è stata sempre la più saliente
delle sue facoltà, gli rese possibile, iti mezzo all'universale venerazione
per tutto quanto si faceva oltr'alpe, di reagire sulla stessa dottrina
straniera, e di sottoporre anche questa ad una critica, da cui dovevano di
necessità balzare gli elementi per la ricostruzione originale. E perchè
era proprio questo che abbisognava ai nostri giuristi, non è esagerato dare
a Vittorio Scialoia il merito di aver contribuito potentemente alla
creazione di una scuola giuridica italiana. Dire di più dell'opera sua,
assegnare a questa il posto che le spetta nel movimento del pensiero
italiano contemporaneo, non è possibile oggi, mentre ancora tutti sentiamo
la viva attrazione di un intelletto così potentemente dotato. Ma chi legga
ciò che egli, a venticinque anni, scriveva intorno al problema ed al metodo
dell'insegnamento universitario (2), non può meravigliarsi se la
maggior parte dei romanisti che insegnano nelle Università italiane, e
molti dei cultori delle altre disciplino giuridiche: che coprono cattedre
universitarie, siano effettivamente o si professino spiritualmente suoi
discepoli.
La propaganda assidua ed entusiasta del Serafini,
l'esempio dello Scialoia e del Fadda non furono senza frutto; chi già
teneva il campo lavorò con più intensa lena: una schiera numerosa di
giovani sorse a esplorare il mondo giuridico romano, con l'intento di
portare alla sua conoscenza il contributo filiale del genio italiano; il
movimento scientifico, intensificandosi, si fece più organico: lo stesso
Alibrandi, che per tanti anni aveva lavorato isolato ed ignoto, fu attratto
da questo movimento, vi si mescolò con nuova energia, prendendo fra i
romanisti italiani il posto che gli spettava.
In questo periodo di febbrile lavoro ricordata anzitutto
l'opera di un illustre estinto: Contardo Ferrini. Poche vite furono così
operose e così feconde di risultati, come quella di lui, scomparso a
quarantatre anni, dopo aver fatto tanto per la scienza del diritto romano,
che la metà sarebbe bastata a creare la fama di qualunque studioso. Per
l'indirizzo delle sue ricerche e per l'indole della cultura, se non per la
natura dell'ingegno che fu d'assai più fecondo, il Ferrini si può
rassomigliare all'Alibrandi. Dottissimo filologo, profondo conoscitore della
lingua latina e della greca, sovrano nella padronanza delle fonti, egli
continuò l'indirizzo storico critico dell'Alibrandi. Lo studio del diritto
greco, così importante per la conoscenza del diritto romano, fu il primo
lavoro a cui si accinse il Ferrini, e durante tutta la sua vita fu uno dei
campi che coltivò con maggior predilezione e profitto. Egli contribuì, fra
l'altro, vigorosamente a stabilire l'importanza delle fonti greche per lo
studio del diritto romano classico. Delle fonti bizantine fu editore ed
illustratore espertissimo: a lui si deve l'edizione della parafrasi delle
istituzioni attribuita a Teofilo, a lui l'edizione degli scolii inediti
dello Pseudo Teofilo e gli altri testi minori graco-romani: a lui unitamente
al Mercati la scoperta e l'edizione di alcuni libri dei Basilici, che
formarono il libro VII da essi aggiunti all'edizione dell'Heimbach: a lui
ancora ed al Mercati l'edizione dell'Heimbach, a lui la traduzione del libro
romano-siriaco. Tale fama egli acquistò per la conoscenza delle fonti
bizantine, che lo Zacharias von Lingenthal, principe di questi studi, volle
il Ferrini continuatore dell'opera propria e lo lasciò erede di tutti gli
studi e dei manoscritti che aveva preparati. Nè di minore importanza che
nel campo dello fonti, è l'opera del Ferrini in quello della storia interna
e della dottrina del diritto romano. I suoi lavori sul diritto penale romano
sono fra i migliori che siano stati pubblicati anche all'estero, e del suo trattato
di diritto penale romano, inserito nella Enciclopedia del Pessina,
può dirsi, vanto a cui pochi potrebbero aspirare, che per taluni rispetti
esso è superiore allo stesso trattato del Mommsen. I numerosissimi Scritti
di diritto privato romano, in ispecie il volume legali, e soprattutti
l'eccellente manuale di Pandette, sintesi mirabile per precisione o
concisione, costituiscono un formidabile contributo, di cui la scienza
romanistica deve essere riconoscente all'Italia.
A questo lavoro, così considerevole, si deve aggiungere
quello che una falange intera di studiosi andava contemporaneamente
compiendo nei vari campi del diritto romano.
Nel campo delle interpolazioni
lavorano, con risultati sicuri e subito apprezzati, Muzio Pampaloni, coi
suoi belli ed originali studi sul delitto di furto; Alfredo
Ascoli che collo scritto sulle obbligazioni solidali, risolve,
contemporaneamente all'Eisele, un problema che aveva formato sino ad allora
un enigma insolubile: Carlo Longo e Flaminio Mancaleoni, il primo
specialmente coi suoi lavori sulle servitutes e sull'origine della
successione particolare, il secondo con gli scritti sulla reivindicatio
utilis.
Nel campo storico e dommatico, Pietro Bonfante dà una nuova,
geniale concezione dell'eredità romana, che riverbera viva luce sugli
istituti romani della famiglia e dell'eredità, e devo contarsi tra i
migliori contributi della scuola italiana alla conoscenza del diritto
romano; Silvio Perozzi con gli scritti sulla massima fructus servitutis
esse non potest, sull'editto publiciano, sul concetto delle obbligazioni
romane, avanza congetture sempre geniali, talora accettato come vere e
definitive, su concetti o questioni fondamentali; Giovanni Pacchioni, con
riferimento al diritto moderno, studia la negotiorum gestio, e i
contratti a favore di terzi; Francesco Schupfer, con lo scritto sulle
singrafe e sui chirografi, illumina di molta luce in vita giuridica dei
romani.
Nel campo più propriamente storico Biagio Brugi studia in un libro
aureo la dottrina dei gramatici in confronto con quelle dei Digesti,
portando molta luce su tutto ciò che si riferisce alla divisione del suolo,
alle vie, fiumi, ecc.: due insigni storici non giuristi, Ettore Pais ed
Ettore De Ruggiero, illustrano genialmente le istituzioni primitive in Roma.
Nel campo della storia e della critica delle fonti Salvatore Riccobono
imprende a studiare sistematicamente le opere e le dottrine dei
giureconsulti classici, e continuando l'opera di Alibrandi e di Ferrini,
ricerca il contributo del diritto greco alla formazione del diritto romano
classico.
E ciò senza contare gli altri molti, le cui opere non è
possibile qui menzionare, e che nel campo della storia, dell'esegesi, della
dommatica, nello studio delle fonti latine e greche, nelle ricerche
papirologiche, dettero all'Italia un posto eminente fra le nazioni del
mondo, nello studio del diritto di Roma, ricordo soltanto i nomi di taluni
dei più fecondi e benemeriti; Gino Segrè, Carlo Manenti, Federico Patetta,
Cesare Bertolini, Emilio Costa, Siro Solazzi, Salvatore Di Marzo,
Giovanni Baviera, Roberto De Ruggiero, Pier Paolo Zanzucchi.
In questo intenso movimento un fatto importante va
segnalato: si riprendono le edizioni delle fonti, segno sicuro di
risorgimento degli studi romanistici. Si pubblica una nuova edizione critica
del Digesto, giunta ormai al XXVIII libro, si stampa un manuale di fonti,
comprendente in giurisprudenza antegiustinianea, le leggi, senatoconsulti,
costituzioni ed infine in versione latina del Ferrini del libro
romano-siriaco; infine si riproduce in fototipia il famoso manoscritto
fiorentino delle Pandette.
I pochi solitari che nel periodo antecedente studiavano
scientificamente e sistematicamente il diritto civile, divengono in questo
periodo, una folta o vigorosa schiera: si acquista la coscienza del metodo e
se ne inizia la divulgazione. Ed appunto con una polemica intorno al metodo,
si apre questo periodo. Un giovane giurista meridionale, Emanuele Gianturco,
disputando sulla questione del metodo negli studi di diritto civile (1)
delinea, con molta precisione e
chiarezza, il compito della scuola italiana di diritto civile; trarre dalle
nuove correnti della cita politica o sociale gli elementi vivificatori
dell'indagine giuridica o questa condurre con metodo sistematico,
sostituendo alla arida casistica ed al commentario pedestre, la ricerca
dello linee generali e direttive degli istituti. Al Gianturco fanno eco
Gian Pietro Chironi e Vittorio Polacco.
Queste polemiche non furono senza influsso sugli studi
civilistici. La nuova scuola italiana di diritto civile si afferma appunto
nell'indirizzo preconizzato dal Gianturco, dal Chironi e dal
Polacco. Usando del metodo sistematico, condotto dai giuristi tedeschi a squisito grado di
perfezione, i civilisti italiani di questo periodo si guardarono dal
formalismo eccessivo e dalle astruserie metafisiche della dottrina tedesca:
è merito della scuola italiana l'avere accoppiato all'uso delle
generalizzazioni o della sistemazione, lo studio dell'elemento sociale del
diritto, una visione più netta della funzione pratica della giurisprudenza.
In questa direttiva generale, il lavoro è stato assiduo
e fecondo. Mentre il Gabba e il Filomusi-Guelfi continuavano nell'opera
felicemente intrapresa, il primo con una moltitudine di monografie o note,
raccolte poi in tre volumi di questioni di diritto civile, il secondo
pure con molte note e con gli scritti sul diritto di successione, nuove e
gagliarde forze entravano in campo.
Fra i pionieri sono da menzionare Gian
Pietro Chironi che nei volumi sulla colpa e in quelli sui privilegi
e le ipoteche tratta cuti copia di dottrina e vigore d'ingegno argomenti
ardui e nuovi in Italia all'indagine scientifica; Vittorio Polacco, che con
gli studi sulla divisione d'ascendente, sulla dazione in pagamento, e con
molti scritti minori, indaga con precisione di concetti, con larga cultura,
con fine intuito pratico, più svariati ed ardui problemi del diritto
civile; Emanuele Gianturco, felicissima tempra di giurista teorico e pratico
che, col lavoro delle fiducie, col primo volume di un sistema di
diritto civile rimasto, purtroppo, incompiuto, con la prolusione su l'individualismo
e il socialismo nel diritto contrattuale, dimostra come lo studio del
sistema non possa andar disgiunto dall'analisi dell'elemento pratico del
diritto (2)
A questi che furono i primi fondatori e primi cultori
della nuova scienza italiana del diritto civile, si aggiunge ben presto un
manipolo valoroso di lavoratori.
Vincenzo Simoncelli con una serie
numerosa di scritti, fra cui particolarmente notevoli quelli sulla destinazione
del padre di famiglia, sull'enfiteusi, sulla locazione,
sulla custodia, adopera l'osservazione della odierna vita sociale per
vivificare l'indagine giuridica, condotta sempre con la disciplina di un
metodo rigoroso; Giacomo Venezian, con la monografia sull'usufrutto,
con lo scritto sul danno e risarcimento allarga gli orizzonti della
trattazione giuridica sfruttando una serie di materiali nuovi desunti
dall'analisi economica e storica, dallo studio della giurisprudenza inglese
e americana; Nicola Coviello, scrivendo sui giudicati di stato,
sul mandato parificato, sul contratto estimatorio, sul caso
fortuito, sulla successione nei debiti, sulla trascrizione,
sulla responsabilità senza colpe, affronta con vigorosa analisi
argomenti ardui, e colma ogni volta una lacuna nella letteratura civilistica
italiana: Luigi Tartufari, con larghezza d'indagini reca un contributo
notevole alla sistemazione, ancora troppo poco progredita in Italia, della
parte generale del diritto privato delle obbligazioni, con le monografie sui
contratti a favore di terzi e sulla rappresentanza nella
conclusione dei contratti; Leonardo Coviello, con le monografie sui contratti
preliminari, sulla vendita a prova, sulla quota indivisa,
sul possesso dell'alienante, e con molti altri articoli e note,
percorrere zone poco esplorate del diritto civile con quel sentimento
squisito del diritto, che fa di lui il tipo del giureconsulto pratico, nel
significato più genuino o più nobile della parola; Bartolomeo Dusi scrive
sull'eredità giacente, sulla successione nel possesso per
atto tra vivi, sulla filiazione, con vigoria di analisi
giuridica o sicurezza di criterio filosofico; Ludovico Barassi ricostruisce,
con ricchezza di materiali dottrinali e giurisprudenziali, la disciplina
giuridica del contratto di lavoro nel vigente diritto positivo,
sciogliendo uno dei desiderata della scienza civilistica.
Taluni valenti romanisti e storici vengono, in questo
periodo, ad accrescere la falange degli studiosi intenti a creare la nuova
scienza italiana del diritto civile: Carlo Fadda insieme al civilista
Paolo Emilio Bensa traduce le Pandette del Windscheid
arricchendole di bellissime note sul diritto vigente, da cui gli
studi di diritto civile hanno avuto vigoroso impulso; Carlo Manenti scrive
sul gioco e sulla scommessa, con acutezza e copia di dottrina;
Alfredo Ascoli tratta l'argomento delle donazioni; Biagio Brugi pubblica un
compendio di istituzioni di diritto civile pregevole sotto
vari aspetti; Francesco Ruffini reca un contributo eccellente alla difficile
teoria delle persone giuridiche. Nè qui si arresta l'attività dei
civilisti italiani, fra cui, senza togliere nulla al merito degli altri, mi
piace ricordare, fra i giovani, Giuseppe Messina e Francesco Ferrara.
Già vedemmo come nel periodo antecedente
fosse stato assunto specialmente dal Vidari, il compito di restituire a
dignità di scienza lo studio del diritto commerciale. Il terreno era assai
ben preparato perchè il germe fecondo fruttificasse. Lo spirito
eminentemente pratico del popolo italiano, le belle tradizioni che aveva in
Italia il diritto mercantile, sorto appunto in Italia, dove fiorì anche in
secoli di decadenza degli studi giuridici, il risveglio dei traffici che si
andò iniziando, dopo superata la crisi economica che seguì
l'unificazione politica, costituivano un complesso di condizioni assai
favorevoli per uno svolgimento vigoroso ed originale di questa scienza.
Mentre il Vidari compiva la pubblicazione del suo corso
di diritto commerciale e ne moltiplicava le edizioni,
mentre il Supino seguiva con assidua attenzione i lavori preparatori del
nuovo codice di commercio, mentre il Marghieri esponeva con semplicità e
chiarezza l'organismo del nuovo diritto cambiario, e iniziava un'esposizione
sistematica del diritto commerciale italiano, mentre il Sacerdoti, con
articoli e piccole monografie, sperimentava in vari temi il suo robusto
ingegno di giurista, nuove, promettenti energie accorrevano nel campo del
diritto commerciale a recare un contributo gagliardo alla formazione di una
scuola italiana. Lucio Papa D'Amico si rivolge alla storia del diritto
commerciale: Leone Bolaffio - vigoroso ingegno - commenta sagacemente alcuni
titoli del codice di commercio o di una moltitudine di monografie e note a
sentenze illustra, con interpretazione spesso fortunata, i punti più
controversi della nuova legislazione commerciale; Ulisse Manara
lavora con precisione di concetti giuridici nel campo quasi inesplorato del
diritto ferroviario: Luigi Franchi studia lo svolgimento del diritto
commercialo, e tratta con acume punti importatiti del diritto delle
assicurazioni e del diritto industriale.
Ma lo scrittore, che della nuova scuola italiana riassume
le caratteristiche più eminenti, che procedè, fin dall'inizio, sicuro, con
la piena coscienza del metodo, e per cui principalmente la scienza italiana
del diritto commerciale assume una fisionomia propria ed autonoma, è Cesare
Vivante. Fin dai primi scritti di diritto marittimo si afferma la
personalità scientifica del Vivante, ma i frutti più maturi ed organici di
questa tempra singolare di giurista, sono la monografia in tre volumi sul contratto
di assicurazione, ed il trattato di diritto commerciale, opera
vasta ed originale di ricostruzione sistematica del diritto commerciale
vigente. Se nel Vivante non è la inflessibile logica giuridica del
Thöl, nè l'ampiezza e profondità della cultura storica e romanistica del Goldschmidt,
è in più alto grado la conoscenza della struttura tecnica e della funzione
economica degli istituti di diritto commerciale, più squisito il senso
delle esigenze pratiche del diritto. L'influsso esercitato dal Vivante
sullo svolgimento della scienza italiana del diritto commerciale, fu
considerevole.
Sull'esempio di lui il Bolaffio con raddoppiata energia
lavora, con vedute proprie e brillantemente nei più svariati campi del
diritto commerciale e in una serie di scritti sottopone a sagace critica
l'opera del Vivante; il Manara illustra la teoria degli atti
di commercio, e tratta diffusamente la dottrina della società;
il Franchi inizia la pubblicazione di un buon Manuale di diritto
commerciale, e con acume giuridico studia alcune speciali questioni
sulle cambiali e sulle casse di risparmio.
Ma più direttamente sentirono
l'influsso della mentalità eminente di Cesare Vivante coloro che egli ebbe
effettivamente o spiritualmente suoi discepoli, cioè tutti quelli che dai
suoi libri o dal suo insegnamento appresero il diritto commerciale.
Al Vivante
spiritualmente si ricollega Angelo Sraffa, che di quello ha oltre il
sentimento vivo della vita commerciale, la conoscenza della tecnica degli
affari, e l'uno e l'altra sagacemente utilizza per la ricostruzione
giuridica degli istituti, con la guida di un criterio sempre sicuro, e di
una cultura attinta alle fonti più moderne. Dello Sraffa è da
ricordare, oltre il contributo personale recato alla scienza con gli scritti
sulle società e sul mandato, l'opera assidua che da oltre otto anni egli
spiega come fondatore, insieme col Vivante, e direttore della Rivista
di diritto commerciale e del diritto generale delle obbligazioni,
pubblicazione che ha raccolto intorno a sè il fiore dei giuristi italiani,
e che, a giudizio degli stessi stranieri, occupa oggi il primo posto tra le
Riviste congeneri d'ogni paese.
Non posso chiudere questi brevi cenni senza ricordare gli
altri egregi che contribuirono e contribuiscono a rendere viva e fiorente la
scuola italiana di diritto commerciale: Arnaldo Bruschettini, autore di un
buon trattato sui titoli al portatore, Umberto Navarrini,
commentatore acuto e diligente delle disposizioni del codice sulle società
commerciali; Alberto Vighi, robusto ingegno, troppo presto rapito ah
scienza, che a lui deve notevoli saggi sulla personalità giuridica delle
società commerciali, e sui diritti individuali degli azionisti; e fra i
più giovani, Ageo Arcangeli, Antonio Scialoia, Alfredo De Gregorio.
E taccio degli altri molti valenti romanisti, civilisti,
e storici, Pietro Bonfante, Gino Segrè, Luigi Tartufari,
Leonardo Coviello, Giovanni Pacchioni, Silvio Perozzi, Arrigo
Solmi, Francesco Brandileone, Ludovico Zdekauer, Alessandro
Lattes, che così gagliardo contributo di forze hanno portato agli studi
di diritto commerciale, allargando il campo della indagine e arricchendola
di nuovi elementi dottrinali e storici. Oggi, si può dirlo senza
esagerazione, la scuola italiana di diritto commerciale si afferma con
caratteri propri di fronte alle scuole straniere; in confronto della
francese, essa si distingue per una maggior cura del sistema, per una più
profonda analisi dei Concetti giuridici, per una tendenza più precisa alla
costruzione organica degli istituti: di fronte alla scienza tedesca, essa ha
il merito di uno studio più accurato dei fatti, di un sentimento più vivo
della realtà dei rapporti sociali, di una maggiore lucidezza nella
concezione o nella esposizione.
In questo campo la scienza non ufficiale ha dato una
delle più complete figure di giurista dell'Italia contemporanea, che ha
lasciato davvero un'orma non cancellabile in quest'ordine di studi: Gustavo
Bonelli, di cui il commento sul fallimento, e gli
studi sulla società e sui titoli di credito sono tra
le più vigoroso e profonde trattazioni della nostra letteratura giuridica.
Al Bonelli spetta il merito di aver affermato e propugnato, con
risultati sotto ogni aspetto eccellenti, la necessità di un indirizzo più
strettamente sistematico nello studio del diritto commerciale.
Le cause di questo più imperfetto sviluppo non sono
difficili a rintracciarsi: da un canto il falso concetto che lo studio del
processo non appartenga tanto alla scienza del diritto, quanto alla
pratica del foro: dall'altro l'intima connessione del diritto
processuale con gli altri rami del diritto pubblico, a cui più propriamente
appartiene, e che rendeva impossibile la costituzione in Italia di una
scienza del diritto processuale, sino a che non si fosse elevato a dignità
di scienza lo studio del diritto pubblico, per tanti anni in Italia
divagante nello vacue e nebulose generalità sociologiche e politiche.
La
bella eredità lasciata da Antonio Scialoia, Giuseppe Pisanelli
e Pasquale Stanislao Mancini, i quali nel loro commentario
del Codice di Procedura per gli Stati Sardi, dettero un saggio per i
tempi meraviglioso, di trattazione scientifica della procedura, non fu, si
può dire, raccolta, dalla rinnovata scienza italiana del diritto.
Nè l'ingegno
profondo del Pescatore, tutto pregno di una filosofia antiquata anche per i
suoi tempi, riuscì a dare un concetto organico del processo. Gli studi
processuali consistettero dunque in meschine esegesi del codice; e neppure
si iniziò per la procedura quel lavoro di divulgazione della dottrina
tedesca che, con così largo profitto si andava invece compiendo nei vari
rami del diritto privato.
Di tanto più notevole appare perciò l'opera di un procedurista
che fu ignoto a molti: Domenico Viti, professore all'Università di
Napoli. Eppure il suo commento sistematico sul codice di procedura
scritto con profonda conoscenza della storia e della letteratura,
concepito largamente, rimane anche oggi tra le migliori opere sul codice di
procedura vigente e meriterebbe una diffusione assai maggiore, di quella che
gli abbia consentita la modestia eccessiva dell'autore, a cui faceva
purtroppo difetto una delle qualità indispensabili dello scienziato, la
virtù di propagare le proprie idee e il proprio metodo di ricerca.
Per queste ragioni e mentre si moltiplicavano i
commentari pedestri e le meschino controversie esegetiche. mancarono per
lunghi anni gli studi scientifici sul diritto processuale.
Il primo compiuto
trattato sistematico scritto sul codice di procedura italiana, quello del
Mattirolo, pur esso pregevole sotto vari aspetti, ma difettoso totalmente
dal lato dell'indagine storica e dei concetti fondamentali sull'essenza
del processo, sulla sua natura, sulla costruzione dei rapporti processuali,
se potè costituire una buona guida pei pratici, poco o punto servi a far
progredire la scienza.
Il primo tentativo di sistemazione scientifica del
diritto processuale fu quello di Lodovico Mortara, professore a Pisa
e a Napoli, ora Procuratore generale alla Cassazione di Roma. Questo grande
giurista compreso che il segreto per la sistemazione scientifica del
processo, sta nel ricollegarne le nozioni ai principi fondamentali del
diritto pubblico, o con sicurezza meravigliosa di intuito si accinse a
un'alta opera di ricostruzione completa nel Commentario al Codice e alle
leggi di procedura civile, trattato sistematico di vasta mole, dove è
messo in evidenza per la prima volta in modo esauriente il lato
pubblicistico del processo, ne sono rilevati i nessi col diritto
costituzionale e amministrativo, e si trae finalmente il diritto processuale
dalla morta gora dell'esegesi.
Dopo l'impulso dato dal Mortara le ricerche
scientifiche nel campo processuale si intensificano: si sfrutta la dottrina
straniera, si approfondisce l'indagine storica, indispensabile in questa
scienza più che in ogni atra, per intendere gli istituti del diritto
vigente. Antonio Castellari, professore a Genova e a Torino, studia con
larghezza di indagini storiche e copia di dottrina, la materia della competenza;
Giuseppe Chiovenda, professore a Parma, a Bologna, a Napoli, a Roma, reca
preziosi contributi alla storia del processo, orienta con lo scritto sull'azione
la dottrina italiana su alcuni problemi fondamentali del diritto
processuale, e nel manuale di diritto processuale illumina di nuova
luce, col sussidio della dottrina tedesca, tutti gli istituti del processo;
Federico Cammeo ricostruisce con vasto disegno il sistema della giustizia
amministrativa; Francesco Menestrina con gli scritti sull'esecuzione
e sulle questioni pregiudiziali mette più vivamente a contatto con
la dottrina italiana la scienza e la legislazione germanica. Cosi lo studio
del diritto processuale, anche per opera di altri benemeriti risorge a
dignità di scienza.