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Francesco Carrara. Programma del corso di diritto criminale.

SEZIONE PRIMA

Del delitto

CAPITOLO I
Dell'imputabilità e dell'imputazione.

§. 1. Imputare significa porre una qualche cosa al conto di alcuno.
§. 2. L'imputabilità è il giudizio che formasi di un fatto futuro previsto come meramente possibile. L'imputazione è il giudizio di un fatto avvenuto. La prima è l'intuizione d'un'idea: la seconda è l'esame di un fatto concreto. Là si ha dinnanzi un puro concetto: quà si ha dinnanzi una realtà.
§. 3. L'imputabilità e la imputazione variano di predicato secondochè il giudizio, che attribuisce all'agente la responsabilità di un fatto o previsto, o verificato, procede o dalla semplice considerazione del nesso naturale tra il fatto e la moralità dell'agente; o da considerazioni derivate dai rapporti esterni dell'uomo.
§. 4. L'imputabilità e l'imputazione morale non hanno altra condizione tranne quella che l'uomo il quale fu causa materiale di un fatto, ne fosse ancora causa morale. è moralmente imputato all'uomo un fatto di cui fu causa morale, tanto se il suo atto è indifferente, tanto se è buono, quanto se è malvagio.
§. 5. L'imputabilità (1) politica sorge quando si dichiara che dell'atto previsto sarà responsabile il suo autore in faccia alla società. Questo giudizio si definisce - un atto pratico dell'autorità, col quale prevedendo la possibilità di un'azione umana, la dichiara imputabile come delitto al suo autore per ragioni di politica convenienza.

(1) La scuola spagnola (Pacheco Studios del derecho penal) e portoghese (Jordao Codigo penal portuguez) usano invece la parola criminalità come meno equivoca. Anche noi avevamo il termine incriminare. Dichiarare politicamente imputabile un'azione, e incriminarla, suona l'istesso. Vale cioè, dichiarare che chi la commetterà sai a responsabile di un delitto: vale vietarla sotto minaccia di una repressione.

§. 6. L'imputazione civile (1) nasce quando si dichiara che di un fatto avvenuto ne è responsabile in faccia alla società un determinato individuo. Questo giudizio si definisce - un atto pratico di mera ragion civile, col quale si interpreta la legge promulgata secondo i canoni giurisprudenziali, e si giudica un fatto secondo i criteri logici, per dichiarare che alcuno ne è l'autore responsabile in faccia a quella.

(1) Bichon (De dolo) ed altri la dicono imputazione giuridica.

§. 7. Il giudizio sulla politica imputabilità non può emettersi che dal legislatore: quello sulla imputazione civile dal magistrato.
§. 8. Il giudizio col quale il magistrato imputa civilmente ad un cittadino un'azione come già dichiarata dalla legge politicamente imputabile, è il resultato di tre distinti giudizii. Il magistrato trova in quell'individuo la causa materiale dell'atto: e gli dice - tu facesti - imputazione fisica. Trova che quell'individuo venne a quell'atto con volontà intelligente: e gli dice - tu facesti volontariamente - imputazione morale. Trova che quel fatto era proibito dalla legge della città: e gli dice - tu facesti contro la legge - imputazione legale. E solo dietro il risultato di queste tre proposizioni, che il magistrato può dire al cittadino - io ti imputo questo fatto come delitto.
§. 9. Ma come il magistrato, nel formare il giudizio sulla imputazione civile, soggiace al dettato della legge ed ai canoni di logica e di giurisprudenza; nè da queste norme può senza abuso deviare: così il legislatore nel formare il giudizio sulla politica imputabilità soggiace a delle regole assolute, dalle quali non può deflettere senza rendersi ingiusto e tiranno.
§. 10. Le leggi penali non possono considerarsi come puramente relative. Nei loro principii cardinali esse sono assolute.
§. 11. Onde un'azione possa dall'autorità sociale legittimamente dichiararsi imputabile al suo autore come delitto, occorrono indispensabilmente i seguenti estremi
- 1.° che a lui sia imputabile moralmente
- 2.° che possa imputarsi come atto biasimevole
- 3.° che sia dannosa alla società
- 4.° che sia promulgata la legge che la proibisce.
§. 12.- 1.° La legge dirige l'uomo in quanto è un essere moralmente libero: onde a nessuno può chiedersi conto di un fatto del quale sia stato causa puramente fisica, senza esserne menomamente causa morale. Ciò basta all'imputazione morale.
Ma di più l'azione che vuole rinfacciarsi all'uomo come delitto, oltre ad essere a lui moralmente attribuibile come atto volontario deve - 2.° poterglisi rinfacciare come atto biasimevole. Non è in potere del legislatore di incriminare qualunque atto di cui l'uomo fu causa morale, quando questi atti fossero prescritti da una legge superiore. E ciò perchè sebbene la legge criminale non debba essere nei suoi precetti una ripetizione della legge morale e religiosa; pure non può a queste leggi avversare. Il mantenimento dell'ordine esterno non può ottenersi con mezzi turbativi dell'ordine interno (1).

(1) Una legge the proibisse difendere il proprio simile da un ingiusto male che gli sovrasta: una legge che imponesse a un figlio di denunziare i delitti del genitore; o ad un cittadino di abbandonare la propria religione; e simili; urterebbe contro questo precetto, perchè imputando politicamente un atto che è comandato dalla morale, si porrebbe in contradizione con una legge superiore, e a cui non ha potestà di derogare. Questa dunque è una condizione negativa, piuttostochè positiva.

§. 13. - 3.° Perchè un atto possa essere politicamente imputabile non basta che lo sia moralmente, nè che sia in sè malvagio per il precetto morale. Bisogna di più che l'atto moralmente imputabile ad alcuno come pravo, sia politicamente dannoso. Ciò consegue dal principio che il diritto di proibire certe azioni, e dichiararle delitto, si attribuisce all'autorità sociale come mezzo di mera difesa dell'ordine esterno: non per il fine del perfezionamento interno.
§. 14. E di più il danno che reca l'azione prava dell'uomo deve esser danno sociale: cioè tale che non possa con altri mezzi, tranne col sottoporlo alla repressione della legge, provvedersi alla tutela dell'ordine esterno. Se il danno è ristretto all'individuo, o riparabile con un'azione diretta, il legislatore eccederebbe i suoi poteri dichiarando delitto l'azione che ne fu causa.
§. 15. Così per la prima considerazione i pensieri, i vizi, e peccati, quando non turbano l'ordine esterno, non possono dichiararsi delitti civili. Non si esige che l'atto onde possa imputarsi politicamente (almeno come trasgressione) debba sempre essere moralmenle biasimevole; potendosi anche gli atti moralmente indifferenti proibire per la tutela del diritto minacciato; e questi atti divengono biasimevoli moralmente, poichè l'autorità gli ha in modo legittimo vietati politicamente. Ma non possono dichiararsi biasimevoli politicamente quegli atti che sono doverosi o lodevoli per la legge naturale, o religiosa.
§. 16. Così, pel secondo motivo, la violazione di un contratto, benchè prava e volontaria, e benchè dannosa all'individuo i cui diritti si offendono, non può dichiararsi delitto, perchè gli altri cittadini non sentendone commozione, l'ordine esterno non ne viene a patire. A tutelare il diritto manomesso basta la coazione diretta.
§. 17. è questo lo scoglio più pericoloso del legislatore. Distinguere il sindacato morale dal sindacato politico: e distinguere il magistero civile dal magistero penale. Ogni deviazione da tali contini è un'ingiusta offesa alla libertà civile.
§. 18. La pravità morale di un'azione e la sua pravità politica sono dunque essenzialmente distinte. Nel giudizio che si emette circa la prima si procede dalla considerazione degli atti interni alla considerazione degli esterni. Nel giudizio che si emette sulla seconda si procede dalla considerazione dell'atto esterno alla considerazione dell'atto interno. Il criterio dominatore del primo giudizio è la bruttura morale: il criterio dominatore del secondo giudizio è il disturbo sociale.
§. 19. - 4.° Se l'uomo soggiace alla legge penale in quanto è ente dirigibile, questa sua subiezione ha causa nel suo intelletto e nella sua volontà. Ma a nessuno può attribuirsi la volontà di violare una legge o che non esiste o che ei non conosce. Dunque non può essere delitto un'azione, se non è emanata e promulgata la legge che la proibisce.
§. 20. Da tali premesse si desume la nozione del delitto civile.

CAPITOLO II
Nozione del delitto.

§. 21. Il delitto civile si definisce l'infrazione della legge dello Stato promulgata per proteggere la sicurezza dei cittadini, risultante da un atto esterno dell'uomo, positivo o negativo, moralmente imputabile.
§. 22. Delitto, reato, offesa, crimine, malefizio: tutte parole adoperate dai cultori della scienza penale come sinonimi: nessuno dei quali appaga il desiderio di chi vorrebbe trovare nella parola la definizione della cosa: tutti indifferenti a chi si contenta di trovare nella parola il segno dell'idea.
§. 23. - Infrazione della legge - L'idea generale del delitto è quella di una violazione (o abbandono) della legge: perchè nessun atto dell'uomo può essergli rimproverato, se una legge non lo vietava. Un atto diviene delitto solo quando urta con la legge: può un atto esser dannoso: può esser malvagio: può essere malvagio e dannoso: ma se la legge non lo vieta non può essere rimproverato come delitto a chi lo eseguisce. Ma varie essendo le leggi direttive dell'uomo, in questa idea generale, il vizio, che è l'abbandono della legge morale, e il peccato, che è la violazione della legge divina, si confonderebbero col delitto.
§. - Dello Stato - Coll'aggiungere questa restrizione ci avviciniamo all'idea speciale del delitto, limitandone il concetto alla violazione delle leggi dettate dall'uomo.
§. 25. - Promulgata - La legge morale è rivelata all'uomo dalla coscienza. La legge religiosa è rivelata espressamente da Dio. La legge civile deve esser promulgata ai cittadini perchè sia obbligatoria. Pretendere che essi si conformino ad una legge che non fosse loro comunicata, sarebbe ingiusto ed assurdo, quanto pretendere si uniformassero ad una legge non ancor sanzionata. La promulgazione della legge penale debitamente fatta una volta, porta seco la presunzione della cognizione di quella nei cittadini. Ma una promulgazione bisogna vi sia, come dato del suo passaggio dall'embrione del pensiero alla vita reale (1).

(1) Bene Koenigswarter Dissert. nullum delictum sine praevia lege pag. 118. L'irrogazione di una pena non può esser legittima che come sanzione del precetto: della quale non può lagnarsi chi lo ha volontariamente violato. Se si dichiarasse delitto dal giudice un'azione che la legge non aveva precedentemente vietata, e si irrogassero castighi che una legge non aveva comminato, mancherebbe al giure penale la base della necessaria tutela del diritto. Poichè in un decreto e in una punizione inflitta dal giudice per sua autorità, gli nomini non potrebbero trovare certezza che all'identico fatto, ove a danno loro si ripetesse, fosse per applicarsi uguale rigore. Il concetto di un delitto senza previa legge repugna adunque non solo alla giustizia, ma anche alla politica.

§. 26. - Per proteggere la sicurezza - Ciò porta all'ultima luce l'idea speciale del delitto; che sta nella violazione di quella legge umana precisamente, la quale è intesa a proteggere la sicurezza pubblica e privata. Non ogni violazione delle leggi della città è un delitto. Le leggi che provveggono agli interessi patrimoniali possono esser violate, p. e. coll'inadempimento di un'obbligazione civile; nè per questo la loro inosservanza è un delitto. Posson violarsi le leggi che promuovono la prosperità dello Stato, e si avrà una trasgressione, non un delitto. L'idea speciale del delitto sta nell'attacco alla sicurezzza; e non può ravvisarsi se non in quei fatti coi quali si ledono le leggi che la tutelano.
§. 27. - Dei cittadini - In questa formula si comprende la sicurezza pubblica non meno che la privata: poichè la sicurezza pubblica m tanto si protegge, in quanto è mezzo alla sicurezza privata. Appunto per esprimere l'idea della sicurezza pubblica si dice - dei cittadini - e non di un cittadino. Perchè il fatto che danneggiasse un solo cittadino, senza menomare la sicurezza degli altri, non potrebbe esser dichiarato delitto; come in seguito (§. 118) vedremo. Con ciò si è quanto basta espressa l'idea della tutela generale che presiede alla legge punitiva, senza bisogno di aggiungere la formula inesatta della tutela della società. La tutela della società intanto è necessaria in quanto è necessaria la società civile per proteggere i diritti dei consociati. Il Governo legittimamente col giure punitivo protegge anche sè medesimo, in quanto la tutela di sè è indispensabile alla tutela dei singoli, i quali, costituito una volta il governo, acquistano tutti e ciascuno, il diritto che sia rispettato. Onde chi offende quello offende tutti i cittadini; e dal dovere che incombe allo Stato di tutelare i diritti dei singoli nasce in lui il diritto di tutelare sè stesso.
§. 28. - Risultante da un atto esterno - L'esercizio della giustizia è delegato in virtù della legge dell'ordine alla autorità sociale, perchè siano tutelati i diritti dell'uomo, mercè una coazione efficace e presente, adietta al precetto naturale di rispettarli. Ma i diritti dell'uomo con gli atti interni non possono offendersi: dunque l'autorità sociale non ha il diritto di perseguitare gli atti interni. Alle opinioni ed ai desideri non può imperare l'autorità umana; e i pensieri non possono senza abuso considerarsi come delitti, non perchè siano occulti allo sguardo dell'uomo, ma perchè nell'uomo non vi è diritto di chieder conto al suo simile di un atto che a lui non può recare nocumento. La tutela dell'ordine esterno sulla terra spetta all'autorità: la tutela dell'ordine interno non spetta che a Dio. E quando si dice che la legge penale non può colpire il pensiero, s'intende sottrarre al suo dominio tutta la serie dei momenti che compongono l'atto interno - pensiero - desiderio - progetto - e determinazione - finchè non è dedotta alla sua esecuzione.
§. 29. - Dell'uomo - Il soggetto attivo primario del delitto non può esser che l'uomo: solo in tutto il creato, che come fornito di volontà razionale, sia ente dirigibile (1).

(1) Sui processi fatti in altri tempi agli animali sono a vedersi le erudite osservazioni di M. Ortolan Cours de droit peral pag. 188.

§. 30. - Positivo o negativo - Per la tutela dei diritti dell'uomo può esser necessario che si vietino alcuni atti, e se ne impongano in certe circostanze alcuni altri. La legge che vieta i primi si viola con l'atto positivo contrario: la legge che impone i secondi si viola con l'atto negativo. Dunque possono esser delitto tanto gli atti di commissione, o di azione; quanto quelli di omissione, o di inazione. Ma l'omissione di uno può congiungersi con la commissione di altri: e questo rapporto configurare nell'atto negativo l'infrazione della legge che vieta l'atto positivo. In tal caso però non sorge il vero delitto d'inazione, perchè il vincolo morale (accordo) che congiunge l'inazione di uno coll'azione di un altro come mezzi convergenti al fine delittuoso, unifica il delitto di ambo i partecipi; e trovandone il titolo nell'atto positivo, non fa dell'atto negativo che un elemento di partecipazione. Per avere il delitto di pura inazione bisogna supporre l'assenza di un fatto positivo colpevole, a cui volontariamente si concorra coll'omettere una qualche cosa. Laonde il delitto di pura inazione non può concepirsi se non nei casi in cui altri abbia diritto esigibile all'azione omessa. Così la madre che non allatti il bambino per condurlo a morte commette un vero delitto d'inazione, un vero infanticidio: perchè la creatura ha diritto all'azione dell'allattamento. La categoria di questi delitti si allarga grandemente in quelle legislazioni che ammettono il principio della solidarietà difensiva dei cittadini.
§. 31. - Moralmente imputabile - L'uomo soggiace alle leggi criminali per la sua natura morale: dunque nessuno può essere politicamente responsabile di un atto di cui non sia responsabile moralmente. L'imputabilità morale è il precedente indispensabile dell'imputabilità politica.
§. 32. Il delitto come fatto ha origine dalle umane passioni, le quali spingono l'uomo a ledere i diritti del proprio simile, malgrado la legge che proibisce di farlo.
§. 33. Il delitto come ente giuridico ha origine nella natura della società civile. L'associazione, che all'uomo è imposta dalla legge eterna come mezzo di conservazione, di progresso intellettuale, di perfezionamento morale, e di protezione del diritto, non sussisterebbe, nè risponderebbe ai suoi fini, se ciascuno dei consociati avesse libera ogni sua voglia, anche ingiusta e dannosa ad altrui. Di quì la necessità di proibire certi atti, che turberebbero l'ordine esterno; e decretare che qualora si commettano saranno considerati come delitti. Questa necessità dicesi necessità politica. La necessità politica è la formula che esprime il rapporto della legge criminale con la società già esistente. Ma la necessità politica guardata nella sua prima causa non è che una necessità della natura umana. Se fosse altrimenti, la necessità politica sarebbe una formula empirica, che non varrebbe a mostrare la legittimità della proibizione.
§. 34. Si noti che il delitto non è definito un'azione, ma un'infrazione. Dunque la sua nozione non si desumè dal fatto materiale, nè dal divieto della legge, isolatamente guardati; ma dal conflitto tra quello e questo.
§. 35. Dunque l'idea del delitto non è che un'idea di rapporto. Il rapporto contradittorio tra il fatto dell'uomo e la legge. In questo solo consiste l'ente giuridico cui si dà il nome di delitto, od altro sinonimo. E un ente giuridico che ha bisogno per esistere di certi elementi materiali e di certi elementi morali; il complesso dei quali costituisce la sua unità. Ma ciò che completa il suo essere è la contradizione di quei precedenti colla legge giuridica.
§. 36. Da ciò si rileva essere un falso punto di vista ritenere che l'oggetto del delitto sia la cosa o l'uomo su cui l'azione criminosa si esercita. Il delitto si perseguita non come fatto materiale, ma come ente giuridico. L'azione materiale avrà per oggetto la cosa o l'uomo: l'ente giuridico non può avere per suo oggetto che un'idea - il diritto violato, che la legge col suo divieto protegge.
§. 37. L'azione guardata come fatto materiale si compone di diversi momenti: ciascuno dei quali ha una distinta oggettività relativa, che sta nelle cose od uomini su cui l'azione stessa successivamente si svolge nel corso di tali momenti.
§. 38. Guardata nel risultato dell'insieme di quei momenti, la sua oggettività (non più materiale ma ideale) varia secondo il diverso rapporto sotto il quale si considera tale risultato.
§. 39. Così a modo d'esempio nel furto l'oggetto dell'atto materiale di prender la cosa altrui sarà la cosa stessa. Ma considerato cotesto fatto nel suo rapporto ideale, fa sorgere diversi enti ideali, appunto pel variare dell'oggettività. Il teologo vi scorge un peccato; il moralista un vizio; il criminalista un delitto. Ma i tre enti ideali - peccato, vizio, delitto - hanno essi l'identico oggetto? No. L'oggetto del peccato è il precetto divino; del vizio il precetto morale; del delitto il precetto civile; perchè appunto dalla violazione di questi tre distinti precetti, e così dal variato rapporto di quell'atto materiale, nascono le tre idee distinte di peccato, di vizio, di delitto. Se fosse altrimenti, unificati nell'oggetto come lo sono nel soggetto, quei tre enti ideali si confonderebbero in uno.
§. 40. L'uomo che delinque è il soggetto attivo primario del delitto. Gli strumenti dei quali si serve ne sono un soggetto attivo secondario. L'uomo o la cosa su cui cadono gli atti materiali, dal colpevole al pravo fine indirizzati, sono il soggetto passivo del delitto. 1l diritto astratto che si viola è l'unico e vero oggetto del delitto.
§. 41. Soggetto attivo primario del delitto non può esser che l'uomo: perchè al delitto è essenziale la genesi da una volontà intelligente, la quale non è che nell'uomo. Ed ogni uomo in punto astratto di ragione può essere soggetto attivo di delitto; quantunque la sua posizione possa esser di ostacolo alla sua attuale persecuzione.
§. 42. Oggetto del delitto non può essere che un diritto; al quale la legge abbia espressamente accordata la sua tutela col divieto e con la sanzione. Così legge protettrice e diritto protetto si compenetrano a formare l'idea, che sta come oggetto all'ente giuridico chiamato malefizio, reato, crimine, delitto. Un'azione è delitto non perchè offende l'uomo o la cosa; ma perchè viola la legge. Tuttociò che serve di stromento materiale o attivamente o passivamente alla violazione, è il soggetto, o attivo o passivo della violazione medesima (1).

(1) Questa nomenclatura, sebbene a taluno dispiaccia, è l'unica che serva ai bisogni della scienza, e si presti ad esprimere con esattezza i singoli casi. La medesima si costruì dal Carmignani dopo avere osservato come l'abuso delle parole obiettività e subieltivilà fosse stato cagione alle scienze di confusione grandissima; e la si adotta dai criminalisti contemporanei che si pregiano di essere esatti: come p. e. da M. Ortolan.

§. 43. Rettificate coteste nozioni, e distinta l'obiettività materiale dell'azione, dall'obiettività ideale dell'ente giuridico risultante dal rapporto tra l'azione e la legge, si elimina una mano di difficoltà.
§. 44. Pretendendo trovare l'oggetto del delitto nella cosa su cui cade l'azione, dove si brancola egli quando l'azione consista nell'uso di cosa propria, come nella fabbricazione di grimaldelli o false monete, nella bestemmia reale?
§. 45. Pretendendo trovarlo nella persona su cui cade l'azione, dove si brancola quando l'azione cade sul condelinquente? Nell'incesto, a modo di esempio, chi fra l'uomo e la donna sarebbe il soggetto; chi l'oggetto di tale delitto? Il delitto risultante dal concorso dei due agenti alla violazione della legge è uno, e non può avere dualità alternante di oggetto. E d'altronde se nella legge o diritto attaccato non trovasi l'oggetto dei delitti; questa legge e diritto, nella cui offesa sta l'essenzialità del malefizio, qual figura vi rappresenterà essa?
§. 46. Questi imbarazzi si evitano riportando nel soggetto del delitto tuttociò che è materiale, e che completa l'azione cui osta la legge. Così naturalmente si comprende perchè dove non è legge promulgata non possa concepirsi malefizio: ciò è perchè al malefizio mancherebbe l'oggetto. E si comprende perchè debba ammettersi la nozione di delitto anche là dove il soggetto passivo non è senziente; e dove, se è senziente, non è intelligente; e dove è senziente ed intelligente, ma consenziente.
§. 47. E' non senziente il cadavere. Eppure le offese contro i cadaveri (1) possono con Usurare delitto, perchè si offende la legge, che li tutela per un riguardo o alle famiglie, o alla religione, o alla morale, o alla salute pubblica. I cadaveri sono cose. Ma anche sulle cose può cadere delitto, quando esistano fra loro ed uomini vivi tali rapporti che generino in questi un diritto; come senza dubbio è un diritto di tutti i cittadini che non infettisi l'aria, o che non si infami malignamente (2) la memoria dei loro congiunti.

(1) Qui ponesi il dubbio circa l'offesa recata al corpo stesso dell'estinto, o al suo nome. Caso ben distinto dal guasto di monumenti, o dal furto di gemme o vesti sepolte con l'estinto.

(2) Il requisito della malignità nell'ingiuria è il criterio che concilia la teoria della imputabilità delle ingiurie ai morti, sostenuta da Dupin, con la libertà della storia, all'ombra della quale Coquille, Fontecte, ed altri, vollero declinare in senso assoluto la possibile criminalità di quanto dicasi di ingiurioso contro un trapassato.

§. 48. Sono non intelligenti il feto nell'alvo materno, l'infante, il demente, il dormiente. Eppure sono abili a formare soggetto passivo di reato, perchè forniti di diritti che la legge difende, sebbene non si conosca o il diritto da chi lo possiede, o l'offesa da chi la riceve (1).

(1) Appella qui la questione (svolta da Lucas p. 5, e da Tissot vol. I p. 15) se possono essere soggetti passivi di delitto gli animali per quelle crudeltà che contro loro si esercitino da chi ne è proprietario.

§. 49. Sono consenzienti quelli che all'azione materiale esercitata sovra di loro concorsero con libera volontà; ed anche con atti; come il suicida, e il soldato che si mutila (1). Eppure perchè il diritto offeso è inalienabile per parte di chi lo possiede; e la legge lo tutela pel mantenimento dell'ordine, anche a dispetto di lui; il consenso del soggetto passivo non distrugge la nozione del reato: sicchè rimane obiettabile nel primo caso al partecipe del suicidio; come nel secondo caso al mutilato e al mutilatore. Al reato rimane l'oggetto nel diritto offeso, benchè si abbia nell'istessa persona l'agente e il paziente; come resta sempre l'oggetto al peccato anche quando non violi i rapporti dell'uomo con le altre creature, perchè si commetta tutto in sè stesso dal pecca tore. E così nitido questo concetto, che non sa comprendersi la tenacità di alcuni a voler dire che la cosa rubata e l'uomo ucciso sono l'oggetto del delitto: ente ideale, come lo sono tutti quelli che consistono in un mero rapporto. Usando sì fatta locuzione si costruisce l'ente completo (delitto) senza l'intervento della legge; lo che è assurdo.

(1) Questi due casi si reggono da diversi principi. Il caso del soldato che si mutila per non servire trova ragione della sua incriminazione nei diritti che hanno gli altri cittadini al suo servizio, e che egli viola mutilandosi: V. Puttmann Diss. de murcis. Il caso del complice di un suicida trova la base della sua incriminazione nella inalienabilità del diritto alla vita. Vedasi Pillwitz Diss. de animi ad aulliochiriam persuasione ejusque poena, cap. 2. - Baumhauer Diss. de morte voluntaria.

§. 50. I delitti si dividono in formali e materiali. Quelli si consumano con una semplice azione dell'uomo; la quale basta senz'altro a violare la legge. Questi per essere consumati hanno bisogno di un dato evento, nel quale soltanto si ravvisa l'infrazione della legge. Cotesta distinzione richiama l'altra fra danno potenziale e danno, effettivo, di cui diremo in seguito; ed è importante nella teoria del conato.
§. 51. Si dividono ancora i delitti in delitti di fatto permanente; e son quelli che lasciano una traccia dietro di loro; e delitti di fatto transeunte; e sono quelli che non lasciano vestigio di sè. E si dividono pure in flagranti, non flagranti, e quasi flagranti; secondochè il colpevole vien sorpreso sul fatto, o nò: o viene inseguito dal clamor pubblico; l'Huc fugit, che in Roma faceva luogo alla quiritatio; così detta per la formula adeste quirites. Queste distinzioni sono utili nella teoria della procedura, e della prova.
§. 52. Si distinguono ancora in comuni e proprii, secondo che possono commettersi da qualunque uomo; o soltanto da chi è collocato in una certa condizione. Vogliono pure in certi casi esser divisi in semplici, quando l'indole criminosa nasce da una sola azione; e collettivi, quando la nozione non ne sorge, se non al seguito di azioni ripetute che costituiscano l'abitualità. Queste due distinzioni sono puramente nozionali. Nella teoria della complicità, e della continuazione è impoi tante la divisione dei delitti in istantanei e successiva. E finalmente per lo studio della quantità dei delitti, giova distinguerli in semplici, e complessi. Nel qual contrapposto si dicono semplici quelli che ledono un solo diritto: e complessi quelli che violano più di un diritto; o per mera concomitanza, come se un'arma esplosa contro uno ferisce anche altri; o per connessione di mezzo a fine. Il delitto complesso non deve però confondersi col delitto simultaneo, il quale suppone diversità di fini, e di atti (§.168), quantunque contemporanei.

CAPITOLO III
Delle forze del delitto.

§. 53. Abbiamo veduto che il delitto non è un semplice fatto. è un ente giuridico, alla essenza del quale, che tutta sta in un rapporto, occorre il concorso di quelli elementi, dai quali risultando l'urto del fatto con la legge civile, se ne costituisca la criminosità dell'azione.
§. 54. Perciò al delitto è necessario il concorso di due forze; ambedue indispensabili perchè un fatto delittuoso possa a lui rimproverarsi come delitto. Forza morale: forza fisica. Le due forze che la natura ha dato all'uomo, e lo insieme delle quali costituisce la sua personalità, devono concorrere in un fatto perchè sia atto umano, e possa dirsi delitto.
§. 55. Ambedue queste forze debbono guardarsi o nella loro causa, ossia soggettivamente; o nel loro risultato, ossia oggettivamente.
§. 56. La forza morale soggettiva del delitto consiste nella volontà intelligente dell'uomo che agì. Perciò dicesi forza interna; forza attiva. Il suo risultato morale; o la forza morale del delitto guardata oggettivamente; è l'intimidazione e il malesempio che il delitto cagiona nei cittadini, o sia il danno morale del delitto.
§. 57. La forza fisica soggettiva del delitto si rappresenta dal moto del corpo con cui l'agente eseguisce il pravo disegno. Perciò dicesi forza esterna; e, rispetto alla forza derivante dall'animo, forza passiva. Il suo risultato: o sia la forza fisica del delitto guardata oggettivamente; è l'offesa del diritto attaccato; o, come alcuni dicono (v. nota 402) il danno materiale del delitto.
§. 58. Dalla forza interna sorge nel delitto l'elemento morale: dall'esterna l'elemento materiale, o la sua essenza di fatto: dall'interna congiunta all'esterna l'elemento politico. Se l'azione dell'uomo non presenta congiuntamente e l'indole morale, e l'indole politica, non può l'autorità perseguitarla come delitto.
Articolo I.
Della forza morale
.
§. 59. La forza morale del delitto cercata nella sua causa; ossia la sua forza morale soggettiva; è ciò che costituisce la moralità dell'azione.
Questa non si ottiene se non pel concorso di quattro requisiti che abbiano accompagnato l'operazione interna, al seguito della quale l'uomo procedette all'operazione esterna.
Tali condizioni sono
- 1° cognizione della legge (1)
- 2° previsione degli effetti
- 3° libertà di eleggere
- 4° volontà di agire.

(1) Cioè della legge in genere che vieta l'atto; non delle speciali determinazioni repressive, come bene avverte Carmignani.

§. 60. I primi due requisiti per la legge umana basta talvolta che esistano potenzialmente: gli ultimi due devono esistere anche attualmente.
§. 61. I primi due requisiti si riassumono nella formula - concorso di intelletto: infatti tra gli effetti previsti o prevedibili dall'agente come conseguenza della propria azione, rientra anche quello della violazione della legge.
§. 62. Gli ultimi due si riassumono nella formula - concorso di volontà - perchè la libertà è un attributo indispensabile della volontà: cosicchè questa non può esistere senza di quella, nel modo stesso che non può essere materia senza gravità.
§. 63. Dal concorso dell'intelletto e della volontà sorge l'intenzione. La quale si definisce in genere - uno sforzo della volontà verso un certo fine - e in specie - uno sforzo della volontà verso il delitto.
§. 64. L'intenzione può esser perfetta, e imperfetta. è perfetta quando l'intelletto e la volontà sono nella loro attuale pienezza. è imperfetta quando una causa qualunque diminuisce (sia in abito, sia anche soltanto in atto) o la potenza intellettiva, o la spontaneità volitiva dell'agente.
§. 65. Se l'intelletto o la volontà, od entrambe, mancarono del tutto all'agente, non vi è intenzione, e non vi è per conseguenza imputabilità. Se o l'uno o l'altra, od entrambe, furono soltanto minorati, vi resta un'intenzione, ma imperfetta: vi resta imputabilità, ma minorata.
§. 66. L'intenzione distinguesi ancora in diretta, e indiretta. Il criterio di questa distinzione per gli usi della scienza non vuol essere tanto desunto dai mezzi, quanto dallo stato dell'animo. è diretta l'intenzione quando l'effetto reo si previde dall'agente, e si volle calcolandolo come conseguenza necessaria dei propri atti. è indiretta quando l'effetto era soltanto una conseguenza possibile dei proprii atti, o niente preveduta, o preveduta senza volerla. Se questo effetto si previde, e malgrado tale previsione si vollero i mezzi, sebbene non si volesse precisamente l'effetto, l'intenzione indiretta dicesi positiva: perchè se la volontà era in stato indifferente, fu però in stato positivo l'intelletto. Se poi l'effetto possibile non solo non si volle, ma neppur si previde, l'intenzione indiretta dicesi negativa: perchè fu in sfato negativo così l'intelletto come la volontà (1).

(1) Vedasi la mia lezione sul dolo e l'Haus Cours de droit criminel ed. 1861 pag. 79.

§. 67. Che se l'agente previde e volle il fine; ma si servì di mezzi, il risultato dei quali era meramente possibile, calcolando ne conseguisse l'effetto che realmente ne conseguì, l'intenzione non è indiretta, ma veramente diretta. Indiretti sono i mezzi, non l'intenzione: e male si confonde dal Desimoni l'indirezione degli uni con l'indirezione dell'altra.
§. 68. L'intenzione diretta, e l'indiretta positiva fanno sorgere il dolo. L'intenzione indiretta negativa fa sorgere la colpa, o il caso, secondo il criterio della prevedibilità.
§. 69. Il dolo si definisce - l'intenzione più o meno perfetta di fare un atto, che si conosce contrario alla legge (1).

(1) Errò Carmignani quando seguendo le orme di Puffendorf (in Tract. de culpa) pose come condizione del dolo, che è un atto tutto interno, l'azione esteriore. Errò quando pose il dolo nell'intenzione di violare la legge. Ma errano del pari coloro che nel dolo ravvisano un mero atto di coscienza. Questo errore si dimostra lucidamente cercando quale fra le diverse facoltà dell'anima sia quella che all'uomo è imputabile. Tre sono le facoltà psicologiche dell'uomo-l.a sensibilità - 2.a intelligenza - 3.a attività - 1.° Dalla sensibilità nascono i sentimenti di piacere e di dolore; e di qui gli appetiti, che quando esercitano forte pressione sull'anima, divengono passioni. La sensibilità è l'agente provocatore delle nostre azioni, e delle nostre inazioni; e svolgesi nei tre fenomeni, sensazione, sentimento, e passione. Ma la sensibilità non essendo nè illuminata nè libera, non può entrare negli elementi della imputabilità. - 2.° L'intelligenza si svolge nei tre fenomeni, della percezione, della reminiscenza, e del giudizio, che è atto di pura ragione. Ma anche qui non può trovarsi la base dell'imputabilità; perchè il non percepire, il non ricordare, e lo errare nel ragionamento non sempre sono imputabili all'uomo. -3.° L'attività è la facoltà di determinarsi ad una azione, o ad una inazione. Sua condizione essenziale è la libertà. La volontà come potenza di volere è un identico colla libertà. La volontà come fatto di aver voluto non è più una potenza, ma l'esercizio della potenza. Ora quando un'azione si imputa all'uomo, gli si imputa perchè si determinò alla medesima esercitando la sua attività psicologica. Dunque l'imputabilità cade sull'attività, e non sulla sensibilità o sull'intelligenza. Dunque il dolo deve definirsi come un atto della volontà, deve trovarsi nell'intenzione.

§. 70. Il dolo distinguesi in due specie:
dolo determinato - ed è quello che si costituisce dall'intenzione diretta - e
dolo indeterminato - ed è quello che si ravvisa nell'intenzione indiretta positiva.
§. 71. Queste due specie costituiscono due diversi gradi del dolo, considerata la sua gravità sotto il rapporto della certezza nella determinazione.
§. 72. Sotto il rapporto della sua intrinseca forza, cioè della maggiore o minore energìa della determinazione, il dolo distinguesi in quattro gradi, secondo il combinato criterio di durata, e di spontaneità nella determinazione criminosa (1).

(1) Acutamente l'Eisenhart (De criminis sociis §. I) definì il criterio del grado nel dolo con la formula -che tanto più grave è il dolo quanto più era vincibile l'impulso malvagio. Questa formula coincide con la nostra graduazione; perchè la vìncibilità dell'impulso sta in ragione diretta del tempo concesso alla riflessione; e in ragione inversa dell'energìa della passione. L'uomo è responsabile della sua determinazione, perchè Dio armò del presidio della ragione la sua attività psicologica. Ma la ragione ha nella sua essenza la condizione di essere larda e fredda. Quando pertanto ricorre la mancanza di calma e di intervallo, si può sempre delinquere, perchè vi è una volontà. Ma è una volontà meno armata. Dunque il dolo in questi casi ha un'intensità minore: e il delitto presenta una forza morale soggettiva minore: alla quale minor forza soggettiva corrisponde, come effetto a causa, una minor forza morale oggettiva. Male dunque, e senza ragion sufficiente in alcune scuole si respinge qualunque gradazione di dolo.

§. 73. Il primo grado, che è il sommo, si ha nella premeditazione; nella quale concorre la freddezza del calcolo, e la perseveranza nel malvagio volere, mercè l'intervallo passato tra il determinare e l'agire.
§. 74. Il secondo grado si ha nella semplice deliberazione; nella quale ricorre la perseveranza del malvagio volere, ma non la freddezza dell'animo.
§. 75. Il terzo grado si ha nell'improvvisa risoluzione, nella quale ricorre la freddezza dell'animo, ma non la perseveranza nel reo proposito.
§. 76. Il quarto grado si ha nel predominio, ed urto istantaneo di cieca passione; ove non ricorre nè la calma dello spirito, nè l'intervallo fra la determinazione e l'azione.
§. 77. I primi due gradi si riuniscono nel linguaggio pratico sotto la formula dolo di proposito: gli ultimi due sotto la formula dolo d'impeto. Ma nell'applicazione del grado della respettiva imputazione è necessario suddividere, come sopra, ciascuna di queste due formule; onde alla diversità di condizioni ontologiche e morali, che è propria di ciascun grado, risponda una diversità nelle condizioni giuridiche. Il dolo di proposito si costituisce dei due elementi - intervallo, e risoluzione. L'intervallo fra la determinazione e l'azione non può essere di brevi momenti: nulla vi è per altro di stabilito circa la sua durata; e più che dal tempo, si deve desumere dagli atti estranei interceduti. Quando l'intervallo sarà breve, il delitto potrà essere predisposto, ma non mai premeditato. La risoluzione non deve confondersi col desiderio, e con la passione (p. e. l'odio) che fu causa della risoluzione: nè deve scambiarsi con un'idea tuttora incerta che agiti l'anima (1). Deve rappresentarsi dal futuro dell'indicativo.

(1) Ottimamente svolge questa nozione Niccolini Questioni di diritto pg 575 ediz. liv.

§. 78. Quando l'uomo che diede opera ad un fatto, di cui fu conseguente la offesa alla legge, non volle nè previde quella conseguenza, ma previde e volle soltanto l'antecedente, non si ha più dolo rispetto al conseguente.
§. 79. Se il conseguente non previsto nè voluto era prevedibile si ha la colpa: se non era neppur prevedibile dall'agente si ha il caso.
§. 80. La colpa si definisce la volontaria omissione di diligenza nel calcolare le conseguenze possibili e prevedibili del proprio fatto.
§. 81. Dicesi omissione volontaria perchè sebbene nei fatti colposi si abbia un vizio dell intelletto, che non previde le conseguenze dannose di un fatto, pure nella sua genesi questo vizio di intelletto risale alla volontà dell'agente; perchè per un vizio di volontà ei non adoperò la riflessione con cui poteva illuminarsi, e conoscere tali conseguenze sinistre. Se la colpa fosse mero vizio di intelletto, essa per logica necessità non sarebbe imputabile nè moralmente, nè politicamente. Lo è appunto perchè la negligenza ebbe causa nella volontà dell'uomo. Da quel falso concetto nacquero i dubbi di ài.men»ingen (de imputatione juridica) e di altri, che negarono l'imputabilità della colpa: e nacque la formula empirica che la colpa si imputi soltanto per eccezione.
§. 82. Gli atti colposi non devono confondersi con gli atti negativi. Nei delitti di omissione il corpo è inattivo, ma l'animo è attivo: perchè per un fine a cui tende, impera l'inoperosità al corpo. Nei fatti colposi il corpo è attivo, perchè fa quegli atti da cui nasce l'effetto dannoso, ma l'animo è inattivo, perchè non spinge il suo calcolo alla previsione di tali effetti.
§. 83. Dicesi conseguenze prevedibili: perchè l'essenza della colpa sta tutta nella prevedibilità.
§. 84. Il non aver previsto la conseguenza offensiva sconfina la colpa dal dolo. Il non averla potuta prevedere sconfina il caso dalla colpa.
§. 85. Perciò il caso non è imputabile: perchè posto ancora che vi fosse precipitanza nell'agire, non può rimproverarsi l'omissione di una diligenza, il cui uso, stante l'assoluta impotenza nell'intelletto, sarebbe riescito inane a prevedere gli effetti che ne seguirono.
§. 86. Nell'esattezza del linguaggio il nome di delitto si riserba ai soli fatti dolosi. Ai fatti colposi applicarono i pratici il titolo di quasi-delitti; che però dai giureconsulti romani adoperavasi ad esprimere tutt'altro concetto (1).

(1) V. Lussaud Des dèlits et quasi dèlits, p. 86 - Subouts De delictis et quasi delictis sect. 2.

§. 87. Se l'essenza della colpa sta nella prevediblità dell'effetto sinistro, non voluto però nè previsto dall'agente, bisogna inferirne che il criterio con cui si calcola il grado della colpa; e così la misura della sua imputazione; deve desumersi; non dalla maggiore o minore possibilità dell'effetto dannoso; ma dalla maggiore o minore prevedibilità di cotesto effetto.
§. 88. Su questa norma della prevedibilità si regola la divisione della colpa in lata, leve, levissima. è lata quando l'evento sinistro si sarebbe potuto prevedere da tutti gli uomini. è leve quando sanasi potuto prevedere soltanto dagli uomini diligenti. è levissima quando si sarebbe potuto prevedere soltanto mercè l'uso di una diligenza straordinaria e non comune.
§. 89. Or siccome la legge umana non può mai spingere le sue esigenze fino ad imporre ai cittadini cose insolite e straordinarie; così è indubitato che la colpa levissima non è imputabile per principio di giustizia. Non lo è poi anche per principio di politica; perchè nell'omissione di una straordinaria diligenza non ricorre l'elemento della forza morale oggettiva; non potendo i cittadini intimidirsi se altri non usa quelle precauzioni che dalla comune di loro non si usa; e che ciascuno sente che non adoprerebbe in simigliante caso egli stesso.

§. 90. E se la colpa levissima non è per giustizia imputabile, ne consegue che quella triplice distinzione delle colpe è impreteribile nel diritto penale; e che una legislazione (1) che la ometta viola la giustizia: perchè col ferire indistintamente tutte le colpe, viene a colpire anche la negligenza levissima; e così ad imporre ai cittadini l'obbligo di una diligenza straordinaria, che razionalmente non si può esigere da loro.

(1) Così il Codice toscano imputa, e punisce qualsiasi leggerissima colpa al pari della colpa la più sciagurata.

§. 91. Tanto nei fatti dolosi quanto nei fatti colposi si riscontra così soggettivamente come oggettivamente la forza morale del delitto, come altrove (§. 126) diremo.
Articolo II.
Della forza fisica
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§. 92. La legge di natura non costituisce l'uomo vindice delle violazioni della legge morale, se non in quanto il turbamento dell'ordine esterno abbisogna di una sanzione pronta e sensibile. Perchè dunque l'autorità civile eserciti legittimamente il diritto di repressione sugli atti umani, bisogna che questi atti presentino la capacità di turbare l'ordine esterno; o sia di violare i diritti degli altri uomini.
§. 95. Ma siffatta capacità non offrono gli atti umani se non in quanto al malvagio disegno abbia tenuto dietro un moto corporeo, o sia un fatto esterno: coi soli atti interni non si può turbare l'ordine esterno.
§. 94. Perciò negli atti meramente interni si può ravvisare vizio o peccato, secondochè si guardano nei loro rapporti colla sola legge morale, o religiosa; ma non può ravvisarvisi delitto. All'ente giuridico che si chiama delitto, è dunque necessario un secondo elemento, ed una seconda forza, che dicesi forza fisica.
§. 95. La forza fisica del delitto, guardata nella causa, o soggettivamente, ha il suo elemento nell'atto corporeo: essa nasce dal moto che l'animo imprime alle membra, per farle, secondo il suo pravo disegno, servire all'esecuzione del fatto reo. Laonde questa dicesi anche forza esterna, perchè si mostra agli occhi altrui; e forza passiva, perchè il corpo passivamente obbedisce all'impero della volontà.
§. 96. La forza fisica del delitto guardata nel suo risultato, o oggettivamente, consiste nel danno recato altrui con l'azione. Questo danno può essere effettivo, e potenziale. Effettivo quando è realmente avvenuta la perdita del bene attaccato. Potenziale quando, sebbene non sia del tutto avvenuta, è nel risultato dell'atto esterno la potenza a recarla; e ne è avvenuta però completa la violazione di un diritto.
§. 97. Il danno potenziale è dunque una cosa distinta dal pericolo. E il pericolo è esso pure di due specie. Altro è il pericolo appreso, il quale non ha mai presentato uno stato di fatto che rendesse imminente la violazione del diritto (p. e. le male qualità e tendenze di un uomo). Altro è il pericolo corso, il quale nasce da uno stato di fatto, che ha ad un dato momento reso imminente quella violazione. Il pericolo appreso non dà mai ragione di incriminare; e cade soltanto sotto le misure di buon governo. Il pericolo corso è la base dell'imputazione del tentativo, come a suo luogo (§. 352) vedremo. Il danno potenziale può far sorgere la nozione del delitto consumato. Quei delitti nei quali il danno potenziale basta alla loro consumazione son tutti delitti formali, appunto perchè nella semplice azione del delinquente, sebbene non susseguita dall'eletto che egli voleva ottenere, si configura una violazione del diritto, e così la perfetta infrazione della legge. Ove è mero pericolo, il diritto non è anche violato; ma soltanto minacciato.
§. 98. Nel delitto formale si ha danno effettivo in quanto è offeso il diritto astratto; e danno meramente potenziale in quanto al diritto concreto; o sia al godimento del bene materiale che voleva togliersi. L'azione è incompleta nei suoi rapporti colla sua oggettività materiale; perchè l'agente può non avere conseguito il bene cui tendeva: ma è completo il delitto nei rapporti con la sua oggettività ideale; cioè il diritto astratto violato. Questa distinzione bisogna dunque intenderla sempre referendo la potenzialità al bene materiale minacciato; poichè nel rapporto del diritto astratto anche il danno potenziale ha sempre in sè la effettività della lesione. Così chi ingiuria può non aver tolto l'onore all'oltraggiato, perchè nessuno abbia creduto all'ingiuria; e così il danno nel rapporto al bene materiale è rimasto in sola potenza: ma pure il delitto è completo, perchè coll'espressione ingiuriosa avente potenzialità di toglier l'onore, si è avverata l'effettiva violazione del diritto.
§. 99. Il delitto materiale al contrario esige sempre alla sua consumazione la reale privazione del bene a cui il diritto attaccato si riferisce. Così deve essere effettiva tanto la violazione del diritto astratto, quanto il toglimento del bene concreto.
§. 100. Neppure dunque tutti gli atti esterni procedenti da rea intenzione, possono essere elevati a delitto; ma quelli solo che hanno nociuto, o che avevano l'attitudine a nuocere ai diritti altrui; o quelli che hanno nel loro svolgersi posto il diritto in attuale pericolo. Senza ciò l'atto esterno è civilmente innocente, per quanto possa essere riprovato dalla morale o dalla religione (1).

(1) La mancanza assoluta nella società di ogni giurisdizione a punire le sole offese alla morale, od a pesare sulla bilancia della morale i delitti, è riconosciuta anche dai giuristi teologi - Bensa summa juris naturati ad errores modernos evincendos accommodata - (Parisiis 1853) §. 968. - Societatis jus et officium est externum solummodo ordinem tueri, et actus illos tantummodo punire, qui ad socialem ordinem turbandum tendant. Individualis vero honestatis nulla cura societati commessa est, praeter quam quae ad socialem ordinem pertinet. Idcirco obiectum juris humani est solum delictum proprie sumtum. Ergo societati nullum jus est puniendi crimina quae individuali tantum peccantis bona repugnant. Ergo punitionis proportio non ad moralem, sed ad civilem delicti malitiam optanda est. - Insisto su questa verità per mostrare che non sono eterodossi coloro che, lottando contro una certa tendenza contemporanea, oppugnano le teorie di chi vorrebbe (§. 182) accattare dalla morale il criterio per misurare i delitti.

§. 101. Di più dal principio che la società è armata del gius di punire pel solo fine del mantenimento dell'ordine esterno, si deduce che quando in un caso ove il principio di giustizia esigerebbe la repressione, avvenga che l'applicarla porti all'ordine turbamento maggiore che il non usarne, cessa nella società il diritto di esercitare una giustizia, che è esternamente dannosa.
§. 102. Se adesso tornasi a considerare il delitto nella congiunzione di ambedue le sue forze, il danno dividesi in danno immediato o diretto, e danno mediato o riflesso, che dicesi anche da alcuni danno morale (1).

(1) Applico malvolentieri al danno mediato la denominazione di danno morale; perchè ciò, in ragione dell'antitesi, può ingenerare l'idea che il danno immediato si debba dire danno fisico; il che sarebbe erroneo. Il danno mediato è senza dubbio sempre un danno morale, nel senso che consiste nell'effetto prodotto dal delitto sull'animo dei terzi. Ma non per questo il danno immediato può sempre dirsi fisico o materiale. Esso risulta dalla forza fisica, o materialità dell'azione criminosa: ma non sempre si estrinseca in un risultato fisico. Può anch'esso consistere in un mero risultato morale, come nella minaccia, nell'ingiuria, nella bestemmia, e simili. Non è dunque esatto chiamare con /lussi il danno immediato mal materiale: e può esser fonte di equivoco chiamare con altri danno morale il danno mediato.

§. 103. Il danno immediato è quel male sensibile che il delitto reca col violare il diritto attaccato; sia che questo pertenga ad un individuo, o a più individui, od anche a tutti i membri dell'aggregazione, ed anche alla stessa aggregazione sociale guardata come persona di per sè stante. Perciò dicesi danno diretto, perchè consiste nella lesione del diritto colpito dall'azione criminosa direttamente.
§. 104. Il danno mediato è quello che il delitto reca anche a tutti gli altri cittadini, che non furono dall'azione direttamente colpiti: perciò dicesi danno riflesso; perchè chi lo soffre ne è colpito per riflessione, e come di rimbalzo.
§. 105. L'uomo in società gode il patrimonio naturale, e di più gode un patrimonio che dicesi politico.
§. 106. Il patrimonio naturale dell'uomo, è il compendio di tutti i beni che come individuo gli pertengono: vita, sanità, libertà, averi, onore, diritti di famiglia.
§. 107. Patrimonio politico dicesi quello che all'uomo spetta in quanto è membro di una civile società: la quale è costituita al solo fine di dare a lui i beni della sicurezza, e della opinione della sicurezza.
§. 108. Accettando questa nomenclatura e questa distinzione, non si intende già di porre in antitesi i diritti naturali coi diritti politici, nel senso che questi abbiano una derivazione diversa dalla legge naturale primitiva, e che siano frutto di umane convenzioni. Tenuto per fermo che la società civile abbia la sua origine nella legge di natura: che da questa provenga l'autorità direttiva dell'ordine esterno; e la potestà in lei di proibire le violazioni dei diritti naturali; l'aggregazione stessa viene ad essere un fatto naturale; e il diritto che ha ogni cittadino a vedere rispettato l'ordine di quella società ove egli è costituito, è anch'esso un diritto che nasce dalla natura. Sotto tale aspetto la distinzione tra patrimonio naturale e patrimonio politico, o non avrebbe seiiso, o avrebbe un senso fallace. Ma se un ordinamento sociale, un'autorità, una giustizia punitiva, guardate nel loro essere astratto, emanano direttamente dalla legge naturale; non è così delle loro forme. Le quali, purchè rispondano al fine della legge eterna dell'ordine, sono tutte legittime in ogni loro possibile varietà. Ora queste varietà, che costituiscono il modo di essere concreto di tale o tale altro ordinamento politico delle diverse genti, sono costituite dal consenso tacito o espresso dei cittadini: e appunto perciò si dicono ordinamenti politici.
§. 109. L'uomo pertanto che vive in una società, oltre ai diritti che avrebbe come individuo, e che formano il suo patrimonio naturale; ha il diritto che sia rispettata quella forma di ordinamento concreto nel quale trova la sua sicurezza. Il diritto alla nostra sicurezza ce lo dà la natura: ma la società, ministra della legge naturale nel proteggere cotesto diritto, attua la sicurezza mediante la legge; e genera nei cittadini l'opinione ragionata di quella. Costituita così la forma di protezione della società, ne nasce . nei cittadiniN il diritto di esigere che sia rispettata cotesta forma di protezione. In questo senso la sicurezza, e l'opinione della propria sicurezza, costituiscono al cittadino il patrimonio che si dice politico. E un fatto che senza offendere nessun individuo, offenda il corpo sociale, lede così tutti i consociati, non nel patrimonio naturale, ma nel patrimonio politico; perchè attaccando l'autorità guardiana dei diritti di ciascuno, mette a repentaglio la sicurezza di tutti.
§. 110. Posto ciò, è da avvertirsi che il delitto ora può immediatamente attaccare soltanto un individuo, o alcuni individui nei loro particolari diritti; ed ora può offendere direttamente tutti i consociati, non nei diritti che hanno come uomini, ma nei diritti che hanno come cittadini di quello Stato.
§. 111. Nel primo caso il danno immediato è privato, o particolare: nel secondo caso è pubblico, o universale. Nel primo caso dicesi attaccata la sicurezza privata; nel secondo la sicurezza pubblica. Questo concetto, che pone a base dei delitti politici la nozione del danno universale, rettifica l'errore nel quale caddero alcune moderne scuole (1) che la società civile guardarono come fine, a cui l'uomo dovesse servire: e così sommersero l'individuo nello Stato; immaginando in questo dei diritti suoi propri; e nei delitti contro lo Stato la violazione di una categoria di diritti tutti particolari di questa personalità. La società non è che un mezzo, uno strumento indispensabile alla tutela dei diritti naturali dei consociati: non può esistere antagonismo fra il potere e le moltitudini. Onde le offese alla società non sono lesioni di un diritto della persona astratta, ma dei diritti di tutti e ciascuno dei suoi
§.membri.

(1) V. Belime Philosophie du droit, vol. I, pag. 234 - Thiercelin Principes du droit edit. 4857, pag. 24, 25.

§. 112. Ma il danno immediato può essere danno pubblico tanto quando il fatto abbia effettivamente raggiunto un fine che era a detrimento di tutti; quanto allorchè tale lesione, effettivamente ristretta forse a pochi individui, attacca tutti potenzialmente. In ambo i casi si ha un danno immediato pubblico; in ambo i casi è attaccata la sicurezza pubblica (1).

(1) Questo modo di considerare il danno immediato pubblico, è sostanzialmente diverso da quello della scuola politica (abbracciato dal Carmignani) che considera come soggetto passivo di cotesto danno la persona ideale dello Stato. Anche nel danno immediato pubblicaci trova il suo soggetto passivo negli uomini reali, e il suo oggetto nel diritto degli individui consociati; non nella ideale personificazione dello Stato. Solo invece di esserne leso uno o pochi, son lesi tutti; donde chiariscesi la nozione del danno universale, e se ne scorge la grande importanza teorica e pratica.

§. 113. Il delitto dunque si caratterizza dal danno immediato privato soltanto in quei fatti criminosi che ledono l'individuo subietto passivo dell'azione criminosa, senza ledere nè effettivamente nè potenzialmente la sicurezza universale. Così il furto, a modo d'esempio, lede il solo deruba to. E da quel fatto nessun danno immediato nè deriva, neppure potenzialmente, a tutti gli altri consociati.
§. 114. Ma invece coll'offendere, p. e. la giustizia pubblica, non si ledono soli coloro a cui danno era rivolta l'azione; e che subiranno forse il danno immediato effettivo. Portando quell'azione indebolimento all'autorità magistrale, offende immediatamente tutti i cittadini, poichè tutti hanno interesse e diritto che vi sia giustizia, e sia rispettata. Cosi nella emissione di una falsa moneta il danno effettivo si risentirà soltanto da chi ebbe la falsa moneta per buona-, ma il danno potenziale cade su tutti, perchè la moneta posta in corso può venire in mano di tutti con apparenza di un valore che non ha: laonde per cotesta potenzialità ne avviene l'effettiva violazione del diritto che tutti hanno a vedere rispettata la fede della pubblica moneta; e sì l'uno che l'altro è danno immediato.
§. 115. Al contrario in certi fatti, non è possibile concepire il danno immediato di tutti. Se alcuno fu ucciso, violentato, derubato, ingiuriato, nessun diritto dei suoi concittadini può dirsi leso, neppure potenzialmente; perchè la potenzialità deve stare nell'atto consumato, e non nelle supposte sue possibili ripetizioni. In tali casi il danno immediato è tutto privato. Coll'uccidere un uomo non si è leso neppure potenzialmente alcun altro; nè violato per conseguenza alcun diritto che negli altri fosse di vedere rispettata quella vita. La sicurezza di ciascun di loro rispetto all'effetto immediato del delitto è illesa.
§. 116. Sicchè il danno immediato universale, o pubblico, si ha quando il delitto offende una cosa alla quale tutti i consociati hanno un comune interesse; e così un diritto a vederla rispettata; come la religione, l'autorità, la quiete pubblica, la proprietà pubblica, la giustizia, ec.
Il danno immediato particolare, o privato, si ha per lo contrario quando il delitto offende una cosa sulla quale avevano interesse i soli individui che furono soggetti passivi del delitto. Da queste nozioni si rileva che il danno potenziale privato basta a costituire il delitto perfetto quando vi concorre un danno effettivo pubblico. In questa formula si riassume tutta la teoria; e se ne illumina la dottrina del conato, come a suo luogo (§. 374 e segg.) vedremo.
§. 117. Ma tanto in quei delitti che recano un danno immediato pubblico, quanto in quelli che recano un danno immediato meramente privato, vi è sempre un secondo danno, il quale è costantemente pubblico, perchè patito da tutti: e questo è il danno mediato.
§. 118. Il danno mediato, o riflesso, consiste nella intimidazione (allarme) sorta nei buoni per la consumazione di un delitto; e nel cattivo esempio che se ne suscita nei male inclinati. Questo speciale fenomeno è quello che dà un carattere politico a tutti i delitti, e fa sì che per un'offesa immediatamente recata alla sicurezza di un solo, tutti gli altri mediatamente soffrano per la diminuita opinione della propria sicurezza.
§. 119. Gli uomini infatti vivono tranquilli in società nella fiducia che i loro diritti siano protetti, avverso le passioni dei malvagi, dall'autorità e dalla legge penale. Un'offesa che avvenga al diritto di alcuno in onta di tale protezione, è un lampo che rivela l'impotenza della protezione. Ciascuno all'udire che, malgrado il divieto, l'azione vietata si è commessa, sente che le passioni malvagie spezzano il freno della legge: dubita a ragione della efficacia di cotesto freno; e quantunque non vegga menomata attualmente la propria sicurezza, si sente meno sicuro, perchè prevede che ove una passione spinga qualche perverso a disegnare consimile offesa contro lui stesso, la legge repressiva non sarà a lui bastante tutela, come non lo è stata per l'altro, che già rimase vittima del delitto avvenuto.
§. 120. Il danno mediato del delitto è dunque un danno di mera opinione. Esso trae la sua essenza ideologica da una sola cosa - dalla possibilità della ripetizione - Più è facile la ripetizione, più l'allarme e l'incitamento saranno gravi ed estesi. Esso perciò è sempre universale, tanto in quei delitti che recano un danno immediato universale, quanto in quelli che recano un danno immediato soltanto particolare. Infatti, avendo esso per base l'idea di una possibile ripetizione del delitto commesso: e tale ripetizione potendo avvenire per parte di tutti, e contro tutti: l'universalità di cotesto danno è intrinseca alla sua natura. Se un delitto commesso da uno non potesse mai più ripetersi in diversi soggetti, quel delitto non avrebbe danno mediato; e così non avrebbe carattere politico. Sicchè il danno mediato è tutt'altra cosa del danno potenziale; perchè questo è una condizione reale del fatto eseguito; come lo fu il pericolo corso (§. 352): quello dipende dalla previsione di altri nuovi fatti. E l'uno e gli altri son differenti dal mero pericolo appreso; il quale ha tutta la sua base in un calcolo della mente, non conseguente ad una violazione di diritto già avvenuta.
§. 121. Ora cotesto effetto del delitto non è il risultato della sola sua forza fisica. è il risultato della forza fisica e della forza morale insieme combinate.
§. 122. Infatti quando un uomo cade per morbo, o per infortunio, può sentirsene dagli altri dolore; ma non vien meno per questo fatto la potenza morale dell'autorità, e la fiducia nella legge e nella giustizia. Nessuno ne trae argomento di audacia a turbare l'ordine esterno; nessuno ne sente crollare nell'animo l'opinione di essere sicuro dalle offese di gente perversa.
§. 123. Il malesempio e l'intimidazione sorgono soltanto quando si viene a conoscere, che quella morte è stata prodotta dal braccio di un uomo per malvagia intenzione, o per imprudenza. Allora il fatto lesivo dell'individuo diviene lesivo anche della legge. La lesione della legge aggiunge l'effetto morale all'effetto fisico della lesione materiale. E così col minorare la forza morale dell'autorità, si aggiunge al fatto direttamente dannoso, anche il carattere di indirettamente dannoso.
§. 124. Perciò il fondamento della politica imputabilità del dolo, e della colpa sta in questa combinazione della forza morale con la forza fisica. Bisogna che l'autorità offesa dal fatto doloso o colposo rialzi sè stessa nell'opinione dei cittadini, chiamando l'offensore a dar conto di sè. Obiettandolo a lui, e imputandoglielo a delitto, contrapone forza morale a forza morale. E mentre il delitto aveva eccitato i malvagi, e intimidato i buoni, intimidisce i malvagi e riconforta i buoni.
§. 125. Se la colpa dovesse considerarsi come mero vizio d'intelletto, bisognerebbe esitare sulla sua politica imputabilità; e cercare a questa un pretesto altrove che nei principii cardinali del giusto. Ma poichè nella colpa trovasi bene un vizio di volontà, è un inutile errore l'insinuare che il fondamento della politica imputabilità della colpa sia il sospetto del dolo. Non può la giustizia imputare per un sospetto. E questa formula condurrebbe ad assurde conseguenze nel graduare la imputazione dei fatti colposi. Sicchè la formula del sospetto del dolo, immaginata dal Carmignani, è inaccettabile. Lo è del pari la formula insignificante dettata dal Mori, che i fatti colposi si imputino per eccezione. Lo è lo specioso ritrovato di Almendingen; il quale scorgendo nella colpa un solo vizio di intelletto, andò a cercare il diritto della società di incriminare i fatti colposi nel bisogno di correggere i trascurati. Tutte queste speculazioni non varrebbero a far tranquilla la coscienza sociale sulla legittimità della repressione dei fatti imprudenti, se i medesimi non potessero farsi risalire ad un vizio di volontà: perchè il diritto di colpire un uomo per atti a lui non imputabili moralmente (§. 31) sul pretesto o di emendarlo, o di fare un'eccezione, o di avere un sospetto, non potrebbe facilmente dimostrarsi competente all'autorità. Ma rettificata la genesi della colpa, tutte queste difficoltà si dileguano. Nessun moralista negò mai che dai fatti colposi nasca l'obbligo alla riparazione del danno recato. Or se avviene che un fatto colposo non cagioni soltanto un danno privato, ma anche un danno sociale; perchè minori nell'animo dei cittadini l'opinione della propria sicurezza; è evidente che il fatto colposo obbliga alla riparazione anche di questo danno; e può per conseguenza imputarsi anche politicamente. Nel danno politico sta la ragion cardinale per cui diviene politica la preambula imputabilità morale.
§. 126. Il fondamento della politica imputabilità dei fatti colposi è tutto analogo a quello dei fatti dolosi. Cioè danno mediato concorrente coll'immediato. Anche pei fatti imprudenti sente il buon cittadino minorata l'opinione della sua sicurezza: e l'inclinato ad essere imprudente ne trae cattivo esempio. I fatti colposi in quanto risalgono ad un vizio di volontà, sono moralmente imputabili; perchè fu un atto volontario il tenere inerti le facoltà intellettive. Il negligente benchè non volesse la lesione del diritto, volle però il fatto nel quale doveva conoscere possibile o probabile quella lesione. Laonde se avviene che i fatti imprudenti producano un male politico; debbono essere, nella congrua proporzione e misura, imputabili anche politicamente; perchè anche da loro si ha il risultato politico che l'offesa materialmente particolare rechi perturbazione morale universale; e il cittadino ha diritto di esser difeso non solo contro gli scellerati, ma anche contro gli scioperati.
§. 127. Grande differenza però intercede fra l'imputabilità degli uni e la imputabilità degli altri, in ordine al danno immediato. Il quale pei fatti dolosi può essere anche potenziale, può consistere nella lesione di un diritto reintegrabile, e può anche supplirsi per l'effetto dell'imputabilità dal pericolo corso, lo che non ricorre nei fatti colposi. Questi non possono imputarsi agli effetti penali se il danno diretto cagionato da loro non consiste nello effettivo toglimento di un bene non reintegrabile. Non può accettarsi l'eccentrica dottrina di alcuni (§. 366 nota) che hanno nè più nè meno sostenuto potersi incriminare anche i fatti colposi che non hanno cagionato danno nessuno.

CAPITOLO IV
Nozioni generali della qualità, quantità e grado nei delitti.

§. 128. Fin qui abbiamo esaminato quali condizioni in genere debba avere un fatto, onde l'autorità sociale possa aver diritto di incriminarlo. Ma trovate le condizioni della politica imputabilità di un fatto, non potrà però essere in arbitrio del legislatore di imputarlo più o meno a piacimento suo. Esistono regole di assoluta ragione per limitare questo arbitrio: nè dalle medesime può deflettere l'autorità sociale senza o tradire il principio della difesa, o trascendere il limite della giustizia. E queste regole si riassumono nella formula che i delitti devono imputarsi con debita proporzione alla loro qualità, quantità, e grado. Infatti quando non più guardasi il delitto in astratto nelle sue generali nozioni e condizioni; ma scendesi a contemplarlo nelle sue speciali attuazioni, si trovano naturalmente tra specie e specie diversità importantissime: varietà di qualità; di quantità; di grado. Ecco le tre nozioni che seguendo la dottrina e nomenclatura esattissima della scuola italiana, rimangono a svilupparsi per completare la teoria del delitto.
§. 129. Se tutti gli enti che si presentano agli occhi del nostro corpo, o della nostra mente, fossero perfettamente identici, le idee di qualità, quantità, grado, sarebbero inconcepibili all'intelletto umano. Se gli enti fossero siffattamente distinti che non si ravvisasse tra loro nessun rapporto di identità, sarebbero per opposto motivo sempre indefinibili coteste idee. Ma gli enti che spettano ad un medesimo genere hanno più o meno fra loro dei caratteri comuni (rapporti di identità), e dei caratteri distolti (rapporti di varietà). E questi fanno sì che più enti, i quali per certi rapporti di identità attengono al medesimo genere, diversifichino l'uno dall'altro per certi rapporti di varietà; e così formino altrettante specie diverse.
§. 130. Di qui nasce in primo luogo la nozione della qualità. Qualità in senso generale è ciò che fa che la cosa sia tale qual'è. Nei delitti la qualità è ciò per cui avviene, che un fatto criminoso sia piuttosto un delitto che un altro delitto: è ciò che distingue titolo criminoso da titolo criminoso.
§. 131. Ma quando secondo le condizioni costitutive degli oggetti che si studiano, se ne è esattamente distinto il rapporto di qualità, nasce fra specie e specie il rapportò di quantità: e ne segue il bisogno di trovare il giusto criterio, sul quale si proceda ad attribuire ad una specie una quantità maggiore che ad altra specie.
§. 132. La quantità è ciò per cui fra diverse specie comparate fra loro esiste un rapporto di più o di meno.
§. 133. Il calcolo del rapporto di quantità varia tra specie e specie secondo il diverso elemento che si assume come criterio per misurarla.
§. 134. Così quando io confronto le condizioni ontologiche del franco con la moneta da cinque centesimi, ho il risultato che stante i molti caratteri di varietà che intercedono tra l'una e l'altra, le due monete sono di qualità diversa. Quando procedo poscia a calcolarne la relativa quantità, se assumo per norma del mio giudizio p. e. il volume, dirò che nei cinque centesimi vi è una quantità maggiore che nel franco: se assumo il peso, mi trovo all'istessa conseguenza: se invece assumo il valore, mi trovo a dire che il franco rappresenta una quantità maggiore della moneta da cinque centesimi.
§. 135. Così nel delitto non basta aver distinto specie da specie; e averne ottenuto la nozione che un fatto criminoso (p. e. il furto) costituisce un titolo di delitto diverso da quello costituito in altro fatto criminoso (p. e. dall'omicidio). Con ciò ho esaurito l'indagine sulla qualità. Ma ho bisogno di sapere inoltre quale dei due delitti è, rispetto all'altro, più grave, per proporzionarvi la giusta imputazione. Questa è l'indagine sulla quantità.
§. 136. Con la prima giungo a conoscere, a modo d'esempio, che l'atto di rubare fa sorgere un titolo di delitto diverso dall'uccidere. Con la seconda giungo a conoscere p. e. che l'omicidio rappresenta una quantità- di male politico, maggiore di quello che si riscontra nel furto. Se all'indagine sulla diversa qualità dei delitti non tenesse dietro l'indagine sulla possibile differenza di quantità politica respettiva; l'indagine sulla qualità sarìa puramente tecnologica, e niente di uso pratico. L'utilità della ricerca sulla qualità, o titolo dei delitti, è invece praticamente utilissima per la necessità di distinguere la quantità dei delitti che si sono trovati diversificanti nella qualità; onde a ciascuno attribuire la imputazione respettivamente dovuta.
§. 137. Ma il giure penale non solo ha bisogno di determinare i titoli dei diversi delitti, e la prevalenza astratta di un titolo sull'altro titolo. Il giure penale nella sua pratica applicazione non dovrà giudicare nè i generi, nè le specie; ma gli individui. Ora nei fatti individualmente contemplati può talvolta mancare qualche cosa alle condizioni ordinarie e normali. Ecco il grado nel delitto.
§. 138. Il grado è tutto ciò che manca ad un individuo per adeguare la condizione normale degli individui consimili.
§. 139. Quando con lo studio della qualità ho conosciuto che una moneta è diversa dall'altra moneta: quando con lo studio della quantità ho conosciuto che l'una ha un valore maggiore dell'altra: venendo poi ad applicare praticamente sugli individui questa seconda cognizione, posso cadere in errore, se non prendo ancora ad esaminare in ciascun individuo se in lui si riscontrino cause di degradazione. Questo esame può talvolta portare al risultato che quella moneta la quale per la sua specie avrebbe dovuto avere un valor maggiore dell'altra, lo abbia invece minore per la sua individuale degradazione p. e. sè è guasta o corrosa.
§. 140. Così nel delitto, dopo conosciuto che ai due fatti rispondono titoli distinti; e che dei due titoli l'uno è più grave dell'altro; può avvenire che applicando queste nozioni ad un fatto individualmente guardato, vi trovi una deficienza nelle condizioni ordinarie della sua specie. Di guisa che quel fatto particolare che contemplo, sebbene appartenente ad una specie che d'ordinario rappresenta una quantità maggiore di altra specie, pure per questa sua degradazione venga ad averne una minore (1).

(1) Tutte le circostanze che nel linguaggio pratico e legislativo si dicono aggravanti nei delitti speciali; come l'effrazione nel furto, l'insidia nel ferimento, la violenza nell'adulterio, e tutte altre simili; non tengono alla teoria del grado del delitto; ma della sua qualità e quantità. Tali circostanze aumentano la quantità politica del delitto, o perchè esprimono la violazione di più diritti; o perchè minorando la potenza della difesa privata, aumentano il danno mediato. L'effetto di tali circostanze è quello di cambiare il titolo del delitto (sia che ne cambino il nome ordinario; sia che al nome ordinario portino l'adiezione di un predicato odioso) e così mutano la specie. Non la degradano nè l'aggravano (§. 201, e segg.) è in questo senso che le aggravanti non appartengono alla teoria del grado. Ciò che aumenta la quantità del delitto cambia l'ente giuridico; ne fa diversa la specie. Il grado presuppone mantenimento del titolo ordinario.

§. 141. La quantità astratta rimane sempre l'istessa. Ma si modifica la gravità concreta del malefizio, per una accidentale deficienza nei suoi elementi costitutivi. Questo è ciò che determina il grado del delitto. La differenza fra ciò che attiene al grado e ciò che attiene alla quantità del delitto, risponde alla differenza fra ciò che denatura un ente, e ciò che lo degrada senza denaturarlo.
§. 142. Siffatta modificazione, e così l'effetto del grado nel delitto, può spingersi sino al punto di far cessare ogni politica imputabilità; come la degradazione di una moneta può giungere a tale da renderla di nessun valore.
§. 143. Quando opeia cotesto effetto la circostanza è scriminatrice (o dirimente). Negli altri casi dicesi escusante (o minorante). Formula che male si adoprerebbe nel primo caso; perchè dove sparisce l'idea di delitto non trova termini abili l'idea di scusa.
§. 144. Anzi in quest'ultima applicazione anche la denominazione di grado, se bene si considera, è meno esatta; perchè nella negazione di un essere non vi è un grado dell'essere. Pure per servigio dell'ordine si riunisce la trattativa delle minoranti e delle dirimenti, e sì le une come le altre si richiamano alla teoria del grado; quantunque quest'ultime non degradino il delitto, ma lo distruggano.
§. 145. Quando due reati si unificano nel criterio della qualità, della quantità, e del grado debbono per giustizia identificarsi nella loro imputazione. Giacchè sebbene, per legge mirabile di natura, non vi possano essere due enti materiali perfettamente identici, opponendosi a ciò le infinite varietà dello spazio nel luogo e nel tempo; si può avere dall'uomo la nozione della identità negli enti ideali, che appunto si astraggono da ogni considerazione di spazio. Onde sebbene due fatti debbano sempre diversificare nelle circostanze materiali; pure quando si guardano nel loro rapporto ideale* con la legge, i delitti che ne risultano saranno identici nella loro condizione di enti giuridici, purchè non sia tra loro varietà nella qualità, nella quantità, e nel grado.

CAPITOLO V
Criterio della qualità nei delitti.

§. 146. In qualunque scienza la qualità è quella che guida ad ordinare gli oggetti della scienza stessa. Nel giure penale la qualità dei delitti è quella che serve alla loro classazione.
§. 147. Ma nell'ordinale la classazione degli oggetti di una scienza; e così nell'assegnar loro la respettiva qualità; non si può prescindere dal prender di mira un elemento particolare di rapporto fra oggetto ed oggetto. Ora la difficoltà del ben classare dipende dal trovare il più esatto criterio di rapporto, che per lo scopo della scienza sia a prendersi in considerazione a cotesto servigio.
§. 148. Altrimenti operando si istituiscono classi confuse, e si arrecano tenebre ove vorrebbe portarsi la luce. Chi classasse, a modo di esempio, i corpi secondo il colore, si troverebbe a porre l'oro e l'olio, il sangue ed il vino, nella medesima classe. Errore grossolano.
§. 149. Dunque non tutti gli attributi di un ente sono accettabili come criterio della sua qualità: ma quelli soli che ne costituiscono l'essenza speciale. Tutta l'arte del ben classare consiste nel distinguere gli accidenti dalla sostanza.
§. 150. Ma l'essenza del delitto (intendendo sempre sotto questo vocabolo il delitto vero e proprio, ben diverso dalle trasgressioni (1) di polizia) sta nella violazione di un diritto protetto dalla legge penale. Dunque il più retto criterio per ben definire la qualità dei delitti, ed esattamente classarli, è quello desunto dalla diversità del diritto leso. (2).

(1) Le trasgressioni; cioè le violazioni delle leggi che proteggono la prosperità, non il diritto; e che hanno il loro fondamento nel solo principio dell'utilità; si classano secondo il diverso bene che vuoisi procurare coli'interdire quei fatti che costituiscono le trasgressioni medesime. Non potrebbero classarsi sulla norma del danno, o del diritto violato; perchè in loro non vi è nè danno, nè violazione di diritto. Almeno per essenza loro non lo esigono. Non sarebbe dunque possibile nella classazione delle trasgressioni applicare il criterio col quale si classano da noi i delitti. Non potrebbe ricorrersi al dolo, perchè non vi è come elemento necessario. Non potrebbe ricorrersi alla spinta; nè (sfruttando il pensiero che l'ottimo sig. Ellero esternò circa la classazione adottabile nelle leggi puramente preventive) potrìano classarsi secondo la passione movente; per la solita ragione, che nelle trasgressioni non sempre ricorre una passione che muova il trasgressore. Laonde è propriamente necessario ed inevitabile nei regolamenti di polizia, desumere la classazione delle contravvenzioni dal diverso bene proletto con le proibizioni di certi atti; anche moralmente innocenti, e che non recano attuale violazione o pericolo al diritto. E questo è il metodo generalmente osservato in coteste materie.

(2) La considerazione del diritto leso portò Lucas ad un risultato diverso dal nostro. Egli divise i delitti in tre grandi classi
- delitti contro le persone
- delitti contro le proprietà
- delitti misti.
Questa classazione può servire per uno studio statistico; non per la teoria penale, nè per un codice. Inoltre essa non lascia sede pei delitti politici. Del che per altro non si turbò Lucas, che aveva negato recisamente cotesla classe. Inadeguate per la scienza sono del pari le classazioni che si desumano dall'azione, o dalla pena: inaccettabili quelle che si volessero desumere dal dolo, o dalla spinta criminosa. Vedasi Carmignani teoria della sicurezza sociale vol. 2 cap. 6.

§. 151. E sebbene il diritto non si leda che con l'atto fisico, pure la formula da noi usata - varietà del diritto leso - non è identica all'altra - varietà dell'atto fisico -, perchè due atti fisici simili possono esser diretti da ciascuno degli agenti a violare due diversi diritti: e per l'influenza dell'elemento intenzionale sulla essenza del delitto, può, malgrado l'identità di atti fisici, nascerne diversità di delitti, a cagione della diversità dell'intenzione dell'agente, che l'atto fisico indirizzava a ledere un diritto piuttostochè un altro.
§. 152. Questa avvertenza risale al gagliardo principio che il delitto agli occhi della scienza non è un ente materiale, ma un ente giuridico: laonde il suo oggetto non è la cosa o l'uomo, ma il precetto violato. Cosicchè variando il diritto attaccato varia il precetto protettore del medesimo: e varia l'ente ideale che si chiama delitto. Così l'identico fatto p. e. dell'atterramento di un albero, con l'identico risultato dello atterramento, può costituire ora il titolo del danno dato con ingiuria; ora del furto; ora della ragion fattasi; ora del turbato possesso; secondo il diverso fine dell'agente.
§. 153. Così viene a chiarirsi che l'oggetto del delitto si deve (se vuolsi usare un linguaggio che esattamente risponda ai bisogni scientifici e pratici) ravvisare nella legge violata; e desumerlo dal fine dell'agente. E questa è la ragione per cui atti materiali perfettamente simili, dei quali uno abbia usato per violare un diritto, altri per violarne altro, fanno nascere due delitti essenzialmente diversi.
§. 154. Ora, tornando a ciò che dicemmo in proposito del danno immediato, si trova che questo può essere o pubblico ossia universale, o privato ossia particolare; secondochè il maletìzio viola un diritto particolare, o un diritto universale. Di qui la prima divisione dei delitti in offese contro la sicurezza pubblica, e offese contro la sicurezza privata.
§. 155. Ma l'offesa alla sicurezza pubblica può estrinsecarsi con un attacco alla società nell'autorità che la rappresenta; e con un attacco alla società nei membri che la compongono.
§. 156. Le offese alla pubblica sicuiezza nel primo caso assumono il nome di delitti politici proprii, o diretti; perchè il danno immediato risultante dall'attacco contro la persona morale (società) non ferisce se non consequenzialmente gli individui che la compongono, in qualunque dei loro diritti particolari: ma li ferisce tutti nel diritto che tutti e ciascuno di loro hanno a veder rispettato l'ordine politico dal quale attendono la loro tutela giuridica. Lesione della città, perchè lesione di un diritto universale, che da tutti i consociati si gode.
§. 157. Le offese alla sicurezza pubblica nel secondo caso si dicono delitti politici improprii, o indirettamente tali. Anche in questi il danno immediato effettivo si sente soltanto da pochi individui, od anche da nissun individuo nel suo particolare. Ma il delitto ferisce tutti i congregati; perchè tutti ne sono offesi, non solo moralmente per il timore di una ripetizione (lo che atterrebbe al danno mediato) ma materialmente per gli effetti del fatto già consumato, che ha violato un diritto a tutti loro spettante.
è effettivo il danno immediato nel rapporto del diritto astratto: nel diritto cioè di vedere rispettata quella cosa a cuìtutti hanno interesse. Può non essere effettivo, ma è sempre potenziale, nel rapporto del toglimento di un bene concreto ai cittadini. Questa potenza la sviluppano simili delitti contro tutti indistintamente i consociati; e perciò si referiscono alla classe dei politici, perchè hanno un danno immediato universale. Ma siccome l'autore di questi non intende ad attaccare la persona morale della società, così si dicono politici indiretti.
§. 158. Tanto nei delitti politici diretti, quanto nei politici indiretti, la massa dei cittadini è offesa nel suo patrimonio politico, non solo in quanto attiene alla mera opinione della sicurezza; ma veramente anche in ciò che costituisce la sicurezza.
§. 159. I delitti contro, la giustizia, contro la religione, contro la quiete pubblica, contro la pubblica fede, contro il gius delle genti, contro la pubblica Sanità; spettano a questo secondo membro della prima classe. In tali delitti ricorre il carattere distintivo comune, di non esigere alla loro perfetta consumazione la effettività del danno immediato particolare. Il danno universale trova la sua effettività nella semplice offesa al diritto attaccato, quando questa è perfetta nelle sue speciali condizioni. E la prevalenza del diritto universale o pubblico sul diritto particolare o privato (prevalenza che si sente da ciascuno) porta a cotesta regola, di rendere indifferente alla perfezione di tali delitti che ricorra la effettività o solo la potenzialità del danno immediato; come mostreremo (§. 574) in seguito.
§. 160. Questa divisione dei delitti in due grandi classi, secondochè immediatamente attaccano o i diritti naturali di uno o di alcuni determinati individui: o attaccano invece i diritti sociali, e così i diritti di tutti i consociati; sembra esteriormente la riproduzione della divisione del Carmignani, in delitti politici, e politico-civili: ma il concetto ne è sostanzialmente difforme. Carmignani nel suo pensiero dimentica la personalità di tutti i cittadini, nella personalità dello Stato: e dona a questa personalità ideale una somma di diritti, che considera come tutti suoi proprii. E prendendo di mira la società come ente di per sè stante, trova i delitti politici diretti nella offesa recata a tale persona giuridica, senza guardare il diritto dei consociati alla di lei esistenza. Il diritto secondo questa idea, è nello Stato, come secondo altre idee era nella persona del principe. Poi immaginando quasi dei puntelli a quella persona nelle istituzioni per le quali si rafforza lo Stato, trova nelle offese a tali istituzioni i delitti che chiama politici indiretti. Così gli avvenne che il falso pubblico, e nummario, e le offese alla finanza, e alla salute pubblica, gli rimasero come anomali; e gli avvenne altresì di dover con non molta esattezza, noverar come istituzioni sociali, la quiete pubblica, e il gius delle genti. La nostra divisione invece non si ferma a cercare i diritti nella persona dello Stato. Guardiamo la massa dei consociati. Se il delitto offende tal cosa a cui tutti hanno interesse e diritto comune, diciamo questo un delitto di danno immediato universale, e lo poniamo nella classe dei delitti politici: che preferiamo chiamare sociali, perchè tale comunanza di interesse e di diritti non può nascere che dalla associazione. E se il fatto offende invece una cosa, sulla quale non abbiano diritto gli altri cittadini tranne il soggetto passivo del fatto criminoso, lo diciamo delitto di danno immediato particolare. E poichè cotesti diritti all'individuo li dà la natura, a tali delitti, che sono plesso a poco i delitti politico-civili di Carmignani, diamo il nome di naturali.
§. 161. Delitti naturali, o contro la sicurezza privata, sono dunque quelli nei quali il danno immediato è particolare: vale a dire che il danno tanto effettivo quanto potenziale non colpisce che un numero limitato di individui. L'attacco ad un diritto individuale che nei reati della prima classe può non essere; qui è sempre presupposto. Essi non offendono che i diritti naturali dell'uomo; e l'indole politica l'assumono tutta dal solo danno mediato.
§. 162. Questi si suddividono secondo il diverso bene a cui si riferisce il diritto offeso nell'individuo. Con tale criterio, trovando che i beni possibilmente offendibili dall'azione malvagia si riducono a sei categorie; in sei membri si parte questa seconda classe, secondochè l'azione criminosa ha attaccato nell'uomo che ne fu passivo, o il diiitto alla vita; o all'integrità delle membra; o alla libertà individuale; o all'onore; o agli averi; o alle sue relazioni di famiglia.
§. 163. Ciascuna di quelle classi ammette poi delle suddivisioni dipendenti, o dalla sostanza dell'offesa, o dalla forma e condizioni della sua esecuzione. Dall'una e dall'altra quando trattasi di diritti complessi. Dalla sola forma della sua esecuzione, quando trattasi di diritti semplici (1).

(1) Semplice, a modo di esempio, dicesi il diritto alla vita. Complesso il diritto che suddividesi in altri subalterni diritti. Tale p. e. il diritto di proprietà, che sviluppa lo jus possidendi, utendi, vindicandi ec. ec.

§. 164. La classazione dei delitti non tiene alla mera nomenclatura. Ha un'influenza essenziale: perchè dal collocare un fatto criminoso in una classe piuttosto che in altra, può derivarne che si modifichi la sua quantità, e la sua imputazione; e talvolta persino se ne alterino le condizioni essenziali.
§. 165. Una grave difficoltà nella scienza nostra incontra la classazione dei delitti quando, come spesso avviene, in un unico contesto di azione criminosa si viola più di un diritto.
§. 166. In primo luogo (e questa è regola impreteribile) deve distinguersi se la violazione di più diritti fu operata per servire a diversi fini del colpevole indipendenti l'uno dall'altro; o se il reo non tendeva che ad un solo fine, pel quale violava un diritto; e della violazione dell'altro diritto si valeva come mezzo per giungere a quello.
§. 167. Nel primo caso si considerano le azioni come separate: perchè in verità sono tali, e materialmente, e intellettualmente. E tanti sono i fini, tanti sono i titoli di reato; dei quali ciascuno si misura e si giudica indipendentemente dall'altro. Se il delitto fosse un ente materiale, la concomitanza puramente materiale di luogo e di tempo potrebbe unificare due fatti in un solo delitto. Ma esso è un ente giuridico che consta dell'elemento materiale e dell'elemento ideologico. Perchè si abbia nesso giuridico tra fatto e fatto, bisogna dunque che siavi anche nesso ideologico: cioè connessione di mezzo a fine. Altrimenti il concorso di due atti volitivi indipendenti ne fa due delitti.
§. 168. Nell'altro caso si ha un solo (1) delitto. Ma per conoscere a qual titolo esso pertiene occorre una seconda distinzione. O nella violazione del diritto, della quale si valse come mezzo il colpevole, non si configurerebbe un titolo di reato di per sò stante; o anche questa violazione costituirebbe, se fosse sola, un titolo speciale di malefizio. -

(1) Dissente Tissot (I, 82) affermando che si hanno sempre due delitti malgrado l'unico fine. Ma se si guardassero come due delitti quando l'atto volitivo è uno, s'imputerebbe due volte l'istessa determinazione. L'elemento intenzionale imputato in un delitto, tornerebbe ad imputarsi nel secondo delitto. è l'istessa ragione su cui si fonda la teoria del delitto continuato (§. 517). Si ha una determinazione volitiva complessa; nascerà un delitto complesso (§. 50): ma è un delitto solo. Chi determinossi a rubare mediante scasso è reo di una sola determinazione criminosa. Chi determinossi a rubare e stuprare è reo di due determinazioni. è questa la dottrina dei delitti pedissequi, che il Mori nella sua teorica del codice penale anatomizzò con grande acrimonia, dimenticando che nel suo codice penale egli stesso (tratto dalla prepotenza del vero) avea dovuto attuarla: p. e. nel furto con violenza, e con scasso: nelle lesioni per commettere stupro, e altri simili. Quando si vuole rovesciare una dottrina consacrata dalla sapienza dei secoli, bisognerebbe almeno esser coerenti a se stessi.

§. 169. Nel primo caso il reato che sorge per la violazione del diritto, alla quale l'agente tendeva come fine, non cambia classe. Rimane sempre l'istesso titolo: e l'averla ottenuta mercè la violazione di altro diritto costituisce una qualità, aggravante, che può talvolta variar nome al reato principale, ma non ne altera la classe.
§. 170. Nel secondo caso sorge una terza distinzione. - O il diritto violato come mezzo era meno importante del diritto alla cui lesione come fine tendeva l'agente; od anche era di uguale importanza; ed allora il reato che servì di mezzo si tiene come pedissequo e famulativo all'altro; ne aggrava la imputazione; può anche mutarne il nome; ma si compenetra con quello senza mutarlo di classe.- O invece il reato che servì di mezzo era più grave di quello che l'agente si propoli a come fine; ed allora il fatto esce dalla classe del delitto fine, per far passaggio nella classe a cui spetta l'infrazione servita di mezzo: e talvolta serba il nome che gli dava la violazione usata come mezzo; p. e. incendio a fine di furto: talvolta muta anche nome: così l'omicidio a fine di furto dicesi latrocinio. E il fine allora che modifica l'imputazione del mezzo, non è il mezzo che qualifichi il fine.

CAPITOLO VI
Criterio della quantità nel delitto.

§. 171. Rinegato il sofisma draconiano che affermava l'uguaglianza di tutti i delitti, è concorde oggidì la dottrina che i diversi reati presentino diversa quantità politica; cosicchè debba ai singoli reati adattarsi una diversa misura di imputazione.
§. 172. Ma se ciò fece sentire a tutti i criminalisti il bisogno di trovare la formula, secondo la quale misurar si dovesse la quantità dei malefizi; essi non furono per altro concordi nel definire il criterio più retto di cotesta gravità relativa.
§. 173. Tre sono i principali sistemi oggidì prevalenti nelle diverse scuole. Quello di Beccaria, svolto dal Carmignani, che desume dal danno sociale la quantità dei delitti. Quello ideato da Romagnosi, che la desume dalla spinta criminosa. Quello propugnato dal Rossi, che vuole rintracciarlo nella importanza del dovere violato. Noi seguitiamo il primo sistema, ritenendo non accettabili gli altri due.
§. 174. Non è accettabile il sistema iniziato da Romagnosi: perchè in primo luogo esso presenta il vizio di desumere la misura del fatto, non dalle condizioni intrinseche al fatto stesso, ma dalla sua causa, che è tutta fuori del delitto che vuole misurarsi.
§. 175. Infatti la spinta criminosa si risconti a da Romagnosi nel concorso di questi tre impulsi che hanno determinato l'uomo a delinquere
- 1.° utile sperato dal delitto
- 2.° facilità di commetterlo
- 3.° speranza di impunità.
§. 176. E secondo lui dovendo nella pena ravvisarsi soltanto un riparo al pericolo del delitto; ed ogni forza repellente dovendo per buona diriamica proporzionarsi alla forza impellente; quanto più in un determinato fatto furono energici quei tre impulsi a delinquere, che costituiscono la spinta, tanto più deve essere energica la controspinta; cioè l'imputazione che le contrappone l'autorità sociale.
§. 177. Ma cotesto argomento, oltre al vizio radicale che testè accennammo, di misurare la gravità di un fatto da un elemento estrinseco al fatto stesso, non corre poi rispetto alla considerazione del tornaconto sociale.
§. 178. L'autorità sociale, nell'esercizio del magistero punitivo, non può procedere secondo l'accidentalità delle cagioni di un fatto, ma secondo il rapporto tra il male del delitto e il male della repressione. Ciò emerge per logica necessità dal principio che l'autorità non è armata della giustizia penale, se non pel mantenimento dell'ordine. Onde, ove il male del reprimere soverchi il male del delitto, la repressione conduce ad un novello disordine, anzichè ristabilire l'equilibrio rotto dal primo turbamento (1).

(1) L'autorità sociale deve tener dietro alla causa dei delitti quando, aggirandosi nell'ufficio del buon governo, studia i modi di prevenire direttamente i crimini futuri, antivenendo loro con ispengerne le cagioni. Su ciò possono vedersi Sonnenfels Scienza del buon governo - Den Tex de causis criminum; ed altri molli che se ne sono maturamente occupati.

§. 179. Nè il principio della giustizia assoluta, alla quale è subordinato il magistero penale, comporta che per regola assoluta, si accresca all'uomo la sua responsabilità non per un aumento del male che ha recato, o disegnato recare, ma per l'accidentalità di certe cagioni; e così per un calcolo della piobabilità maggiore o minore del rinnovarsi del delitto (1).

(1) Tanto è lunge che la facilità di delinquere aumenti la gravità politica del delitto, quanto è certo invece
- 1.° - che gli ostacoli superati per delinquere mostrano maggior tenacità di pravo volere, e così rivelano nel delitto una maggior forza morale soggettiva
- 2.° - che la facile occasione di delinquere si vuole da insigni criminalisti sia invece una scusa, minorante l'imputazione. V. Puttmann Opuscula criminalia: opusc. 4 an et quando occasio delinquendo mìnuat imputalionem.

§. 180. La teoria della spinta non può aver dunque apparenza di giustizia, se non appo coloro che, tenaci al solo principio della difesa, l'idea della giustizia assoluta vorrebbero tolta affatto dal magistero penale, riducendone la legittimità ad una giustizia tutta fattizia, che libra la sua lance sul solo pernio della politica utilità.
§. 181. Ma inoltre il sistema della spinta criminosa portato alle sue pratiche applicazioni (e specialmente se si assume qual norma primaria per confrontare tra loro delitti di titolo diverso) conduce ad esorbitanti conseguenze; elevando al massimo grado certe delinquenze che il consenso di tutti i popoli riguardò sempre come di minore importanza. E avverso le quali spiegando i più energici mezzi di repressione, si corre rischio di cagionare maggior nocumento colla difesa, che non se ne tema dall'offesa. Facile Infatti egli è a dimostrare che, a modo di esemdio, il fuito dovrebbe nella scala dei delitti rappresentare una gravità maggiore dell'omicidio, se la relativa gravità dovesse calcolarsi sui criterii dell'utile sperato, della sperata impunità, e della facilità di commetterlo. Oltre a ciò confrontando ancora i diversi fatti che pertengano al medesimo titolo sulla norma delle diverse cagioni, si viene a delle conseguenze che repugnano al senso morale di ognuno, ed alla pratica universale. Colui che ha rubato per salvarsi dal carcere imminente di cui lo minacciano i creditori (idea spaventosa che ruinò troppo spesso anche al suicidio) ha senza dubbio una spinta maggiore di chi rubi per procacciarsi il denaro, onde fare un viaggio di piacere. Imputerassi dunque più quello di questo? Si imputerà più l'uccisione di un inviso rivale, che l'uccisione di uno sconosciuto consumata per lieve cagione, senza profitto nessuno ? Il criterio della spinta, che non risponde al tornaconto sociale, non risponde nemmeno alle gradazioni della moralità dell'azione; perchè urta in un sentimento incancellabile nel cuore dell'uomo: pel quale si commisera più facilmente un delitto, quanto più potenti ed energiche sono state le cause che hanno traviato il colpevole. Ogni regola perchè sia giusta bisogna che torni vera tanto in senso affermativo, quanto in senso negativo. Così se la quantità del delitto dovesse aumentarsi per l'aumento della spinta; dovrìa non solo aumentare sempre dove la spinta si accresce: ma dovrebbe decrescere dove decresce: e così divenir minima dove la spinta fu piccolissima. In un omicidio barbaro commesso di pieno giorno, e in luogo popoloso, non vi fu nessuna speranza di impunità, nessun utile nel commetterlo: dunque infimo grado di spinta nei suoi principali elementi. Ad evitare queste assurde conseguenze si volle intrudere nella formula la considerazione dell'audacia: ma per l'inseparabile opposizione che sta fia l'audacia da un lato, e la facilità di eseguire un delitto e il calcolo della sua impunità dall'altro lato; è evidente che l'elemento dell'audacia non svolge la dottrina di Romagnosi, ma la varia e la distrugge in radice.
§. 182. Il sistema di Rossi ha un doppio difetto. Il primo sta nel confondere l'ufficio del criminalista con quello del moralista. Il secondo sta nello indefinito; a cui sempre conduce la formula da lui suggerita.
§. 183. Confonde l'ufficio del moralista con quello del criminalista. Infatti se il Rossi ci chiamasse a calcolare l'importanza politica del dovere, la sua formula si unificherebbe con quella del danno sociale; mentre l'importanza civile del dovere non ha altra norma che l'impoitanza del diritto corrispondente. Ma il Rossi distinguendo, nel suo prospetto dei tre mali del delitto, l'importanza del diritto offeso dall'importanza del dovere violato, per farne due distinti criterii della quantità; evidentemente richiama il criminalista a porre sulla bilancia il dovere morale come elemento di gravità politica. Ma il giure penale non avendo altra base di legittimità che la tutela giuridica, non può convertirsi in uno strumento della santificazione dell'anima. Non si punisce la violazione del dovere morale, ma la offesa del diritto. E vi è differenza fra l'uno e l'altro: - 1.° perchè non ad ogni dovere corrisponde un diritto esigibile - 2.° perchè non sempre alla maggiore santità del dovere corrisponde altrettanta importanza pel mantenimento del diritto. Il male morale del delitto, che vorrebbe porre in calcolo il Rossi, non turba l'ordine esterno, se non in quanto a lui risponda un aumento o di danno immediato, o di danno mediato. Per lo che il terzo elemento, nel quale si stringe tutta la novità di codesta formula, quando non è falso, è inutile.
§. 184. La formula rossiana ha poi il vizio dell'indefinito. Infatti, tenendo che i delitti si debbano misurare secondo la importanza del dovere morale violato; qual sarà la norma per misurare questa importanza del dovere? Il problema si scioglie con un problema, in un argomento ove la scienza deve lasciare il meno possibile alle oscillazioni dell'umano arbitrio.
§. 185. Può esservi un criterio morale costante per dire che certe azioni sono cattive: ma un criterio puramente morale, che sia universale e costante per dire che un'azione è più cattiva di un'altra, non vi è.
§. 186. Nè vale il rispondere, come fece Rossi, che il criterio per misurare l'importanza relativa dei diversi doveri è nella sensività morale; e che si rivela mercè la coscienza universale. Imperocchè, anco ammessa nel senso morale della maggiorità degli uomini tale concordia e costanza che valga ad unificare la coscienza universale; rimarrà sempre arcano come possa la coscienza universale rivelarsi con certezza al legislatore. E finchè la misura dei delitti non si determini in un comizio, ne avverrà sempre che il legislatore sostituirà la coscienza propria (figlia delle sue abitudini, del suo stato, delle sue propensità ed affezioni) alla coscienza universale; scambiando quella con questa (1).

(1) Una stringente confutazione del sistema di Rossi trovasi nel Thiercelin - Principes du droit pag. 298, 299. E nel Tissot - Le droit penal etudiè dans ses principes vol. I pag. 106; ove riferisce gli energici argomenti del sig. Rotteck contro la fatale tendenza di subordinare la giustizia punitrice ai principi della morale, che in lei può essere soltanto principio negativo.

§. 187. Il criterio accettabile come misura della quantità dei delitti non può esser dunque che quello del danno: formula che risale a Platone: formula esatta, e formula razionale.
§. 188. Formula esatta, meglio di qualunque altra. Perchè il danno non procede da elementi astratti o puramente intellettuali, sui quali si aprano nel sentire degli uomini divergenze, e contradizioni: il danno si esprime con una materialità positiva, in faccia alla quale lo speculativo dileguasi. E questa, almeno entro certi limiti, costringe l'umano sentire ad una concordia, che repelle l'arbitrio.
§. 189. La gravità del danno immediato si ragiona, secondo Carmignani, sui tre dati positivi
- 1.° della maggiore o minore importanza del bene tolto col delitto
- 2.° della maggiore o minore reparabilità del male
- 3.° della sua maggiore o minore diffondibilità.
§. 190. Formula razionale. Infatti la legge di natura non ha dato all'uomo autorità sull'altr'uomo, soltanto perchè giustizia si compia in tutti i suoi dettati; nè perchè il malvagio espii la propria malvagità; nè perchè l'uomo sia vendicato; nè perchè sia corretto. L'esercizio della giustizia è delegato all'uomo sull'uomo per una necessità di natura, onde abbia forza la legge dell'ordine mercè una sanzione pronta e sensibile; e sia difesa l'umanità dai mali di cui sarebbe vittima se le malvagie azioni rimanessero senza freno.
§. 191. Se dunque la difesa della umanità è quella non già che crea la ragion di giustizia, ma che legittima l'esercizio della giustizia nel braccio umano, facile è vedere che l'energia della repressione, o sia della difesa, deve essere in rapporto ai mali recati dalle offese. E che per conseguenza la gravità relativa di queste deve misurarsi sulla gravità relativa di quelli.
§. 192. Ma la formula generica del danno sociale richiama nella sua applicazione a considerare, oltre il danno immediato, ancora il medialo. Così in questa formula si tiene conto tanto dell'offesa alla sicurezza, quanto dell'offesa all'opinione della sicurezza. La considerazione del danno mediato non potrebbe assumersi come norma unica o prevalente della misura dei delitti, perchè l'aumento possibile di danno mediato, per le accidentali forme assunte dalla esecuzione del delitto, può ripetersi a ciascun fatto, ma con influenza diversa. Laonde può funzionare come criterio accessorio o subalterno, ma non come principale archetipo della quantità.
§. 193. La quantità relativa dei delitti diversi deve misurarsi dunque sul danno immediato; cioè sulla forza fisica oggettiva del delitto stesso.
§. 194. A danno immediato uguale, la quantità relativa dei delitti si modifica sulla norma del danno mediato; cioè sulla forza morale oggettiva del delitto; la quale, come abbiamo veduto (§. 121) è il risultato della forza fisica del delitto, e della sua forza morale soggettiva.
§. 195. A cose ordinarie il danno mediato sarà proporzionale all'immediato; perchè tanto più si teme la perdita di un bene, quanto più è importante il bene minacciato. Ma le circostanze dalle quali è accompagnato un delitto possono essere cagione d'aumento di danno mediato, anche senza modificazione dell'immediato.
§. 196. La considerazione del danno mediato viene così ad attribuire sulla quantità del delitto la debita influenza anche all'elemento del dolo, senza dare a questo elemento una potenza assoluta, che confonderebbe la nozione del peccato con quella del delitto. Laonde fu insulsa l'accusa, che si diede alla formula del danno, di dimenticare la moralità dell'azione.
§. 197. Il dolo considerato in sè stesso, come mero fatto interno, non potrebbe influire sulla quantità politica del delitto; perchè l'autorità sociale non esercita col magistero punitivo un sindacato della moralità interna, ma quello soltanto della moralità esterna.
§. 198. Può dunque tenersi conto del dolo nella misura dei delitti solo in quanto il dolo influisca sulla moralità esterna dell'atto. E la moralità esterna di un atto criminoso si modifica appunto per l'aumento o decremento del danno mediato; o sia per il crollo maggiore o minore, che il fatto criminoso ha dato all'opinione della propria sicurezza nell'animo dei cittadini.
§. 199. Una infrazione dei diritti altrui non aumenta di gravità perchè sia commessa con maggior freddezza, e con maggiore malizia, se non in quanto quella maggiore malvagità del proposito genera maggiore spavento nei cittadini, e così aumenta il danno mediato.
§. 200. Se il dolo o la malizia aumentassero in un dato fatto senza niente influire sul danno riflesso, sarebbe un errore desumerne una aggravante al delitto stesso; perchè alla modificazione interna non rispondendo una modificazione esterna, l'autorità sociale col prenderla in considerazione eccederebbe i limiti del suo potere.
§. 201. Anche la valutazione del danno mediato ha un criterio che procede da dati positivi. Gli elementi che fra due delitti di danno immediato uguale, ne accrescono la gratta relativa in ragione del maggior danno mediato, sono
- 1.° la violazione di più diritti, avvenuta per l'atto criminoso, malgrado l'identità di risultato materiale
- 2.° la minorata potenza della difesa privata.
§. 202. è chiaro che in due delitti di risultati materialmente uguali, lo spavento dei buoni sarà tanto maggiore quanto più saranno i diritti che il delinquente manomise per giungere a quel risultato (1); e quanto più le condizioni del fatto daranno ragione di sentire che le cautele del privato erano impotenti a ripararsene.

(1) Non sempre alla violazione di più diritti corrisponde un risultato materiale più grave: e in questi casi la ragione dell'aumento di quantità conviene cercarla piuttosto nell'aumento di danno mediato. Quando un furto è commesso con scasso si ha anche un aumento di danno nel risultato della porta infranta: ma questo criterio sarebbe meschino se sotto il solo rapporto della sua materialità si prendesse a considerare. L'aumento vistoso della quantità del furto per codesta circostanza non discende dal danno materiale dell'uscio guastato; ma dalla violazione del domicilio, e dalla minorata potenza della difesa privata. Nel furto proprio posto a confronto col furto improprio la diversa quantità non discende dal danno materiale che può elevarsi all'identica cifra; ma dall'essere in quello violato il diritto sì di dominio che di possesso, e in questo il solo diritto di dominio; e nella maggiore potenza che ha la cautela del proprietario di difendere le cose sue da questo anzichè da quello. Si ripetano quante volte si vuole le applicazioni, si troverà sempre che il variare del danno mediato malgrado l'identità dell'immediato, corrisponde ai due criteri da me stabiliti.

§. 203. In questa seconda considerazione unicamente risiede il principio che dà al grado del dolo un'influenza sulla gravità politica del malefizio; e la ragione di tenere come più grave il delitto commesso con dolo di proposito. Questo infatti genera maggiore spavento, precisamente perchè è più difficile alla diligenza del privato difendersi da un malvagio che preparò e maturò i proprii disegni. Non è la maggior bruttura morale; è il maggior pericolo sociale, che rende politicamente, più imputabile il dolo di proposito.
§. 204. è questa la ragione per cui si rende influente sulla gravità relativa dei delitti anche la considerazione delle diverse cause impellenti al delitto; e dei diversi mezzi adoperati per consumarlo.
§. 205. A quei due elementi si riduce tutta la teorica delle circostanze aggravanti, o qualifiche nei delitti speciali.
§. 206. Anzi l'influenza del danno mediato nel calcolo della quantità dei delitti è tale, che spesso modifica le proporzioni desunte dal danno immediato. Onde avviene che un delitto il quale rappresenta un danno materiale minore dell'altro, e che a condizioni ordinarie ha una minore gravità; può per le circostanze dalle quali in una specie è accompagnato, offrire tale eccedenza di danno mediato, da soverchiare la quantità politica dell'altro, rimasto nelle condizioni ordinarie.

CAPITOLO VII
Criterio del grado nel delitto.

§. 207. Dal sin qui detto rilevasi che la quantità del delitto si misura dal combinato criterio della forza fisica e della forza morale del delitto, guardate queste due forze, nei loro risultati del danno immediato, e del danno mediato. Il grado nel delitto si desume dal criterio della forza fisica e della forza morale del delitto, guardate in principal modo nei loro elementi. Nell'indagine sulla quantità si studia il fatto astrattamente guardato nella sua specie. Nella ricerca sul grado si esamina un fatto nelle eccezionali accidentalità del suo concreto modo di essere. Con questo metodo si riuniscono in una sola trattazione e le cause di scusa, e le cause di non imputabilità, perchè sebbene nei loro risultati distinte, pure tengono a principj o identici o analoghi; dei quali per tal guisa si semplicizza lo studio.
§. 208. Quando l'elemento morale del delitto (che trovammo nel concorso dell'intelletto e della volontà) in un fatto speciale si riscontri minore dell'ordinario; o perchè deficiente o meno attivo fu l'intelletto dell'agente; o perchè deficiente o meno spontanea la sua volontà: avremo una degradazione del delitto nella sua forza morale.
§. 209. Quando l'elemento fisico, consistente negli atti esecutivi del delitto, si troverà in un fatto speciale minore dell'ordinario, o perchè i momenti fisici dell'azione rimasero in parte deficienti, o impotenti all'effetto voluto; o perchè non sono tutti attribuibili ad un solo individuo; avremo una degradazione del delitto nella sua forza fisica:
§. 210. Queste generali nozioni vengono a chiarirsi mercè la loro applicazione. Solo deve avvertirsi come regola generale, comune a tutte le circostanze o dirimenti o minoranti l'imputazione, che sulla efficacia giuridica delle medesime deve in prevenzione stabilire i suoi precetti la legge: ma della loro ricorrenza nei casi speciali non può conoscere che il magistrato; perchè l'uomo deve esser condannato secondo la verità, non secondo le presunzioni.

CAPITOLO VIII
Del grado del delitto nella sua forza morale.

§. 211. La forza morale soggettiva del delitto si compone di tutti i momenti che costituiscono l'atto interno, procedendo dalla prima percezione di un'idea fino all'ultima determinazione volitiva. Per avere in un delitto la pienezza della sua forza morale bisogna che nei due momenti della percezione e del giudizio sia stato l'agente illuminato dall'intelletto: e che nei due successivi momenti del desiderio, e della determinazione abbia goduto la pienezza della sua libertà. Minorato o mancato il presidio del primo, si minora o cessa l'imputazione; come si minora e cessa se è stato diminuito o tolto l'esercizio della seconda. Di qui la suddivisione del grado sotto il rapporto della forza morale, secondochè esso deriva dallo stato dell'intelletto, o dallo stato, della libertà nell'agente.
Articolo I.
Del grado rapporto all'intelletto dell'agente
.
§. 212. Il concorso dell'intelletto dell'agente può nel fatto essere diminuito o cessato, tanto per cause fisiche, quanto per cause morali.
§. 213. Per cause fisiche, o fisiologiche, quando la deficienza della forza intellettiva proviene da difetto o alterazione nell'organismo corporeo.
Per cause morali, o ideologiche, quando malgrado la perfezione abituale dei sensi e la piena attitudine dell'intelletto, questo in un dato momento mancò a sè stesso, perchè le idee dell'agente intorno ai rapporti, dell'azione deviarono dal retto ordine logico; e da ciò nacque l'infrazione della legge.
I Cause fisiologiche.
§. 214. Le cause fisiologiche che potendo affliggere l'intelletto, si devono prendere in esame per determinare se, e quando, siano influenti sulla imputazione, si riducono alle seguenti
- 1.° l'età
- 2.° il sesso
- 3.° il sonno
- 4.° il sordomutismo
- 5.° la pazzia.
1.° Età,
§. 215. Per conoscere quando e come l'età modifichi l'imputazione in ragione dell'intelletto dell'agente, bisogna combinare i principii della scienza con l'osservazione dei fenomeni dell'umana natura.
I primi ci insegnano che l'uomo non può essere responsabile delle proprie azioni, se non in quanto egli è capace di discernere il bene dal male.
Le seconde ci mostrano che l'intelletto dell'uomo, benchè al primo momento della nascita di lui abbia perfetta la potenza di svilupparsi, pure non giunge se non per gradi all'attualità del suo pieno servigio.
§. 216. Tre divergenze radicali s'incontrano negli scrittori in proposito dell'età considerata come causa minorante l'imputazione. Si disputa infatti
- 1.° se l'età debba assumere cotesto valore per ragioni di politica, o per ragioni di giustizia;
- 2.° se l'età debba referirsi alle minoranti per la relazione che ha coll'intelletto, o per l'influenza che esercita sulla libertà del volere;
- 3.° se debba o no ammettersi un periodo di assoluta irresponsabilità nella vita dell'uomo, che cuopra l'agente da ogni molestia per presunzione juris et de jure (1). E sebbene le due prime questioni appariscano puramente scientifiche, esse refluiscono essenzialmente sulla soluzione della terza, e su tutta l'economia pratica di questa escusante. Se la prima si scioglie nel senso del principio politico, la terza si deve risolvere affermativamente: negativamente si deve sciogliere, se si considera l'età rimpetto alla pura giustizia. Se nella seconda si fa prevalere il concetto di un riguardo all'impeto giovanile che rende più irreflessiva la volontà, avremo nell'età una causa di minorazione soltanto: se si scorge nell'età una causa che rende insufficiente l'intelletto, potrà ravvisarsi in lei più volentieri una dirimente. La terza questione è poi tutta vitale nella pratica applicazione.

(1) I sostenitori delle diverse opinioni e i loro argomenti si enumerano dall'Ellemeet de minore aetate.

§. 217. La divergenza sulla terza questione non si limita all'accademia, ma si estrinseca nelle varie legislazioni moderne. Ammesso che nella vita umana debba esservi un periodo di irresponsabilità assoluta per presunzione di legge, l'autore del fatto che versi in siffatto periodo, non può essere tradotto in giudizio, per quanta precocità di malizia egli dimostri. E questo è il principio a cui si ispirano parecchi codici contemporanei (1). Reietto al contrario io cotesto periodo, l'autore del fatto, per quanto costituito in età giovanissima, deve essere inquisito, e sottoposto ad una repressione quando risulti capace di dolo.

(1) Più tenaci per la tutela giuridica il Codice Francese (art. 66) e il Codice sardo (art. 88) non riconoscono stadio d'irresponsabilità assoluta. Anche nel primo periodo della vita, che il Codice francese chiude ai 16 anni, e il sardo a 14, ammettono la possibile capacità del dolo. E indistintamente, sottopongono l'autore del fatto a criminale procedura, ed anche a condanna, purchè il giudice nella coscienza sua dichiari che agì con discernimento. Il Codice prussiano del 1 luglio 1851 conserva la disposizione francese. Queste leggi non ammettono questione di discernimento per l'agente che abbia varcato il sedicesimo e respettivamente il quattordicesimo anno. AI contrario le leggi inglesi, il Codice bavaro, ticinese, napoletano, belga, badese, spagnuolo, toscano, portoghese ed altri, fermano uno stadio più o meno esleso di assoluta irresponsabilità. Il sistema francese fu acremente censurato da Haus observations sur le projet de revision da code penal vol. 4 pag. 243, 244; e con tale solidità di argomenti, da non lasciare dubbiezza. L'idea di tradurre in giustizia, e sottoporre alle indagini sul discernimento, un infante nel quale il discernimento è impossibile, espone la pubblica giustizia al pericolo che un giudice zelante trovi il discernimento in un bambino di due anni; è un anacronismo in questi tempi di lumi e di civiltà. Anche Rossi aveva inveito contro siffatto scandalo. Quando in Francia si discusse la legge del 28 aprile 1832 per riformare il còdice penale, fu proposto alla Camera dei Pari di fare il giudizio contro i minori di 7 anni a porte chiuse, e senza la presenza dell'accusato; ecco la giustizia che si vergogna dei suoi atti. L'articolo rimase qual era; e tale qual è fu riprodotto nel codice sardo.

§. 218. In questo conflitto noi pensiamo più esatto doversi referire l'età alle cause che dipendono dall'intelletto. Ed esponiamo la dottrina che ha prevalso in Toscana. Secondo la quale l'età per gli effetti penali dividesi in quattro stadj. I veri rapporti delle cose sono alla intelligenza del bambino circondati da una nebbia, che non si dirada se non lentamente col progredire negli anni, e mercè l'aiuto dell'istruzione, e dell'esperienza. E secondo questo progresso della luce intellettuale nell'uomo, nascere e progredir deve la imputazione dei suoi atti. Laonde i varj stadi non possono scientificamente esprimersi con un criterio numerico, o con denominazioni desunte da una materialità; ma con un criterio tutto giuridico.
E perciò direi - 1.° stadio d'irresponsabilità assoluta - 2.° stadio di responsabilità condizionale, e meno piena - 3.° stadio di responsabilità piena - 4.° stadio di responsabilità modificabile nei resultati.
Possono essere assoluti i principe che delimitano questi quattro periodi; ma non possono essere che relative le concrete misure della delimitazione. Ed è perciò che questa teoria non si può condurre all'ultima formula della sua pratica espressione, senza referirsi ad un qualche diritto costituito.
§. 219. - 1.° Stadio - Infanzia (dalla nascita ai 7 anni) e impubertà prossima all'infanzia (dai 7 anni ai 12 (1)) - In ambedue i periodi di questo primo stadio, nessuna imputabilità in faccia alla legge civile. Presunzione juris et de jure che non ricorra nell'agente discernimento sufficiente per1 incorrere le censure della giustizia.
(1) Anco le legislazioni che ammettono l'irresponsabilità assoluta in un periodo della vita umana, discordano poi nel determinare il punto in cui deve cessare questo stadio. Le leggi inglesi lo limitano a 7 anni. Il Codice bavaro a 8 anni. Il Codice napoletano, il Codice belga e il Codice spagnuolo lo estendono a 9 anni. Il Codice ticinese, e il nuovo progetto del Codice portoghese lo spingono fino a tu anni. Il Codice badese (§. 78), e il Codice toscano del 1833 (soli per quanto io mi sappia) protraggono lo stadio d'irresponsabilità fino a 12 anni. Così in Toscana i giovinetti godono di un'impunità maggiore che in tutto il resto di Europa. Potrebbe pensarsi che queste diversità tenessero alla considerazione dei climi e dei metodi di educazione dei diversi paesi. Ma ciò non corrisponde alle osservazioni del fatto. La divergenza è dipesa dall'accordare più o meno importanza al pensiero che la pena applicata a giovanetti non risponda al suo fine politico. Ma il Codice toscano mostrossi poi, non so con quale coerenza, più severo del badese, quanto alla ricerca del discernimento.
§. 220. Quando un uomo in questo stadio mostri una precoce malvagità, e uno straordinario sviluppo di mente, alle infrazioni che egli commetta provvede l'autorità di buon governo.
§. 221. - 2.° Stadio - Impubertà prossima alla minorità (dagli anni 12 ai 14) e minorennità (dai 14 ai 18 compiti) - Presunzione juris tantum di capacità a delinquere. Perciò in questo stadio l'uomo è chiamato a render conto delle sue azioni. Ma spetta al giudice ad esaminare se egli agi o no con sufficiente discernimento. Ove non trovi discernimento deve assolvere. Ove trovi che agì con discernimento deve imputarlo; ma con un grado minore di quello stabilito dalla legge pel maggiorenne.
§. 222. La ricerca sul discernimento dell'agente deve essere ammissibile in tutti i periodi, che si racchiudono in questo secondo stadio. Soltanto nel primo periodo (impubertà prossima alla minoretà) deve essere tale questione obbligatoria pel giudice: nel secondo periodo (minoretà) può lasciarsi facoltativa (1).

(1) Puccioni commentario al Codice penale toscano art. 37 e 38. è singolare la coincidenza, che mentre il Codice spagnolo del 1848 limita la ricerca sul discernimento ai 15 anni (art. 8), Valdeson (Theorie du code espagnol pag. 69) commentandolo, vorrebbe che la facoltà di dichiarare la mancanza di discernimento si estendesse fino ai 21 anni.

§. 223. La ragione per cui in questo stadio si ammette la ricerca sul discernimento nasce dalla osservazione, che in qualche individuo, o per difetto di istruzione, o per tardività naturale, lo sviluppo della facoltà intellettiva si fa più lentamente. E non può per una mera presunzione d'intelligenza accomodarsi una imputazione dove l'intelligenza realmente si trova imperfetta.
§. 224. La ragione per cui in questo stadio si diminuisce sempre l'imputazione, si è questa: che sebbene il minore abbia capacità bastevole di mente per essere responsabile dei suoi atti, pure la sua mente non è ancora assodata; e a lui manca l'esperienza per bene usare del lume della ragione, e contrapporre i consigli di questa ai vivaci suggerimenti delle passioni.
§. 225. La scusa della minore età procede sempre con più energìa nei delitti causati dall'impeto degli affetti, perchè sulla giovinezza, per la connaturale sua precipitanza ad agire, esercitano le passioni veementi una coazione psicologica più potente.
§. 226. - 3.° Stadio - Maggiore età - dai 18 anni compiti in poi - Questo è lo stadio in cui si applica il grado ordinario della imputazione secondo le condizioni speciali del fatto. L'intelletto a questo stadio ha raggiunto la sua maturità: e se altre circostanze non lo soccorrono di qualche causa minorante l'imputazione, l'agente che trovasi in tale stadio non può sperarne alcuna dagli anni.
§. 227. La ragione per cui, mentre l'età maggiore per gli effetti civili incomincia generalmente dopo i 21, ed anche in certi luoghi dopo i 25 anni, si vuole stabilire dopo i 18 per gli effetti penali; è intuitiva. Al fine di comprendere tutta l'importanza del proprio dovere in faccia alle leggi penali occorre minore capacità, minore esperienza e maturità di consiglio, che. non occorra a bene amministrare le cose proprie, ed a difendersi dall'altrui callidità nelle contrattazioni.
§. 228. - 4.° Stadio - Vecchiezza - Il periodo della vecchiezza, e della decrepitezza, variamente determinate dai fisiologi nella vita umana, parve ad alcuni criminalisti dover fornire una minorante. Ma questo è un equivoco.
§. 229. La vecchiezza può esser causa di diminuire là pena, come altrove osserveremo: ma ciò è ben differente. E un'inesattezza pur troppo frequente di confondere le minoranti l'imputazione con le diminuenti la pena. La identità dell'effetto sensibile portò molti a farne un fascio, con grave pregiudizio della chiarezza scientifica, ed anche con pericolo di equivoci nella pratica applicazione. Non si deserti l'analisi; e ogni ricerca ha il suo luogo. Qui si studiano le cagioni di ravvisare minore imputabilità nell'autore di un fatto criminoso. Non si cerca nè la quantità del delitto in astratto, nè le convenienze o giuridiche o politiche di applicare al fatto una più o meno grave penalità.
§. 230. La vecchiezza può condurre l'uomo all'imbecillità; e dirò ancora che ove si prolunghi, ella vi conduce per processo ordinario. Ma in questo caso la minorante starà nella demenza, e non negli anni.
§. 231. Ma l'età senile per sè stessa non può minorare la responsabilità delle azioni che il vecchio commetta; mentre invece la società ha diritto di esigere da lui, per la sua esperienza e pel raffreddamento delle passioni, maggiore ossequio alla legge: e gli anni che non gli tolsero la cognizione del bene e del male, gli impongono forse doveri maggiori. Anzi sotto il rapporto del danno mediato, il delitto del vecchio presenta nella sua forza morale una intensità maggiore, che quello del giovine. Il senso morale proclama questa -verità alla mente di tutti. -.
§. 232. La teoria dell'età agli effetti penali conduce nella sua attuazione pratica a tre ricerche ulteriori circa la prova.
E sono
- 1.° Come si provi l'età
- 2.° Chi debba provarla
- 3.° In quale stadio di giudizio se ne possa conoscere.
2.° Sesso.
§. 233. Penso non doversi ravvisare nel sesso femminile una minorante dell'imputazione. Causa di modificare la pena il sesso può esserlo, per riguardi alla sensibilità del reo, o alla pubblica decenza: ma di ciò altrove. Causa di sottoporre la donna ad una imputazione minore non vi è.
Si obietta
- 1.° L'intelligenza è minore nella donna che nell'uomo, e si vuol provare questa più limitata intelligenza, argomentando dalle leggi civili e politiche - Rispondesi, che quando fosse vero codesto supposto, non concluderebbe allo scopo. L'intelligenza della donna è lucida ed ordinata quanto basta per tenerla capace di comprendere il debito che le corre, così in faccia alla legge religiosa e morale, come in faccia alla legge dello Stato che la protegge: nè potrebbe farsi un codice eccezionale per la metà del genere umano. Nè vale che le leggi civili e politiche diano minori diritti alle donne. Dalle tutele delle leggi civili, e dalle incapacità politiche della donna, non può trarsi argomento in favore del sesso; perchè ad esser capaci di dolo non occorre sapienza politica, nè esperienza amministrativa.
§. 234. Si obietta
- 2.° Che la donna è più gracile di complessione, più debole assai dell'uomo nel suo organismo - Rispondesi: esser questa una buona ragione per esonerare la donna da certe forme di penalità faticose, e soverchiami le sue abitudini e le sue forze corporee: essere in una parola una buona ragione, come a suo luogo vedremo (§. 726), per diminuire la pena: ma non esserlo altrettanto per minorare la imputazione. Niente ha che fare la forza corporea colla moralità dell'azione.
§. 235. Si obietta
- 3.° Che la donna è più volubile per natura, che ha una eccitabilità nervosa maggiore; che è più timida, più modesta dell'uomo; e si è detto perfino da uno scrittore che è più labile di memoria - Ma dalla sua volubilità, eccitabilità nervosa, e sensività maggiore, non può trarsi buon argomento per ravvisare nel delitto da lei commesso una forza morale minore di quella si ravvisi nel delitto del maschio. Tutte le specialità fisiologiche delle femine non fanno meno lucida la percezione, nè meno libero il volere: e se di tali cose dovesse tenersi conto alla donna, sarebbe logica necessità tenerne conto anche all'uomo che in pari condizioni si trovasse. Neppure può trarsi argomento dal pudore e modestia, che si asserisce esser connaturale alla donna: imperocchè sotto quèsto rapporto avendo la donna maggiori ostacoli da superare per giungere al delitto; mostra col delinquere una maggiore malvagità di proposito.
§. 236. Un insigne criminalista ha recentemente riassunto la protezione del sesso femminile in faccia alla punitiva giustizia; e con vedute lodevoli e filantropiche, ha tentato sottrarre alla scure del carnefice la metà del genere umano, ricorrendo a nuove ed ingegnose osservazioni, onde persuadere che il delitto commesso dalla donna sia politicamente meno imputabile di quello commesso dall'uomo. Lodo la santità dell'intendimento, l'ingegno adoperato per farlo trionfare, e la novità dei concetti. Ma scientificamente non posso recedere dall'insegnamento di Rossi, che rappresenta la dottrina prevalente oggidì. Queste novelle obiezioni a favore del sesso sono
- 4.° che il delitto della donna presenta un danno mediato minore di quello dell'uomo - Ma questo potrà esser vero in ordine a certi delitti, nei quali il sesso offre ostacoli o difficoltà maggiori: non lo è però per quei delitti che possono con uguale facilità ripetersi per parte della donna come per parte dell'uomo.
§. 237. Obietta
- 5.° che la donna è più corrigibile dell'uomo; e lo prova colla statistica delle recidivanze - Ma questo argomento parte dal presupposto che nella correzione del delinquente trovisi il fine della punizione. Ed io vorrei che questo principio potesse tenersi per vero, perchè la logica inevitabile conseguenza di codesto postulato sarebbe l'abolizione della pèna di morte. Ma poiche non tengo per vero codesto, principio (§. 645) e se ne ricusa l'applicazione nel più importante dei suoi resultati, non trovo nella più agevole corrigibilità di un individuo, ragione per dirlo meno imputabile alloraquando delinque. Se d'altronde la corrigibilità, che è una previsione, portasse seco la minoranza della imputazione, la correzione effettiva, che è un fatto reale, dovrebbe per buona logica condurre a far cessare la pena del delinquente corretto.
Obietta finalmente
- 6.° che la donna è meno dall'uomo proclive a delinquere: e lo prova apoditticamente con vasti dati statistici - Ma si deve tener calcolo degli ostacoli maggiori, e delle minori occasioni che ha la donna a cadere in certe specie di delinquenze. E si deve aggiungere che per ragione di codesti maggiori ostacoli l'energia della volontà criminosa si palesa maggiore nella donna che delinque. Ma anche prescindendo da ciò, non può ammettersi l'efficacia di codesto argomento, poichè non è vero il principio sul quale esso necessariamente si asside. Non ammettendo che per la frequenza di certi delitti si possa aumentare la pena (§. 698) molto meno posso ammettere che se ne abbia motivo di aumentare la imputazione. E questa sarebbe necessariamente la base dell'obiettato argomento: perchè per l'indole dei correlativi tanto vale il dire che la donna s'imputa meno; quanto il dire che l'uomo s'imputa più. E quando un condannato dimanda perchè si punisca più lui che la sua correa, non parmi sia persuadente risposta il dirgli, ti punisco di più perchè sei uomo, e perchè trovo più delinquenti fra gli nomini che fra le donne. D'altronde nel calcolo della responsabilità della donna delinquente, non può prendersi in considerazione ciò che non le è personale. Sarà minore il numero delle donne che delinquono; ma la donna che ha delinquito, appunto perchè l'eccezione è più rara, bisogna dirla più corrotta e malvagia dell'uomo che fa altrettanto; o per lo meno bisogna dirla ugualmente responsabile; e tanto basta. Affermisi pure, se vuolsi, che le donne sono più morali degli uomini perchè più raramente delinquono; ma la donna che ha delinquito non può trovare scusa alla sua immoralità nella moralità delle sue compagne.
Tale è la opinione che, rispettando le convinzioni difformi, io professo. Trovo nel sesso una circostanza diminuente la pena; non so persuadermi a trovarvi una minorante della imputazione.
3.° Sonno.
§. 238. Gli atti commessi nel sonno, quantunque in quegli individui che vanno soggetti al fenomeno misterioso del sonnambulismo, presentino a primo aspetto il sembiante della intelligenza, sono puramente macchinali; e non diretti da una volontà razionale, nè dalla coscienza delle proprie operazioni. Perciò tutti consentono che non possa all'uomo obiettarsi il dolo per ciò che fece nel sonno.
§. 239. Si ammette per altro che possa al sonnambulo obiettarsi la colpa: non già per quello che egli fece nel sonno, ma più propriamente per le cautele che non usò quando era desto; se, conscio della propria infermità, potè prevedere che questa lo avrebbe guidato a violare la legge dormendo, e non provvide ad impedire siffatto male. Ma di questa eccezionale avvertenza sarà rarissima l'applicazione.
§. 240. Non può accettarsi come praticamente possibile, e meritevole di speciale provvedimento, la fantastica ipotesi di un sonnambulismo vero ma affettato: cioè di un disegno diretto a preparare a sè stesso nel sonno i mezzi di commettere un delitto deliberato vegliando.
4.° Sordomutismo.
§. 241. Il filosofo che, reietta la dottrina del sensismo, riconosce nell'anima umana la potenza di supplire anche al difetto di un senso per raggiungere una netta nozione delle cose, bisogna però che riconosca una limitazione a questa teoria nella percezione delle idee astratte (1).

(1) Questa comune opinione è stata recentemente combattuta con molta dottrina dal sig. Professor Veratti di Modena. Nella sua opera sulla imputabilità dei sordo-muti, egli sostiene all'appoggio di molti fatti da lui raccolti, che anche il sordo-muto non istruito possa essere imputabile.

§. 242. Le idee astratte, quali son quelle di dovere, di diritto, di giustizia, non si acquistano dal l'uomo se non mercè la comunicazione che ne riceva per l'udito dagli altri uomini. Il veicolo necessario alla comunicazione delle idee astratte è la parola: gli altri sensi possono farci acquisìre la nozione del giure penale come fatto materiale, ma non la nozione della sua giustizia. Non è che a tali aspirazioni sia indispensabile all'anima umana l'aiuto dei sensi. Ma le occorre un senso che serva a porre in comunicazione l'intelligenza del bambino con le intelligenze altrui. Le anime sciolte dagli organi avrebbero questa potenza in loro stesse; perchè la comunicazione dei pensieri si forma tra loro per un'intuizione reciproca. Ma finchè l'anima è imprigionata nel corpo non vi è contatto fra intelligenza ed intelligenza, se non per mezzo degli organi, e più specialmente dell'udito e della loquela.
§. 243. L'impotenza pertanto in cui trovasi quell'infelice, che gettato in mezzo agli uomini senza l'organo dell'udito, non ebbe mezzo di acquisire dall'altrui voce una lucida percezione dell'idea di diritto e di giustizia, fu causa che si accogliesse un tempo come regola la non imputabilità del sordo a nativitate.
§. 244. Quando per altro un benefattore dell'umanità ebbe ideato il metodo poi tentoso di istruire i sordomuti; e quando correndo sulle sue orme, si utilizzò a prò loro la parola scritta, come equivalente alla parola parlata, si compartì a cotesti infelici il mezzo di giungere a concepire le idee astratte; supplendo col senso della vista al difetto dell'udito. E allora dovette bene riconoscersi che anche i sordomuti potevano divenire responsabili in faccia alla legge civile.
§. 245. Perchè dunque al sordomuto possa senza ingiustizia attribuirsi capacità di delinquere, sara necessario al giudice, accertarsi che il giudicabile affetto da tale infelicità, era stato istruito per guisa da poter formare un retto, giudizio delle proprie azioni; delle conseguenze loro; e dei loro rapporti razionali con la legge penale.
§. 246. Ove ciò risulti, il giudice dichiarando il concorso del discernimento in quella data azione del sordomuto che rappresentò l'infrazione della legge, verrà a dichiarare la responsabilità di lui in faccia alla legge stessa. La formula del discernimento non è, come parve al Giuliani, equivalente a quella d'istruzione. La parola istruzione tanto può esprimere il fatto causante, quanto l'effetto causato. La responsabilità non nasce dalla istruzione data; ma dal risultato dell'acquisizione dei lumi. Dicendo che il sordomuto sia imputabile quando è istruito, si rischia che un giudice sul certificato dell'istruzione data al sordo-muto, lo dichiari responsabile quantunque sia rimasto un idiota. D'altronde neppure lo stesso fatto causante potrebbe definirsi da una legge a priori, senza scendere a determinare il metodo e il grado della istruzione fornita. Ottima adunque ed esatta è la formula del discernimento: essa sola risponde al principio che non ammette si condanni per presunzione: e la cognizione del discernimento bisogna per necessità consegnarla alla coscienza del magistrato.
§. 247. Ma ciò non ostante, se per tale verificazione il sordo-muto sarà politicamente imputabile, lo sarà però sempre in un grado minore dell'ordinario; perebè un riguardo dovrà aversi alla sua infelicità; e perchè rimarrà sempre un dubbio che tale infortunio, di cui egli non è causa ma vittima, abbia in qualche guisa lasciato torbide le sue idee; e influito sulla sua delinquenza.
5.° Pazzia.
§. 248. La pazzia, considerata come circostanza dirimente l'imputazione, può definirsi un abito morboso che, togliendo all'uomo la facoltà di conoscere i veri rapporti delle sue azioni con la legge, lo ha portato a violarla senza coscienza di violarla.
§. 249. Da questa nozione discendono tre conseguenze:
1. Che la sola manìa intellettuale, o manìa con delirio, può escludere l'imputazione. E ha, esclude, sia che presentisi sotto la forma di imbecillità, o di demenza, o di furore. Non la manìa morale, o senza delirio; la quale moralmente, e politicamente guardata non diminuisce la responsabilità dell'agente, perchè non altera le potenze intellettive; nè distrugge la libertà di eleggere. La forza che una mala tendenza eserciti sulla determinazione del maniaco morale aumenta la ragione che ha la società di temerne, senza diminuire la sua responsabilità.
2. Che la manìa intellettuale esclude sempre l'imputabilità quando è vaga, o totale. Ove sia fìssa o parziale la esclude soltanto se fu efficace: cioè se influì sulla determinazione ad agire (1).

(1) Questa formula esattissima, accettata ormai dalla scienza, fu posta innanzi da Mittermaier nella sua dotta dissertazione de alienalionibus mentis, Heidelberg 4825.

3. Che la durata maggiore o minore dell'alterazione morbosa niente influisce sulla imputabilità, purchè l'accesso sia concomitante all'azione criminosa: laonde anche un furore transitorio può affatto escludere la responsabilità dei propri -atti. Ed invece anche il maniaco con delirio, se delinque nello stato di lucido intervallo, è responsabile del proprio fatto.
§. 250. Anche nel caso di manìa parziale non efficace; e di atto commesso nel lucido intervallo; se si mantiene il principio della responsabilità, è per altro di giustizia concedere una minorazione di imputazione. E ciò tanto per riguardo di umanità; quanto perchè quella innormalità delle potenze intellettive lascia sempre sospettare che l'infermità abbia potuto esercitare una qualche influenza sul delitto. D'altronde sente ognuno che in questi casi il danno mediato è sempre minore. E inutile avvertire che la pazzìa simulata non può esser mai di scusa al delitto. Bensì giova ricordare che tutte le indagini di fatto relative alle condizioni della pazzìa bisogna rilasciarle al giudizio del magistrato (1) nè possono definirsi a priori dalla legge.

(1) Tomasio con una dissertazione sottilissima secondo il suo stile, pretese di stabilire a priori dei canoni per giudicare la pazzia. Filangieri, benchè niente fautore dell'arbitrio del giudice, ammise la necessità di ricorrervi per queste verificazioni. Carmignani censurò acremente il Filangieri per siffatta dottrina. Niccolini alla sua volta censurò Carmignani, e ristabilì la dottrina di Filangieri; che è la sola praticamente accettabile. Bisogna però che il giudice in queste ricerche deferisca dal giudizio dei periti medici, se non vuole incorrer taccia di presuntuoso, e porre a pericolo la giustizia. Che se le opinioni dei periti medici si scindano sopra alcuna di tali questioni, e le opinioni siano per l'uno e per l'altro lato autorevoli, il giudice pone in quiete la sua coscienza abbracciando l'opinione più mite. Facendo altrimenti incorrerà non solo la taccia di presuntuoso, ma anche quella di feroce.

II Cause ideologiche.
§. 251. Le cause morali, o ideologiche, per lo quali a certi momenti si rende nell'uomo inefficace la potenza intellettiva di cui d'altronde egli è completamente fornito, sono l'ignoranza e l'errore.
§. 252. L'ignoranza consiste nell'assenza di qualunque nozione intorno ad un oggetto. L'errore in una nozione falsa circa un oggetto. L'ignoranza è uno stato negativo dell'animo: l'errore uno stato positivo. Metafisicamente guardati l'ignoranza e l'errore sono distintissimi fra loro.
§. 253. Ma siccome il giure penale non si occupa delle condizioni dell'animo se non in quanto furono causa di azione; e siccome lo stato di ignoranza, come puramente negativo, non può esser causa di azione; così il criminalista non ha occasione di portare le sue osservazioni sull'onoranza, ma soltanto sull'errore (1).

(1) Anche Savigny giustificò l'ignoranza e l'errore quanto agli effetti giuridici. Ma andando in un concetto opposto, insegnò che tutto era ignoranza; poichè l'errore sempre nasce dall'ignorare una qualche cosa. La dottrina dell'errore nelle materie penali fu nitidamente svolta da Renazzi Elementa juris criminalis lib. 1.° cap. 8.

§. 254. L'errore cade sui rapporti dei proprii atti con la legge tanto se, conoscendo la legge, si erra sulle condizioni che accompagnano il fatto; quanto se, ben conoscendo le condizioni dèi fatto, si erra circa l'esistenza della legge proibitiva. Così l'errore, guardato in ordine all'oggetto su cui cade, può essere o di fatto o di diritto.
§. 255. L'errore può nascere da una allucinazione dell'intelletto, di cui l'uomo coll'adoprare cautamente i sensi e la ragione si poteva liberare; o può aver causa da un abbaglio che tutta la più accurata diligenza,non potea dileguare. Così l'errore, guardato nella sua causa, dividesi in errare vincibile, e non vincibile.
§. 256. Finalmente la falsa nozione che avviluppò la mente potè esser tale, che data anche la sua verità, rimanesse sempre la criminosità dell'azione: e potè esser tale che se fosse stata vera, la criminosità sarebbe sparita. Così, guardato nel rapporto della sua influenza sulla criminosità dell'azione, l'errore dividesi in errore essenziale ed errore accidentale.
§. 257. Poste queste nozioni, ecco le regole secondo le quali si valuta l'errore come circostanza modificatrice della imputazione.
§. 258. - 1.° - L'errore di diritto non scusa mai. Esige politica che si presuma nel cittadino la cognizione della legge penale, che d'altronde è debito di ognuno di conoscere.
§. 259. A cotesta regola può farsi moderata limitazione nel caso di forestiero, giunto di recente nel territorio dominato dalla legge che egli violò; purchè per altro nell'atto da lui commesso ricorrano queste due condizioni
- 1.° - che non sia riprovato dalla morale
- 2.° - che non sia proibito nella patria del forestiero medesimo. Cosicchè questa eccezione è tutta propria delle trasgressioni; difficilmente applicabile ai veri delitti.
§. 260. - 2.° - L'errore di fatto esime da ogni imputazione quando fu essenziale, e invincibile. In nulla peccò chi non credea di peccare; quando non gli era possibile di illuminarsi sulla pravità del suo fatto.
§. 261. - 3.° - L'errore di fatto anche invincibile, non scusa se è accidentale, o concomitante. La volontà fu diretta al delitto; le varietà degli effetti, quando non modificano il delitto, non sono valutabili. E se lo modificano (e debbano per conseguenza attendersi), ove lo modifichino in meno, sarà l'evento, non sarà l'errore che gioverà al colpevole; ove lo modifichino in più, l'errore in ordine alla circostanza variata diverrà essenziale. Cosicchè resta costantemente vera la formula che l'errore accidentale non scusa,
§. 262. Così se alcuno volendo uccider Cajo, uccida Tizio, sarebbe errore il pretendere che costui sia responsabile di tentalo omicidio contro Cajo; e di omicidio involontario a danno di Tizio (1). E reo dell'omicidio di Tizio: e quest'omicidio è volontario, perchè la volontà dell'agente era diretta alla morte di un cittadino, e il suo braccio l'ha operata.

(1) Qualche scrittore germanico pretese sostenere siffatta tesi. Altri la confutarono senza discriminazione. L'Haus (Cours de droit criminel n. 135) concilia le divergenti opinioni distinguendo così. Si è ucciso un individuo credendo che fosse Cajo, mentre invece era Pietro, ed allora siccome il risultato dell'azione è stato quello che si voleva perchè l'individuo colpito è materialmente quello contro cui si dirigeva l'azione: e in questi termini non si deflette dal titolo di omicidio volontario. 0 invece si è scagliato il colpo contro Cajo, e si è ucciso Pietro che gli era vicino: ed allora si avrà un omicidio tentato o mancato a danno di Cajo, e un omicidio involontario a danno di Pietro.

§. 263. - 4.° - L'errore di fatto essenziale quando è vincìbile esime dalla imputazione in ragione di dolo; ma vi sostituisce la responsabilità in ragione di colpa. Fu un'omissione volontaria di diligenza il non riflettere a ciò che avrebbe dileguato l'errore. Questa volontaria omissione fu causa della infrazione della legge. Dunque rimane una responsabilità.
§. 264. Così l'errore vincibile, al pari della colpa, se non vale come causa dirimente, vale però come minorante l'imputazione. In tal guisa la colpa trova la sua sede nella teoria del grado; perchè modifica grandemente, e talvolta perirne l'imputazione: come ve la trova il caso, che sempre la distrugge.
§. 205. Ma fra l'errore vincibile e la colpa, ontologicamente guardati, intercede questa diversità: che nella colpa non si sono previste per negligenza tutte le conseguenze materiali del proprio fatto; e manca ogni direzione dell'intenzione verso l'evento che si è prodotto. Nell'errore vincibile le conseguenze materiali del fatto si sono previste, e volute; ma non si è prevista per negligenza, e per un equivoco di fatto, la conseguenza giuridica della violazione della legge, che stava in quell'evento.
§. 266. Qual sia il criterio della colpa e della sua graduabilità, e come si distingua dal dolo e dal caso lo notammo (§. 88) di sopra.
§. 267. L'imputabilità della colpa procede così rapporto alla causa immediata, come rapporto alla causa mediata dell'infrazione; purchè nei loro atti respettivamente ricorra l'elemento morale desunto dalla prevedibilità; e l'elemento fisico desunto dalla efficienza degli atti medesimi. Ma la respettiva imputabilità non varia per essere la causa o mediata o immediata; sempre subisce il criterio della prevedibilità: nè la responsabilità dell'una esclude la responsabilità dell'altra agli effetti penali.
§. 268. La regola che la colpa porti notevole diminuzione nella politica imputabilità è inconcussa. Divergono però le opinioni circa l'effetto dirimente di questa condizione dell'animo. Alcuni lo hanno negato sempre; non solo nella colpa lata; ma anche nella leve, e levissima. Altri (come Carmignani) lo ammisero nelle ultime due, perchè vollero desumere il fondamento della imputabilità della colpa dal sospetto del dolo. Altri con più retto consiglio, desumendo cotesto fondamento dal danno mediato, attribuirono effetto diminuente alla colpa leve e alla lata: effetto dirimente alla levissima, perchè non può nascere allarme valutabile da un fatto cagionato da tale imprevidenza, nella quale i cittadini sentono che la maggior parte di loro sarebbe facilmente incorsa.
§. 269. Tutti però sono concordi a ravvisare il grado maggiore della imputabilità della colpa, quando vi fu permistione di dolo; lo che costituisce quella che i pratici chiamano colpa informata da dolo. In cotesto caso il grado della imputazione non più si misura sul criterio della possibilità di prevedere l'effetto dannoso; ma sulla norma del dolo che concorse nell'atto.
§. 270. E tutti i criminalisti sono pure d'accordo nello insegnare che anche il caso possa essere politicamente imputabile, quando l'agente che per mero fortuito non prevedibile violò la legge, versava in cosa illecita.
§. 271. Evvi però una forma speciale di degradazione desunta dalla mancata previsione dell'effetto più grave, che costituisce un medio di imputazione fra quella che si darebbe al fatto doloso, e quella che si darebbe al fatto colposo. Questa è la così detta preterintenzionalità, che è un titolo speciale applicato frequentemente in pratica agli omicidi commessi con animo di offendere e senza intenzione di uccidere. Nell'omicidio praeter intentionem si ravvisa il dolo che «nasce dall'animo di nuocere al nemico. Ma quanto all'effetto letale vi è colpa perchè si suppone non preveduta la morte. Vi è meno che nel dolo indeterminato, pel quale l'effetto più grave si suppone preveduto quantunque non precisamente voluto (§. 70): vi è più che nella colpa, perchè si agì con intenzione diretta a recar male al nemico.
Articolo II.
Del grado rapporto alla volontà dell'agente
.
§. 272. L'uomo ha la facoltà di determinarsi nelle sue azioni, preferendo a suo talento il fare o il non fare, dietro i calcoli dell'intelletto. Questa potenza è quella che costituisce la sua libertà di elezione. E in virtù di tale facoltà che a lui si chiede conto degli atti a cui si determina.
§. 273. La libertà di eleggere, come potenza astratta dell'animo, non può mai togliersi all'uomo. Anche colui che cade da un'altezza, mentre cade e sa di cadere, non vorrebbe cadere. La libertà come idea gli rimane: ma gli è impedita la realizzazione dell'idea.
§. 274. Può esser tolta all'uomo la pienezza dell'arbitrio nell'atto della sua determinazione, quando una causa, o esterna o interna, agisca per guisa sull'animo suo da esercitare valido impulso sulla sua determinazione.
§. 275. l'atto in tal caso è sempre volontario, perchè la libertà della scelta rimaneva sempre all'agente; ed ei volle appigliarsi ad uno piuttosto che ad altro partito. Ma la sua volontà dicesi meno spontanea, perchè minorato V arbitrio nell'atto della determinazione.
§. 276. Siffatta diminuzione di spontaneità deve esser tenuta a calcolo a favore di colui che al seguito di tale impulso violò la legge; perchè per essa minorasi la forza morale del delitto, tanto nel suo elemento, che è la prava intenzione, quanto nel suo risultato, che è il danno mediato.
§. 277. Le circostanze che operano cotesto effetto di limitare l'arbitrio dell'uomo nella determinazione del suo volere, costituiscono nella scienza nostra la teoria della degradazione del delitto nell'elemento della volontà.
§. 278. La forza che costringe l'uomo ad agire può esser fisica e morale. Fisica quando agisce sul corpo; morale quando agisce sull'animo.
§. 279. Nel primo caso l'uomo dicesi invito; nel secondo coatto. L'invito non può esser mai responsabile in faccia alla legge penale. Esso non è agente, ma agito; la causa dell'infrazione non è egli, ma quella forza che adopera il suo corpo come stromento di un'azione, nella quale egli è meramente passivo.
§. 280. Nell'atto involontario l'uomo fisico è attivo; ma l'uomo interno non vi ha preso parte: vi è azione, ma non intenzione.
§. 281. Nell'atto invito non vi piende parte neppur l'uomo fisico, perchè anche questo è passivo. Non di quella passività che esso ha sempre rispetto all'anima alla quale è congiunto: ma di una passività innormale; perchè obbedisce all'impulso di un altro corpo, e non dell'anima propria. Non vi è nè intenzione, nè azione.
§. 282. Nell'atto coatto prende parte l'uomo interno, e l'uomo esterno: vi è intenzione ed azione: ma vi è limitazione di arbitrio nella determinazione e nell'azione.
§. 283. Questo effetto della coazione morale, o psicologica, che rendendo meno spontanea la volontà, modifica l'imputazione, si ritrova
- 1.° nella coazione propriamente detta, o violenza morale esterna
- 2.° nell'impeto degli affetti
- 3.° nell'ubriachezza.
Coazione.
§. 284. Coazione in stretto senso significa il costringimento che l'aspetto di un grave male imminente esercita sull'animo dell'uomo, e ne violenta le determinazioni.
§. 285. L'atto a cui l'uomo si determina per simile costringimento può assumere duplice forma, cioè: o quella dell'azione, o quella della reazione. Distinzione che non fu sufficientemente avvertita in molti Codici (1).
§. 286. Si ha l'effetto dell'azione, quando la violenza procede o dal caso o da un terzo, e l'atto a cui l'uomo si appiglia per salvarsi dal male che gli sovrasta, dirigesi contro una persona che non era causa del male stesso. Nel qual caso, degno di osservazione quantunque più infrequente, sotto il punto di vista della posizione morale dell'agente ricorrono uguali termini, e devono ricorrere uguali principii come nell'altro.
§. 287. Si ha l'effetto della reazione, quando per liberarci dal pericolo imminente respingiamo quell'istesso che a noi lo minaccia; e pel bisogno della difesa nostra non ci limitiamo alla semplice repulsa dell'attacco, ma procediamo ancora alla offesa dell'aggressore.

(1) V. Valdeson theorie du code espagnol p. 70, 72.

§. 288. In entrambi i casi vi è concorso di volontà, perchè anche il coatto vuole, e si determina con esercizio libero della sua attività psicologica a scegliere il male altrui, prima che il proprio. Ma pure cessa l'imputabilità sì dell'astone come della reazione, quantunque in loro si configuri un fatto materialmente contrario alla legge; puichè nel timore, che ci ha spinto ad agii e o reagire, ricorrano gli estremi di quello che i criminalisti appellano - moderame dell'incolpala tutela; o, con formula più completa, necessità.
§. 289. Il fondamento di fatto di questa scriminazione è il timore: il timore presuppone sempre l'aspetto di un male non ancora patito.
§. 290. Il fondamento giuridico della scriminatone, non è meramente la collisione degli ufficii, nè la perturbazione dell'animo. Questi principi, per quanto veri, non sarebbero a solo sufficienti a render ragione in tutti i casi della legittimità della difesa privata (1).

(1) Vedasi il mio discorso sulla difesa pubblica e privata, in fine. L'argomento della legittimità della difesa privata ha occupato tal numero di scrittori, che tentarne una completa bibliografia richiederebbe un volume. Teologi, moralisti, pubblicisti, e criminalisti ne hanno latamente discorso. Il concetto giuridico della coazione panni riassunto più esattamente che da ogni altro dai seguenti - Giuliani Istituzioni di diritto criminale vol. 4 pag. 484 e segg. vol. 2 pag. 290 e 3l0, ediz. 4856 - Niccolini questioni di diritto part. 2 quest. 25, n. 9 (pag. 289 ediz. livornese) e quest. 26 per int. (pag. 593) - Haus court de droit criminel , §. 115, §. 146; e §. 163 bis, edit. 1861. - Ma il chiarissimo sig. Giuliani (pag. 185) censura Carmignani por un concetto che veramente il nostro maestro non ebbe. Egli equivoca sul primo requisito dettato dal Carmignani, per non avere avvertito al carattere corsivo: Carmignani non pose in corsivo la parola impendeat, come Giuliani suppone nella sua critica: ma la parola timor. L'enumerazione del professor pisano è viziosa perchè distingue il soggetto dal predicato, e fa quasi di quello un predicato distinto (errore che poscia emendò nella sua Teoria): ma non è vero che egli cada nel pleonasmo assurdo di fare della presenza, e della imminenza due requisiti distinti.

§. 291. Il fondamento costante di tale legittimità è la cessazione del diritto di punire nella società. Il gius di punire nell'autorità sociale emana dalla legge eterna dell'ordine, che esige si dia al precetto morale una pronta ed efficace sanzione; la quale completi la legge naturale, col guarentire validamente quei diritti che essa comparte; e all'umanità, impotente a difendersi dai malvagi con le forze private, socco ira la difesa pubblica. Ammesso questo postulato, bisogna per forza logica dedurne che quando la difesa privata potè essere efficace, mentre ei a inefficace la difesa pubblica; quella ha lipreso il suo diritto, e questa lo ha perduto. Il proverbio volgare - necessità non ha legge - riassume il concetto filosofico di questa teoria meglio assai che noi facciano tante formule studiate dai pubblicisti.
§. 292. Coll'imporre che l'innocente si lasci uccidere, si imporrebbe un disordine, e si anderebbe così a ritroso della legge di natura, che è l'unica base del giure penale umano. Che se vi è disordine anche nella strage di un altro innocente, la parità dei disordini toglie sempre il diritto di punire, facendone cessale la causa.
§. 293. La dirimente della coazione non si misura dunque sulla perdita, o sulla perseveranza dei diritti di colui che fu vittima dell'azione o della reazione coatta. Si guarda tutta nel coatto medesimo, e si misura dalla sua posizione.
§. 294. Fu un errore di molti pubblicisti desumere il diritto di difendersi nell'aggredito dalla supposta perdita del diritto alla vita nell'aggressore. La forza escusante della coazione si deve cercare nell'aggredito, non nell'aggressore, o nella vittima del fatto. Leg. 2 Cod. ad leg. Cornel. de sicar.
§. 295. Con tali principi (e non con l'assorta cessazione del diritto di proprietà) si legittima anche il furto commesso per necessità di fame. La legge dell'ordine non può preferire il male irreparabile della morte di un uomo, al male imparabile dell'offesa proprietà: essa è legge di conservazione.
§. 296. Ora perchè al timore si accordi questo potente effetto di rendere legittimo un atto violatore dei diritti altrui, e materialmente contrario alla legge, è in tutti i casi necessario per regola assoluta, che nel male minacciato si trovino questi tre requisiti
- 1.° ingiustizia
- 2.° gravità
- 3.° inevitabilità.
§. 297. - 1.° Ingiusto - Manca il requisito della ingiustizia in due casi
- 1.° quando il male minacciato lo sia con tutta legittimità, come lo è nel caso del condannato a morte, che per salvarsi uccida il carnefice, o il carceriere
- 2.° quando sebbene il male che si minaccia ecceda i limiti della legittimità, vi fu ingiustizia per parte del minacciato; come nel caso del ladro, o dell'adultero, che sorpreso e minacciato nella vita dal padrone o dal marito, lo uccida; nel caso dell'eccitatore della rissa; ed in una parola in tutti i conflitti, nei quali il pericolo in cui mi sono trovato abbia avuto occasione da un fatto mio riprovevole.
§. 298. - 2.° Grave - La gravità del male non deve cercarsi nell'assoluta verità, che può essere rimasta occulta all'aggredito; ma nella ragionata opinione dell'aggredito medesimo.
§. 299. Si considera come grave il male che minaccia la vita, le mzrribra, e la pudicizia: non quello che attacca la roba: nè quello che lede la fama; tranne rimpetto ad una reazione correlativa. E sebbene il commento officiale del Codice bavaro (art. 1 §.9 nota 4); il Codice di Hesse Harmstadt, e il Codice austriaco, ammettano come causa dirimente la difesa della proprietà; la comune dei dottori e dei legislatori le accordano soltanto una efficacia minorante, che ha la sua ragione nella giustizia dell'affetto motore: ma non mai, quando è isolata, le accordano forza scriminatrice. Carmignani ha ridotto con molta esattezza scientifica il ciiterio della gravità del male alla sua irreparabilità (Teoria delle leggi della sicurezza vol. 2, pag. 239): e questa è la formula più vera, così teoricamente come praticamente. Vedasi Ortolan n. 422.
§. 300. Del rimanente è grave il male per l'effetto di che si ragiona, tanto se sovrasta a noi stessi, quanto se sovrasti ad altro uomo, sebbene a noi non congiunto di sangue; purchè innocente, ingiustamente aggredito, e impotente a salvarsi. Legittimando la difesa propria e non l'altrui, si santifica l'egoismo, e si proscrive la carità. Un codice cristiano non può essere più disumano delle leggi degli idolatri. Rinnegare (nel concorso dei debiti requisiti) la legittimità della difesa altrui, è lo stesso che rinnegare il Vangelo - Trebutien vol. 4 pag. 160. - Ortolan elements du droit penal n. 432 - Giuliani vol. 2, pag. 310.
§. 301. La legge di natura, dalla quale emana il diritto di punii e nella società, non può contradire alla legge di natura che impone l'assistenza dei nostri simili. Proibire ai cittadini di correre al soccorso di un innocente aggredito non è difendere i diritti dell'uomo, ma le sue prepotenze; non è un servire all'ordine, ma al disordine.
§. 302. - 3.° Inevitabile - certamente; se al male che ci minaccia potevamo sottrarci altrimenti, che col violare la legge, la violazione deve rimanere imputabile; perchè l'arbitrio dell'agente non era più ristretto fra la scelta di due mali ugualmente gravi; e la legge dell'ordine poteva essere osservata, purchè egli eleggesse il'mezzo innocente col quale avrebbe evitato e il danno proprio e l'altrui.
§. 303. Sottrarsi altrimenti dal male che ci è minacciato si può, o con previsioni anteriori; o con provvedimenti successivi; o con ripari concomitanti.
Perciò l'inevitabilità nel pericolo che indusse ad agire o reagire, si desume da tre criterii distinti
- 1.° che sia improvviso
- 2.° che sia presente
- 3.° che sia assoluto.
§. 304. - Primo criterio dell'inevitabilità - pericolo improvviso. Se era previsto, vi fu colpa nell'affrontarlo, ed esporsi al cimento o di patir morte o di darla. La necessità in cui ci trovammo ebbe causa da noi stessi; e questa eleggemmo nella pienezza del nostro libero arbitrio.
§. 305. Per altro a far cessare questo criterio si esige che la previsione sia certa; non basta che fosse vaga e di mero sospetto, qual è quella del viaggiatore, che prevedendo un assalto di malandrini, si è munito d'armi per respingerli.
§. 306. - Secondo criterio - che sia presente. Se era passato, fu un sentimento di vendetta che ci spinse ad agire, e non corrono i termini della difesa. Se era futuro, poteva nell'intervallo ripararsi altrimenti.
§. 307. - Terzo criterio - che sia assoluto. Cioè che nel momento stesso del pericolo non possa questo declinarsi con altri mezzi innocenti. Tali mezzi si riducono alla preghiera, alla acclamazione, alla fuga.
§. 308. Ma onde possa a chi invoca la necessità della difesa farsi fondato rimprovero perchè non si apprese alla preghiera, all'acclamazione, o alla fuga (1), si esigono due condizioni.
La prima che questi mezzi fossero in realtà utili; cioè efficaci alla salvezza.
La seconda che di tale utilità potesse istituire il calcolo lo stesso aggredito.
§. 309. Sarebbe ingiustizia rimproverargli di non aver fatto cosa o che era vana a salvarlo, o della quale ei non poteva conoscere l'utilità. Il moderarne deve sempre misurarsi secondo le ragionevoli opinioni di colui che si vide minacciato della vita; non secondo ciò che con freddo calcolo e maturo esame si è conosciuto dal giudice. Se l'errore fu grossolano ed inescusabile vi sarà precipitazione e imprudenza; se fu una credulità ragionata e scusabile, non vi è neppur colpa. Ma in ambo i casi colui che errò nel calcolare il pericolo, ed i mezzi della propria salvezza, agì con la coscienza di fare atto legittimo; e non può rimproverarglisi dolo giammai.

(1) In proposito della fuga sono grandi le divergenze fra gli scrittori si moderni che antichi: i quali andarono nelle più sottili, e spesso irragionevoli, e più sposso ridicole distinzioni, per decidere se colui che aveva ucciso polendo fuggire senza pericolo, meritasse o nò di essere imputato. Ingegnosa è la conciliazione che tentò di questa discordia l'esimio Trebutien vol. 4, pag. 151, 152.

§. 310. La deficienza del requisito della gravità o della inevitabilità del pericolo fa sorgere il così detto eccesso di difesa; nel quale più spesso si ravvisano i caratteri della colpa, che quelli del dolo: e se nei gravi delitti non dirime, deve però notabilmente diminuire l'imputazione. Ma non perdasi di vista la distinzione tra eccesso di difesa che sempre configura il dolo, e eccesso di moderame, (o come altri dice, difetto nel moderame) che sempre configura la colpa: e può anche tal volta lasciai si impunito (1). Così il Codice prussiano (sanzionato il 14 aprile, e attuato il 1.° luglio 1851) al §. 41 secondo alinea, parifica agli effetti dell'esonerazione la legittima difesa e l'eccesso. Mitissima disposizione; ed accettabile, purchè si referisca al difetto (o eccesso) nel moderarne, perchè in tal senso ha salda base sull'anzidetto piincipio della cessazione del dolo. Colui che, illuso sulla gravità e sull'inevitabilità del proprio pericolo, uccide o ferisce, non ha la volontà, non ha la coscienza di delinquere. Egli non è dunque assolutamente in dolo. Gli si può rimproverare un errore di calcolo, una precipitazione: e così i termini di una colpa. Ma se si avverte che l'aspetto di un pericolo imminente non lascia facoltà di ragionare che ad uomini di straordinaria presenza di spirito, si comprende che cotesta precipitazione, e il conseguitone error di giudizio, è un effetto inevitabile dell'umana natura: effetto da cui solo pochissimi andrebbero esenti in circostanze analoghe; cioè nella circostanza di una perturbazione cagionata dal terrore.

(1) Questa distinzione si esorna dal Carmignani elementa §. 979 in nota - e dal Giuliani vol. 2, pag. 295.

§. 311. Evvi una coazione che dicesi impropria. Questa si ha quando senza veruna minaccia di un male corporeo imminente, l'uomo si indusse al delitto per obbedire al comando di altra persona, che sopra di lui esercitava un autorità.
§. 312. Tale autorità può essere o domestica, o gerarchica, o politica. Subiezione domestica è quella che,si riscontra nella donna, nel figlio, nel servo, verso il marito, il padre, o il padrone, che abbia loro comandato un delitto.
§. 313. Subiezione gerarchica è quella che consiste in un rapporto di rispettiva superiorità e dipendenza, nascente da un ordine particolare di ufficii o funzioni, specialmente d'indole pubblica. Tale è quella che lega il soldato al capitano, il cherico al vescovo, il cancelliere al giudice, e simili.
§. 314. Subiezione politica è quella che lega il suddito al principe, e in generale verso il governo dello Stato.
§. 315. Regola generale è che il meto puramente reverenziale non esclude l'imputazione. Può leggermente diminuirla; ma poichè la mera reverenza ed ossequio non toglie la coscienza del proprio mal fare, nè l'arbitrio di eleggere, rimangono i caratteri del pieno dolo, e la responsabilità del delitto commesso.
§. 316. Laonde la subiezione domestica, se può talvolta minorare l'imputazione, non può mai farla cessale. La subiezione politica dirime l'imputazione quando distrugge la criminosità dell'atto; come nel caso della legge emanala dal governo di fatto. La subiezione gerarchica non è d'ordinario che una minorante, e solo assume il carattere di dirimente quando tolse la coscienza della criminosità dell'atto: come avviene nel caso in cui il superiore comandi per fine illecito una cosa che era nelle sue attribuzioni di comandare; sicchè l'agente creda di far cosa lecita. In questi termini la dirimente dipende più dalle condizioni dell'intelletto, che da quelle della volontà dell'agente. Il responsabile del delitto in tali casi è colui che comanda: l'altro non è che un cieco e materiale stromento, che agisce senza coscienza di violare la legge; ed al quale non si può far debito di sindacare gli ordini del suo superiore. Egli è scevro da dolo: la sua azione materiale si compenetra al dolo di chi si valse dell'opera sua; ed a costui si riferiscono entrambe le forze del delitto avvenuto.
2.° Impeto degli affetti.
§. 317. Per attribuire ad ogni delinquenza la sua giusta misura, gli affetti che mossero a violare la legge non vogliono esser guardati riè moralmente, nè politicamente, ma psicologicamente.
§. 318. Le passioni sono certamente l'unica sorgente delle azioni malvagie; e il moralista che scorge in loro un rovesciamento della gerarchia divina dell'anima sul corpo, bisogna che le guardi come il nemico a cui deve far guerra. Ma il criminalista che trova un elemento costitutivo della essenza del delitto nella forza morale; la quale ha la sua causa nell'animo dell'agente, ed il suo risultato nell'animo dei cittadini spettatori del delitto; guarda le passioni con occhio diverso. La violenza esercitata sulla volontà dell'agente, anche da una potenza meramente interna, sebbene viziosa, produce l'irrecusabile effetto di minorare la forza morale del delitto nel suo elemento col diminuire la spontaneità della determinazione. Alla minorazione soggettiva di questa forza risponde la minorazione oggettiva della medesima. Dunque per logica deduzione dei principii che regolano l'essenza e la misura del malefizio, il criminalista trova nel delitto commesso al seguito di quell'impulso violento, una minore gravità morale, ed una minore gravità politica. Deve dunque per giustizia attribuirgli un peso minore.
§. 319. Se il criterio della quantità dei delitti si desumesse dalla violazione del dovere: sarebbe contradittorio trovare una degradante nell'ira, anzi l'ira dovrebbe aumentare la quantità. Ed è una contradizione, che una circostanza la quale aumenta la quantità di un delitto nel suo genere, lo degradi nella specialità individuale in cui essa ricorre più energica. L'irato che ferisce viola due doveri: uno coll'adirarsi, l'altro col ferire. Ma perchè al primo dovere non corrisponde un diritto in altri, così non repugna, che l'ira, benchè violi un dovere morale, non aumenti la quantità, e modifichi invece il grado del delitto. Se il criterio della quantità dei delitti si cercasse nella spinta, questa è per certo maggiore, quanto più energico è l'affetto impellente alla determinazione criminosa. Misurata invece la quantità del delitto sul criterio delle sue forze oggettivamente guardate, niente repugna: ed anzi è coerente al principio che dove trovasi in una specialità individuale una degradazione della forza morale soggettiva se ne degradi la imputazione; appunto perchè alla minor forza morale soggettiva risponde sempre una minor forza morale oggettiva. E bensì vero che se il dolo si ravvisasse nella coscietiza, non potrebbe trovarsi negli affetti una degradazione di dolo, E così non potrebbe dirsi che nel delitto commesso sotto l'impeto degli affetti vi è una minorazione di forza morale. Ciò appunto condusse lo Schroeter fra i moderni, ed altri, a bandire come inaccettabile la distinzione fra dolo d'impeto e dolo di proposito, essendochè la coscienza di violare.la legge sia uguale così nell'ira come fuori dell'ira. Ma anche di questo mostrammo altrove (§. 69) l'erroneità. Sicchè per noi non può esser dubbio sull'ammissione della degradante in ragione dell'impeto degli affetti; perchè coerente alle nozioni delle forze costituenti il delitto; coerente alla definizione del dolo; coerente al criterio assunto come misuratore della quantità politica dei reati. Così i principii si coadiuvano e si coordinano; lo che è il sommo criterio della loro verità.
§. 320. Perchè l'affetto operi cotesta modificazione della forza morale del delitto, bisogna dunque che egli rappresenti una coazione sulla facoltà volitiva, per cui si precipiti la determinazione criminosa, e con facilità maggiore si dimentichino gli ostacoli della legge proibitiva. Non nella nozione speciale dell'affetto, ma in questo suo carattere, sta la sua efficacia escusante.
§. 321. Deve perciò distinguersi tra passioni cieche e passioni ragionatici. Quelle agiscono con veemenza sulla volontà, e soverchiano i ritegni della ragione, lasciando all'intelletto minor balia di riflettere. Queste aguzzano invece i calcoli del raziocinio, e lasciano all'nomo la pienezza dell'arbitrio. Le prime devono ammettersi come cause minoranti l'imputazione, perche inerita scusa chi si lascia trascinare al male dall'impeto di subitanea perturbazione. Le seconde nò, perchè all'uomo che ragiona e che calcola, corre tutto l'obbligo di ricordare i divieti della legge, e riflettere alle conseguenze delle proprie azioni. La occasione delle une e delle altre può essere l'istessa: ma differiscono nel modo di agire sull'animo.
§. 322. Con facilità poi si distinguono le passioni cieche dalle ragionatici secondo la causa che le muove. Le passioni mosse dall'aspetto di un bene sono sempre ragionatici. Quelle eccitate dall'aspetto di un male divengono cieche.
§. 323. Questo carattere per conseguenza si riscontra soltanto nell'ira e nel timore. L'ira si eccita all'aspetto di un male patito; il timore all'aspetto di un male da patirsi.
§. 324. L'ira e il timore saranno dunque le sole passioni a cui potrà il giure penale concedere l'efficacia di minorare l'imputazione. Più al timore, che all'ira, perchè non vizioso, e meno dominabile dalla volontà. Più al timore ed all'ira, quando concorrono insieme.
§. 325. Nel linguaggio forense l'ira eccitata da un male recato alla nostra persona dicesi costituire la scusa della provocazione. L'ira eccitata da un'offesa alla proprietà, o a persone a noi care, dicesi costituire la scusa del giusto dolore.
§. 326. Tutta la forza escusante di queste passioni consiste nella veemenza e nella rapidità della loro azione sulla volontà. L'uomo è responsabile delle sue determinazioni perchè la sua volontà è armata dalla ragione. Ma l'azione della ragione umana è fredda e tarda. Tuttociò che spinge precipitosamente ad agire toglie la calma e il tempo per maturamente riflettere; e così rende la volontà disarmata momentaneamente del suo presidio. Da tali condizioni che presentano nella proeresi criminosa una forza meno energica di nequizia, acquista la passione un'efficacia escusante. Di qui la logica conseguenza che gli estremi di una passione per fornire la scusa debbono essere appunto la violenza, e la istantaneità.
§. 327. Da ciò nasce che l'ira deve esser distinta dall'odio; che può tenerle dietro, ma ne è una fase diversa. Questo ha la sua causa in un male remoto, che dapprima generò l'ira, divenuta poscia odio col trapassare dalla veemenza al calcolo. L'odio non tanto procede dal dolore del male patito, quanto dal piacere che l'anima da lui pervertita ravvisa nella vendetta, alla quale appetisce come ad un bene.
§. 328. Del pari il timore non può assumere il carattere di passione cieca, quando appella ad un male remoto. Ciò che è lontano, o come precedente o come susseguente, dal momento della determinazione, non può esercitare sulla medesima un impulso che paralizzi l'ufficio della ragione, e trascini la volontà.
§. 329. L'amore, l'amicizia, la gelosia, ed altre passioni non hanno un criterio speciale. Esse possono scusare, non per sè stesse, ma in quanto siano cause d'ira o di timore, ed assumere la forma di giusto dolore.
§. 330. La maggiore o minore gravità del male o patito o temuto, che concitò la passione: la giustizia maggiore o minore della causa che la destò: il maggiore o minore intervallo, od ostacoli intercedenti fra tale eccitamento e l'azione: sono le norme sulle quali si gradua la minorante dell'impeto degli affetti.
§. 331. Ma quando la passione, anche eccitata dall'aspetto di un male o patito o da patirsi, non ha i due caratteri di essere improvvisa e di essere, almeno apparentemente (1), giusta, non se le può attribuire veruna efficacia escusante. Potrà talvolta far discendere il dolo al secondo grado, od al terzo a forma delle circostanze: ma non mai degradarlo sino al quarto.

(1) Dico almeno apparentemente; e questa formula è in pratica feconda dei più importanti risultati. è costante il principio che all'uomo non può farsi debito degli errori dell'intelletto, tranne (nei congrui casi) in ragione di colpa. Ma quando l'errore ha indotto nell'uomo la coscienza di non delinquere, o di delinquer meno, il suo dolo si deve giudicare secondo lo stato del suo intelletto, e non secondo la verità delle cose da lui ignorate. Ciò porla alla regola che cosi nella coazione, come nella provocazione e nel giusto dolore, non debba cercarsi la giustizia dell'ira, o del timore, nella verità delle cose quale si è palesata alle fredde investigazioni del giudice: ma nella ragionevole opinione del giudicabile. Se a modo d'esempio alcuno bastonò un uomo che egli trovò notturnamente in sua casa perchè lo credette un drudo della propria moglie, ed era invece l'amante della fantesca, in rei veritate il suo dolore e il suo sdegno furono ingiusti. Ma pure sarebbe ingiusto negargli la scusa, quando egli ebbe causa ragionevole di illudersi nella sua falsa credulità. Non si dimentichi mai che l'essenzialità dell'errore può essere assoluta e relativa (§. 201); e che quando è relativa deve operare nel senso relativo quegli effetti, che opera nel senso assoluto quando è assoluta.

Ebrietà.
§. 332. L'ubriachezza presenta un aspetto proteiforme, secondochè si considera o nelle sue cause, o nei suoi effetti; e secondochè in questi si considerano i rapporti fisiologici, od i psicologici.
§. 333. La sua prima azione si esercita sugli organi corporei, ed offre risultati tutti materiali. Ma presto procede ad influire sulla volontà, e precipitandone le determinazioni le rende meno libere: e talora finisce coll'agire sull'intelletto, per guisa da estinguerne momentaneamente tutte le potenze.
§. 334. Di qui nasce il vario modo di vedere dei criminalisti (1) nel giudicare di questa condizione innormale dell'uomo; nel valutarla come minorante l'imputazione; e nello attribuirle la vera sua sede nell'ordine delle materie. Ma poichè l'ultimo grado di azione della ubriachezza sull'intelletto è raro ed eccezionale; e la sua influenza sulla facoltà volitiva è costante: così a buon diritto si collocò tra le cause che modificano la volontà dell'agente.

(1) Decisamente avverse ad ammettere l'ebrietà come scusa furono le scuole inglesi e francesi fin quasi ai dì nostri. Blackston esaurì ogni argomento per respingerne l'ammissione. In Francia un'ordinanza di Francesco I del 31 agosto 1536, riferita da Jolisse (Justice criminelle vol. 2 pag. 615), prescriveva si applicasse la pena ordinaria, e più un aumento di pena per l'ubriachezza. Onde su tali tradizioni si conservò in quel reame l'avversione a cotesta scusa. E fu gran mercè se Vouglans (lois crimin., liv. 4, Ut. 3, eh. 2, §. 4) ammise la distinzione fra ivresse e ivrognerie: distinzione che risale a Cicerone, che fu applicata dal Bartolo, ed erroneamente attribuita all'Antonmatteo. In Germania prevalse l'opinione favorevole alla scusa, come rilevasi dalla dissertazione del Mittermaier sulla imputabilità degli ubriachi. Nel Belgio si ammise malgrado gli espressi divieti di Carlo V; e poi sostenne la scusa l'Haus Observations sur le projet de code penal, vol. I pag. 210. In Italia, malgrado la dissidenza di Baldo, prevalse, per la dottrina di Farinaccio e Claro, l'opinione più mite. Nella Francia moderna la sostennero Dufour nella Themis - Bavoux pag. 567 - ma con mano avara e con le distinzioni che ricorda Chauveau theorie du code penal §. 862. Poi si accettò in più larga base, correndo sulle orme calorose di Rossi, da Bertauld leçons de droit penal pag. 320 - Ortolan elements de droit penal §. 320 - e generalmente dai recentissimi. Sovra tutti l'ammissibilità di questa scusa si dimostrò lucidamente dal Carmignani teoria delle leggi sulla sicurezza sociale. Un quadro delle antiche leggi e costumanze in questo argomento trovasi nella erudita, dissertazione di Neyremand repression de l'ivresse (Revue critique loi. 43 pag. 515). Nelle leggi romane si trovò un argomento per la efficacia dirimente dell'ebrietà nella leg. 5 §. 2 ff. ad leg. aquil.; e per la sua efficacia minorante nelle leggi 7 ff. ad leg. aquil., e 11 ff. de poenis.

§. 335. I principii fondamentali sulla nozione del delitto necessitano ad ammettere questa circostanza come scusa. Se il delitto per la sua essenza esige la forza morale; se questa desume la sua vita dalla volontà illuminata; se la minorazione della forza morale nel delitto porta di giustizia ad una minorazione di imputazione; tuttavolta debbasi convenire che l'ebbrezza esercitò un impero sulla volontà, è necessità logica accordarle un efficacia scusante; e più ancora se giunse a perturbare l'intelletto.
§. 336. Non può dunque il criminalista guardare con la rigidità del moralista l'ubriachezza nella sua causa. Male si pone come principio assoluto che l'ubriachezza sia nel suo principio viziosa, mentre risulta da una serie di atti, ciascuno dei quali è innocente. Ma quando anche lo fosse, ciononostante sarebbe ingiustizia equiparare nell'imputazione il delitto dell'ubriaco al delitto del sano, quando il delitto di quello ha incontrastabilmente un grado minore di forza morale.
§. 337. Ma gli effetti della ubriachezza sulla volontà essendo sempre proporzionali ai suoi effetti sull'organismo corporeo, il criterio della graduazione di questa scusa bisogna, per essere esatti, desumerlo dalle sue condizioni fisiologiche.
§. 338. Esattissima è la distinzione suggerita dall'esimio sig. prof. Puccinotti (Lez. 23) in ebbrezza giuliva, ebbrezza furibonda, ebbrezza letargica.
§. 339. L'ebbrezza giuliva, o mera esilarazione, esercita una spinta sulla volontà cui rende più precipitosa ed irreflessiva: equiparata all'impeto degli affetti, può minorare la imputazione, ma non mai cancellarla.
§. 340. L'ebbrezza furibonda esercita la sua azione sull'intelletto cui offusca per guisa da togliere temporaneamente la facoltà di percepire e di giudicare rettamente: equiparata alla manìa con delirio, può cancellare affatto la imputazione. Imputare chi non ebbe coscienza dei propri atti sarebbe un soggettare alla legge penale la sola materia. Nè varrebbe l'opporre che l'uomo si fosse condotto di proprio arbitrio a questo stato di transitoria alienazione mentale, volontariamente ubriacandosi. Se alcuno per crapule e dibosci si fosse ridotto ad una vera ed insanabile pazzìa, soggettereste voi alla coercizione della legge penale i fatti di cotesto infelice, per la speciosa ragione che egli fu causa della sua miserabile condizione! L'ebbrezza quando è giunta a cotesto grado potrà dirsi che è transitoria, ma è un vero stato di alienazione mentale.
§. 341. L'ebbrezza letargica paralizza e le forze dell'animo, e le forze del corpo: equiparata al sonno, deve anche questa esimere da ogni responsabilità. Imputare l'uomo divenuto automa non è tollerabile dalla giustizia.
§. 342. Se l'ebbrezza fu procacciata volontariamente, o per riprovevole imprudenza, potranno aversi in ciò gli elementi della colpa, ma non far sorgere il dolo dove non intervenne volontà intelligente. Tale è l'ultimo pronunciato della dottrina. E con queste idee si coordinò il Codice penale di Parma art. 62, di Napoli art. 61, di Toscana art. 34, e 64: e più esplicitamente l'austriaco.
§. 343. Se l'ebbrezza sarà preordinata al delitto, o come dicesi, affettata, il colpevole potrà bene punirsi per ciò che fece in stato di sana mente, quando con lucida previsione e ferma volontà rendette se stesso futuro strumento del delitto a cui egli intendeva. L'imputazione si radica contro di lui in tale istante: ciò che avviene dipoi è conseguenza del suo fatto doloso: non si imputa ciò che fece l'ubriaco, ma ciò che fece l'uomo in sana mente; al quale come ad unica causa è attribuibile il delitto. L'uomo sano è il soggetto attivo primario del delitto, ed è in condizione di piena imputabilità. L'uomo ubriaco ne è il soggetto attivo secondario (§. 40); strumento materiale dell'impulso ricevuto, come l'invito.
§. 344. Nè varrebbe l'opporre (come dubitarono acutamente Tissot e Bertauld) che in questo caso il dolo non sia concomitante all'azione. La concomitanza del dolo all'azione (1) non è condizione assoluta dell'imputabilità (2).

(1) Trovo che questa confutazione del dubbio si è data in simili termini anche da Ortolan §. 321, e da Bernard Revue critique vol. 20, pag. 464.

(2) Alla teoria del grado in ordine alla volontà aggiungono i criminalisti la questione dell'abitudine, lotta ad imprestito dai moralisti, e sulla quale può vedersi Carmignani I §. 218. Altri eleva qui pure la questione sulla scusa desunta dalla facile occasione di delinquere; trattata elegantemente dal Puttmann diss. an, et quando, occasio delinquendi delictum minuat.

CAPITOLO IX
Del grado nella forza fisica del delitto (1).

(1) Per il maggiore sviluppo della teoria del conato e della complicità, sì vedano le lezioni da me pubblicale su questo argomento.

§. 345. Ogni delitto suppone un'azione esterna. Le azioni esterne si compongono di diversi momenti fisici, come le interne di diversi momenti morali.
§. 346. Questi momenti fisici possono essere incompleti soggettivamente e oggettivamente nel tempo stesso, perchè alcuno di loro non abbia avuto il suo corso, e così non siasi raggiunto il fine dal colpevole agognato: e possono essere completi soggettivamente, ma incompleti oggettivamente, perchè malgrado l'esaurimento di tutti i momenti fisici dell'azione, il diritto che l'agente attaccava non sia stato violato.
§. 347. In tali casi il delitto presenta una degradazione nella forza fisica; perchè o non è perfetta neppur l'azione: o non è perfetta l'offesa alla legge. E in questi casi si configura un delitto imperfetto.
§. 348. Quando i momenti fisici dell'azione sono completi così soggettivamente come oggettivamente, la degradazione della forza fisica del delitto può sempre sorgere; ma non più per ragione di imperfezione; bensì per ragione di divisione. Ciò avviene quando più persone abbiano partecipato al delitto, ma non a tutte coteste persone, siano o in parte, o in tutto, attribuibili i momenti fisici del delitto stesso. In tali casi, sorge la nozione della complicità.
Articolo I.
Del delitto imperfetto
(1).

(1) Gli antichi scrittori (p. e. il Kemmerick) ebbero del delitto imperfetto un'idea più larga. Dissero che il delitto poteva essere imperfetto tanto ratione proaeresis, quanto ratione executionis. Imperfetto nell'elemento intenzionale dissero il delitto dell'infante, dell'ebro, dell'irato, ed anche il colposo. Oggi ha prevalso di specializzare l'imperfezione del delitto nella considerazione della sua materialità. Guardato il delitto come ente giuridico era forse più esatta la locuzione antica.

§. 349. Il delitto è perfetto quando è consumata la violazione del diritto tutelato dalla legge penale. E imperfetto quando tale violazione non è avvenuta, sebbene il colpevole avesse, con volontà diretta a cotesto fine, dato opera ad atti esterni abili a procacciarla.
§. 350. Un delitto può restare imperfetto, o quando sia rimasta imperfetta l'azione, perchè interrotto il corso dei suoi momenti fisici: o quando, sebbene sia perfetta l'azione in tutti i momenti che erano necessarii a raggiungere il pravo fine, non è però conseguito l'effetto cui tendeva l'agente, a causa di un fortunato ed imprevisto impedimento. Nel primo caso si ha il conato; nel secondo può aversi in certe condizioni il delitto mancato.
§. 351. I delitti imperfetti non posson dunque per natura loro presentare l'elemento del danno immediato.
§. 352. Ciò non pertanto sono politicamente imputabili; perchè mentre sorge anche da loro evidente il danno mediato; le funzioni del danno immediato, che in loro manca, le fa il pericolo corso dalla società, o dal cittadino attaccato. E dicesi pericolo corso, per distinguerlo da un pericolo di mera previsione: dal quale non emerge ragione legittima di imputazione.
§. 353. Ma se la ragione di imputare il delitto imperfetto sta nel pericolo, che fa le veci del danno, egli è intuitivo che, appo la legge umana prevalendo la considerazione esterna all'interna, un delitto imperfetto non potrà mai imputarsi alla pari del delitto perfetto: appunto perchè un pericolo corso, per quanto grave, non potrà mai equivalere ad un danno patito.
§. 354. A questo motivo primario si aggiunge eziandio la considerazione che nel delitto imperfetto è sempre proporzionalmente minore il danno mediato, sì nel rapporto dello spavento dei buoni, sì nel rapporto dell'incitamento ai malvagi.
§. 355. E si aggiunge altresì un riguardo politico: poichè esaurendo sul delitto imperfetto tutta l'imputazione che si darebbe al delitto perfetto, resterebbero necessariamente senza imputazione gli atti che si fossero o continuati o ripetuti dal colpevole, per condurre il delitto, rimasto senza effetto, alla sua perfezione.
I. Del conato.
§. 356. Definisco il conato (tentativo, attentato) Qualunque atto esterno, univocamente conducente di sua natura ad un evento criminoso, ed al medesimo diretto dall'agente con esplicita volontà, non susseguito dall'evento stesso, nè dalla lesione di un diritto o poziore od equivalente a quello che si voleva violare. - L'analisi di questa definizione ci fa conoscere quando si abbia il conato, e quando non se ne abbiano che le apparenze.
§. 357. - Qualunque atto esterno - Il conato deve essere un principio di esecuzione del delitto; ma l'esecuzione delittuosa non può neppure incoarsi senza un atto esterno della classe di quelli che per la natura del fatto rappresentano un momento fisico dell'azione criminosa. I desiderii, i pensieri, le deliberazioni, anche manifestate, o confidenzialmente, o per via di minacce, o di accordi, o di istigazioni, non sono conati. Non possono esserto per la duplice ragione
- 1.° che non rendono sempre certa l'intenzione di eseguire
- 2.° che data ancora tale intenzione, non sono in loro stessi un principio di esecuzione del delitto pensato, deliberato, minacciato, istigato, od anche concordato (1).

(1) Non concordo col sig. De Zuniga (Practica judicial, Madrid 4861, vol. 2, pag. 432, nota 1) che l'accordo criminoso nei delitti che non pertengono alla classe dei sociali diretti (nei quali l'accordo criminoso assumendo il titolo di congiura è delitto consumato di per sè stante) possa, come afferma quosto insigne scrittore, considerarsi come un vero tentativo. Convengo però con lui che l'accordo e la istigazione a delinquere debbano, quando tendono a delitti gravi, imputarsi e reprimersi; ma come fatti criminosi distinti e completi in loro medesimi. E penso pure col prelodato scrittore, che l'accordo e la istigazione non meritino repressione speciale quando avvennero in uno slancio subitaneo di collera. Verità di assoluta giustizia, che fu disconosciuta dal Codice toscano; il quale col punire indistintamente qualsiasi istigazione a delinquere (art. 54) parificò l'istigazione seriamente emessa col più maturo proposito, alla istigazione inconsideratamente eccitata dall'erompere di uno sdegno improvviso.

§. 358. - Univocamente conducente al delitto - L'univocità della loro direzione al delitto è il primo carattere indispensabile a ricercarsi negli atti esterni che si vogliono imputare come conati. Finchè l'atto esterno sarà tale da poter condurre tanto al delitto, quanto ad azione innocente, non avremo che un atto preparatorio, il quale non può imputarsi come conato.
§. 359. - Conducente di sua natura ad un evento criminoso - L'idoneità, o attitudine di condurre al fine malvagio, è il secondo carattere indispensabile all'atto esterno, nel quale voglia ravvisarsi l'elemento fisico del tentativo.
§. 360. Gli atti inidonei non possono dunque imputarsi al preteso attentante. Se l'inidoneità fu nei primi momenti dell'azione, cessa ogni imputazione loro come conati; perchè essi tutti mancarono di pericolo. Se fu nei successivi, resta l'imputazione degli antecedenti, quando ne siano suscettibili.
§. 361. - Di sua natura - Nella ricerca della idoneità si devono guardare soltanto le condizioni degli atti nei quali si cerca il conato. Non è dunque necessario che la loro inidoneità sia precognita all'agente. Esigere ciò sarebbe un ridicolo controsenso.
§. 362. Ma coteste condizioni degli atti devono esser guardate tanto in loro stesse, quanto nei loro rapporti col soggetto passivo del delitto. Perciò l'inidoneità, finchè siamo nei termini di mero conato, deve essere tanto obiettiva o concreta; cioè negli atti guardati nel loro rapporto col fine speciale cui gli indirizzava l'agente; quanto subiettiva, o astratta; cioè negli atti astrattamente guardati.
§. 363. - Ad un evento criminoso - Il delitto è un ente giuridico. Dunque coteste condizioni degli atti esterni devono anche guardarsi nei loro rapporti giuridici. E così la inidoneità può derivare ancora da certe relazioni esistenti fra gli atti esterni e il soggetto passivo del delitto; le quali abbiano formato un ostacolo legale, che rese impossibile fino dal suo principio la creazione, in quel dato ordine o forma di fatti, dell'ente giuridico che si dice delitto. L'inesistenza del soggetto passivo contro il quale si dirigeva l'azione può nei congrui casi equivalere alla inidoneità.
§. 364. Ma in generale in proposito di inidoneità deve distinguersi tra il soggetto passivo dell'attentato, e il soggetto passivo della consumazione. Perchè se l'inidoneità, da qualsivoglia causa nascente, esisterà fino nel primordio dell'azione criminosa, e così nei rapporti degli atti col soggetto passivo dell'attentato, si avrà la totale cessazione del conato. Se invece esisterà solo nei rapporti col soggetto passivo della consumazione, potrà talvolta cessare la imputazione degli ultimi atti, e rimanere quella dei primi. è soggetto passivo della consumazione la cosa o persona su cui doveva aver luogo l'atto consumativo del malefizio. Tutte le altre cose o persone, sulle quali per la naturad el fatto avvenga che il colpevole debba esercitare certi atti come mezzo per giungere poscia ad eseguire altri atti sul soggetto passivo della consumazione, sono soggetto passivo dell'attentato. P. e. chi voleva rubare le gioie atterrò l'uscio della stanza. L'uscio è il soggetto passivo dell'attentato: soggetto passivo della consumazione sono le gioie. Onde se l'inidoneità era nell'istrumento col quale volevasi sforzare l'uscio, sparisce ogni attentato politicamente imputabile. Se gli atti furono idonei a questa prima operazione, e l'uscio fu difatto atterrato: ma furono invece inidonei gli atti preordinati dal ladro ad impossessarsi delle gioie; cesserà l'imputabilità di questi ultimi atti per ragione di inidoneità; ma rimarrà l'imputazione dei primi.
§. 365. In tutti questi casi il conato cessa per ragione di difetto nel suo elemento fisico.
§. 366. - Al medesimo diretto dall'agente -. La potenza negli atti eseguiti a procacciare l'infrazione della legge, non potrebbe bastare perchè si tenesse responsabile di conato l'autore di tali atti, se cotesta potenza egli non conobbe; e se non gli eseguì con intenzione diretta precisamente a cotesto fine. La colpa ha la sua essenza morale nella mancata previsione dell'effetto procurato con la propria azione. Il conato ha la sua essenza morale nella previsione di un effetto non ottenuto, e nella volontà di ottenerlo. Dunque fra la colpa e il conato vi è repugnanza in termini. Immaginare un attentato colposo è lo stesso che sognare un mostro logico. Eppure di questo mostro logico si volle da taluno (1) insinuare la giuridica possibilità!

(1) Wissinger Diss. quae sint differentiae inter facili dolosa, et culposa pag. 88 cap. 4 sect. 2 et sect. 4 - Lelievre De poenarum delictis adequandarum ratione pag. 9, 40 - ove a persuadere che devono punirsi anche i fatti colposi che non hanno recato danno, e cosi punirsi come tentato omicidio colposo il getto di un sasso dalla finestra, benchè non abbia offeso nessuno, poi lasi la peregrina ragione che il pubblico può credere che quell'atto imprudente ed innocuo, fosse fatto con animo di nuocere, e quindi dubitare della propria sicurezza !!

§. 367. - Con esplicita volontà - Onde affermare che certi atti erano dall'agente preordinati ad ottenere un effetto diverso da quello che ne è risultato, non basta essere in grado di ritenere che cotesto risultato non ottenuto fosse un effetto che facilmente potevasi dagli atti stessi produrre, e con facilità prevedere. Bisogna esser certi di più che l'agente, non solo potè prevedere, o vagamente previde l'effetto; ma bisogna esser certi che egli voleva precisamente procacciare cotesto effetto non ottenuto, anzichè l'effetto che ottenne. Per esempio, bisogna esser certi che voleva uccidere, e non soltanto ferire, quando di fatto ferì e non uccise. A cotesta esplicita volontà fermamente diretta a conseguire un fine determinato, non può sostituirsi una vaga previsione, una incertezza in cui oscilli l'agente circa l'effetto che produrrà: non basta, in una parola, la situazione del dolo indeterminato. Se avventò i suoi colpi indeterminatamente, come all'azzardo, incerto se avrebbe ferito od ucciso; non è responsabile che del solo risultato che produsse. E se questo fu un ferimento, non può addebitarsi di tentato omicidio, perchè ad aver cotesto titolo, per cui l'affetto prevalga sull'effetto, bisogna che l'affetto fosse positivamente contrario ed esuberante all'effetto ottenuto.
§. 368. Da questa verità che tutti i criminalisti riconoscono, sul fondamento della regola inconcussa, che in qualunque dubbio si deve supporre nell'agente l'intenzione più mite e meno malvagia, ne consegue il principio, che ai fatti commessi per istantaneo impeto di affetti non può adattarsi la nozione del conato. Codesta intenzione positivamente diretta alla morte bisogna che in colui, cui vuole apporsi il tentativo d'omicidio, risulti da circostanze che manifestino essersi all'intelletto dell'agente presentata esplicita l'idea dell'omicidio, ed averla esso preferita all'idea del solo ferimento. Nel fatto dell'uomo acceso dall'ira la potenza ad uccidere che ricorra nei mezzi adibiti non è criterio che valga, a menochè quei mezzi adibiti si riferissero esclusivamente alla morte, o almeno che la morte fosse la conseguenza ordinaria, e quasi necessaria dei medesimi; ed abbiasi ragione di credere che per codesta loro condizione micidiale si eleggessero dall'agente. Ora codesti termini non si adattano all'uso di un'arma, o da taglio o da fuoco. E coloro che corrono precipitosi a dire nell'arma adoperata vi era l'attitudine ad uccidere; dunque nel feritore vi era l'intenzione di uccidere; non fanno un buon sillogismo. Il loro ragionamento è vizioso per tre cagioni.
1.° Perchè dai mezzi usati argomentando al fine voluto, suppone un calcolo in chi non agì per calcolo, ma per subitanea perturbazione. E così confonde la prova dell'elemento materiale del tentativo colla prova dell'elemento intenzionale. Anzi rinnega, contro i principii fondamentali, il bisogno di questo elemento; e viene a creare il tentativo nella soia attitudine dei mezzi adoperati.
2.° Perchè dimentica quella verità sentita da tutti, che l'uomo irato dà di piglio al primo stromento che gli cade sotto la mano, senza riflettere se il suo effetto sarà o no micidiale.
3.° Perchè dimentica la verità sperimentale che ammaestra come anche nell'uso d'armi o da taglio o da fuoco il risultato più frequente e ordinario sia il ferimento: il più infrequente l'omicidio. Questa verità è dimostrata dalle statistiche degli spedali, dalle statistiche dei processi criminali. E da ciò si rende palpabile il sofisma dell'argomento che riducesi a questi termini - Cajo ha usato uno strumento che in dieci casi cagiona la morte, ma in trenta cagiona soltanto il ferimento: dunque ha voluto la morte e non il ferimento. - Non vi è dialettica che possa velare il vizio di tale argomentazione. Eppure cotesto viziosissimo argomento è quello che si ripete tutte le volte in cui si precipita dalla prova dell'attitudine alla prova della intenzione, senza cercare a questo distinto elemento una distinta costruzione. Del rimanente la regola che nei delitti commessi sotto l'impeto d'istantanea collera non può aversi la nozione del tentativo, regola ammessa dal Romagnosi, sostenuta da Nani, da Carmignani, da Lauria, da Giuliani, da Puccioni, e da altri molti, si è di nuovo nitidamente insegnata dall'Haus (Cours de droit criminel, Gand. 1861, 1, 79-80): che pone come assoluto il broccardo - dolus indeterminatus determinatur eventu.
§. 369. In questi ultimi due casi di intenzione indiretta, e imperfetta, il conato sparisce per difetto nel suo elemento morale.
§. 370. - Non susseguito dall'evento stesso - Altrimenti il delitto sarebbe perfezionato dall'evento; e il conato sparirebbe per eccesso.
§. 371. I delitti che perficiuntur unico actu; i delitti di parola; non ammettendo frazionamento nei loro momenti fisici, non possono offrire i termini di conato.
§. 372. - Nè dalla lesione di un diritto o poziore o equivalente a quello che si voleva violare - Il delinquente potè spesse volte dirigere la sua azione ad un fine ulteriore, che da lui non si conseguì. Ma non sempre gli è dato per questo, ove pure dimostri esser così rimasto deluso il suo intendimento, di invocare la scusa del tentativo.
§. 373. Quando l'azione da lui posta in essere ha consumato l'offesa di un diritto universale, od anche di un diritto particolare, ma uguale o poziore di quello che si voleva ledere dal reo; si ha un delitto perfetto nella sua obiettività ideale: e sebbene non abbia il colpevole raggiunto l'obiettività materiale del suo disegno, non può parlarsi di tentativo.
§. 374. Ciò accade in quasi tutti i delitti che appartengono alla classe dei delitti sociali: o sia politici, o diretti o indiretti. Così la congiura; la perduellione; l'oltraggio alla morale o alla religione; lo spargimento di empii dommi; la calunnia; la falsa testimonianza; il favoreggiamento; la violenza pubblica; la resistenza; la corruzione; la falsità strumentale, o nummaria; non sono tentativi quando siano in sè stessi completi. Non sono tentativi, quantunque i loro autori non abbiano respettivamente ottenuto l'ultimo, fine al quale unicamente diligevano il loro maleficio. Non hanno rovesciato il governo; non corrotto la pubblica morale; non pervertite le altrui credenze; non hanno fatto condannare l'innocente, o assolvere il colpevole; non procacciata l'impunità del reo favorito; non obbligato l'autorità a chinar la fronte alle loro esigenze; non costretto la forza pubblica a desistere dalle sue operazioni; non procacciato una sentenza ingiusta; non hanno lucrato sulla falsa moneta. Niente in una parola di ciò che quei diversi delinquenti volevano ottenere, fu conseguito da loro. Ma pure il loro delitto è perfetto: perchè l'effettività del danno universale consiste nella violazione del diritto astratto che ha ciascun cittadino a vedere rispettate l'autorità, la religione, la morale pubblica, la giustizia, la pubblica forza, la pubblica fede. E questa effettività nel danno recato al diritto astratto universale basta a far sì, che la semplice potenzialità della violazione del diritto concreto costituisca perfetta l'offesa alla legge (§. 112).
§. 375. Ma questa potenzialità deve esservi; altrimenti repugnerebbe che atti inconcludenti e puerili configurassero una perfetta offesa alla legge. I fatti che non hanno potenza nessuna di violare effettivamente mai il diritto concreto, non possono offendere il diritto astratto. Chi oserebbe punire colui che avesse coniato una moneta di legno, o che fosse venuto in giustizia ad accusarmi di aver rubato il campanile del duomo!
§. 376. Deve però avvertirsi che sebbene tali delitti non siano tentativi, ammettono però la nozione del tentativo rapporto a loro stessi.
§. 377. Ma questo effetto della prevalenza del mezzo sul fine, causativa della perfezione del delitto anche quando il colpevole non abbia raggiunto il suo intento, si verifica anche nei delitti di mero danno immediato particolare, tutte le volte che col mezzo si viola un diritto o equivalente o poziore a quello, la cui violazione volevasi come fine.
§. 378. Così nel rapimento di donna a fine di libidine si ha ratto consumato, benchè la libidine non siasi sfogata. Così nella violenza privata, e nello scopelismo, si ha il delitto perfetto, benchè l'uomo che si voleva intimorire non abbia poscia aderito alle voglie del violentatore o del minacciante: così nel latrocinio si ha delitto perfetto, quantunque il malvagio dopo ucciso l'uomo non abbia potuto consumare il furto: e così in altri casi.
§. 379. Così nel furto stesso, sebbene il ladro sorpreso con la roba in dosso mentre scendeva le mie scale, non abbia niente lucrato, il furto è consumato; perchè l'identico diritto di proprietà che si voleva violare dal ladro collo spogliarmi della cosa rubata, si è già da lui completamente violato col prender la roba.
§. 380. In tutti questi casi vi è sempre cessazione di conato per ragione di eccesso; perchè cioè, gli atti compititi presentando una violazione che uguaglia o soverchia quella che si sarebbe prodotta dall'evento voluto, o dagli atti ulteriori, l'azione eccede la nozione del mero attentato.
§. 381. La degradazione della imputazione del tentativo procede sempre con un rapporto proporzionale all'imputazione che sarebbesì data al delitto se fosse stato perfetto.
§. 382. Ma nello imputare il conato deve ancora aversi riguardo alla qualità, e alla quantità del conato stesso, servendoci della nomenclatuia del Carmignani; alla quale noi per maggiore esattezza vorremmo sostituire le formule di quantità morale, e di quantità fisica.
§. 383. La qualità (ossia la sua quantità morale) nel conato si desume dalla sua forza morale. E questa cresce o decresce secondo le cause che impedirono la consumazione.
§. 384. Tali cause possono essere o volontarie, o casuali.
§. 385. Sono volontarie quelle che ebbero la loro genesi in un cambiamento tutto ultroneo di volontà nell'agente. è il caso del vero pentimento; è la desistenza dal fine, ben diversa dalla mera desistenza dai mezzi.
§. 386. Le cause casuali sono quelle provenienti da circostanze, che sospesero l'esecuzione del reato contro la volontà dell'agente.
§. 387. Queste possono essere o fisiche, o morali. Le cause che altri disse legali non degradano il conato. Ne distruggono l'essenza; ed è repugnante il dire che ciò che distrugge un essere attribuisca una qualità all'essere stesso.
§. 388. Le cause fisiche sono quelle che con un'azione materiale impedirono la consumazione: sia che abbiano agito sul soggetto attivo primario, come so alcuno arrestò il braccio del feritore: sia che abbiano agito sul soggetto attivo secondario; come se la falsa chiave si ruppe nella serratura che dovea rendere aperta: sia che abbiano proceduto dal soggetto passivo o dell'attentato, o della consumazione. Tostochè l'impedimento o l'ostacolo ha agito materialmente, dicesi il delitto essere rimasto imperfetto per causa fisica.
§. 389. Le cause morali sono quelle che agirono sulla volontà del colpevole; e lo costrinsero a desistere. Naturalmente anche tali cause devono consistere in una materialità: ma questa ha esercitato un'influenza non materiale ma puramente morale sul fatto. Così se un accorso acclama contro il feritore, e il feritore desiste; tale acclamazione è un fatto materiale, ma la sua influenza fu puramente morale; perchè malgrado le grida poteva bene colui continuare a ferire: e se desistè, e così non avvenne l'omicidio, fu perchè quelle grida eccitarono nell'animo del feritore una trepidazione, che lo spinse a cessare le offese; quantunque il suo braccio potesse ancora continuarle.
§. 390, La qualità del conato, desunta così dalla diversità delle cause che impedirono la consumazione, influisce sulla imputazione del conato stesso in questo senso: che tanto più si degrada l'imputazione dalla misura che avrebbe avuto se il delitto fosse stato perfetto, quanto più nello impedimento della sua perfezione ebbe parte la volontà dell'agente.
§. 391. La degradazione desunta da cotesto criterio giunge fino ad annientare l'imputazione del tentativo (1), se la desistenza dall'azione fu esclusivamente attribuibile alla volontà del suo autore; purchè avvenisse ad un momento in cui non era stato ancora violato nessun diritto. E evidente che la causa che impedì la consumazione fu volontaria nel senso testè (§. 385) definito. Qui il danno mediato sparisce affatto; perchè i buoni certamente nulla hanno a temere da cotesto fatto, il quale ove cento volte si ripetesse non potrebbe mai turbare di un atomo l'ordine esterno: e sarebbe puerile il supporre che ne potessero trarre argomento di audacia i malvagi.

(1) Concord. leg. 49 ff. ad leg. Cornel, De falsis - Suffragio justae poenitentiae absolvuntur - leg. 4 Cod. de crim, stellion - Strykio De jure sensuum diss. 40, n. 27, et seqq.

§. 392. La quantità del conato (ossia la sua quantità fisica), che è il secondo criterio della sua misura, si desume dalla sua forza fisica. E cresce o decresce secondochè il momento al quale si arrestò l'azione era più o meno prossimo all'ultimo atto consumativo.
§. 393. In questo criterio fondasi la distinzione tra conato prossimo e conato remoto. Il conato incomincia quando gli atti acquistano univocità verso il delitto. Finchè sono equivoci non sono che atti preparatorii, e non costituiscono attentato politicamente imputabile. Quando acquistano univocità (sono cioè indubitatamente diretti al delitto) assumono il carattere di atti di esecuzione.
§. 394. Ma finchè gli atti di esecuzione si svolgono sul mero soggetto attivo secondario, o sul soggetto passivo del conato (nei casi in cui vi ha luogo), non sono che tutto al più tentativi remoti.
§. 395. Quando l'azione comincia ad esercitarsi alla presenza dell'uomo o della cosa che sono destinati ad essere soggetto passivo della consumazione, il tentativo diventa prossimo.
§. 396. Il tentativo remoto o non è imputabile, o lo è assai lievemente in confronto del prossimo. La prossimità cresce come più gli atti si avvicinano alla consumazione; e cresce, non in ragione diretta del numero degli atti eseguiti, ma in ragione inversa del numero degli atti che rimanevano a farsi per giungere ad esaurire la consumazione.
§. 397. Sono queste le regole con le quali il conato si distingue dai delitti perfetti, e dagli atti politicamente innocenti. E così si gradua la imputazione del conato sulla ragione composta della sua qualità, e della sua quantità: o come preferirei dire, della sua quantità morale, e della sua quantità fisica.
§. 398. Ma tutta questa nomenclatura bisogna intenderla nel senso in che noi l'usiamo; altrimenti le regole sarebbero fallaci. Per noi l'esecuzione del delitto esprime una serie di momenti che sono distinti da quelli della preparazione, e da quelli della consumazione. Avverto ciò perchè la parola esecuzione varia di significato non solo nel linguaggio volgare, ma anche nel linguaggio legislativo.
1. Varia nel linguaggio volgare, nel quale spesso si confonde la prima esecuzione del disegno pravo, con la esecuzione del delitto. Quando un uomo deciso ad uccidere carica l'arma, il volgo dirà che comincia ad eseguire. Sì. Egli comincia ad eseguire il suo disegno: ma il delitto come ente giuridico non incomincia che quando incomincia univocamente il rapporto di contradizione fra gli atti e il diritto attaccato. Per il giurista quelli atti non sono di esecuzione, ma di preparazione.
2. Varia nel linguaggio legislativo. Perchè alcuni codici (p. e. quello di Francia) usano la parola esecuzione a significare la consumazione. E così lasciando impunito il conato remoto, non ravvisano tentativo politicamente imputabile, che quando sono incominciati gli atti di consumazione. E per ciò che Rossi, e in generale tutti coloro che si sono ispirati alla definizione del Codice francese, vi dicono che il ladro finchè rompe l'uscio, e si introduce nella casa non ha anche cominciata l'esecuzione: e che la comincia solo quando egli porta la mano sulla cosa che vuol rubare. Così dicono che l'omicida incomincia l'esecuzione allora soltanto quando appressato alla vittima inprende a darle colpi nella persona. Così altri sostengono che colui il quale imposta un'arme da fuoco contro il nemico, carica e a cane alzato, con animo di esploderla e uccidere, se vien fermato il suo braccio, non è reo di tentativo: onde per punir questo fatto ricorrono al concetto della minaccia: concetto evidentemente falso, perchè l'essenza della minaccia sta nell'animo di atterrire, del tutto alieno da chi ha invece l'animo di uccidere. è evidente che questa dottrina è tutta figlia di una varietà di linguaggio; e precisamente del diverso senso che si è dato alla parola esecuzione; referendovi il concetto mero di consumazione. Vi è dunque fra noi e loro difformità di linguaggio: la quale conduce in alcuni casi ad una difformità di applicazione di principii. Per noi la preparazione è distinta dall'esecuzione, come l'esecuzione in stretto senso lo è dalla consumazione. La preparazione si sconfina dall'esecuzione, mercè la univocità: quella non è niente: questa è conato remoto. La esecuzione si sconfina dalla consumazione mercè la presenza del soggetto passivo di questa. Gli atti che si svolgono fuori della presenza dell'uomo o della cosa su cui doveva il crimine consumarsi, sono conato remoto: quelli che si svolgono alla presenza del soggetto passivo della consumazione sono non più meri atti esecutivi, ma atti consumativi; e divengono conato prossimo. Il quale diviene delitto perfetto tostochè è consumata la violazione del diritto attaccato. Che se gli atti consumativi sono idoneamente esauriti, ma l'evento reo non segue per cagione di un fortuito imprevisto, il conato compie la sua vita giuridica, e trapassa in delitto mancato.
II Del delitto mancato.
§. 399. Il delitto, dicemmo, può restare imperfetto, così (mando gli atti necessarii ad ottenere il pravo fine non sieno stati tutti eseguiti; come allorchè, malgrado l'esaurimento loro, non sia, per una qualche fortuita combinazione, susseguito l'evento che dal colpevole si agognava. Nel primo caso si incontra il conato: nel secondo il tentativo può trapassare in delitto mancato.
§. 400. Gli antichi criminalisti non conoscevano come una specialità il delitto mancato; e chiamandolo ora conato pretergresso, ora conato perfetto; lo ritenevano come il più prossimo dei tentativi.
§. 401. Modernamente fu avvertito che nel delitto mancato vi era soverchianza di pericolo, e di danno mediato, a paragone dei semplici tentativi. E si fece una nozione distinta di questa specialità; la quale fu accolta nella scienza; e trovò sede in parecchi tra i codici moderni.
§. 402. Il delitto mancato si definisce - L'esecuzione di tutti gli atti necessarii alla consumazione di un delitto, posta in essere con intenzione esplicitamente diretta a cotesto delitto, ma non susseguita dallo effetto voluto per cagioni indipendenti dalla volontà, e dal modo di agire del colpevole -. L'analisi fatta di sopra della definizione del conato semplicizza l'analisi della definizione del delitto mancato: ed è inutile ripetere ciò che si è detto in ordine al suo elemento morale; cioè all'intenzione.
§. 405. Specializza la nozione del delitto mancato quella formula - esecuzione di tutti gli atti necessarii alla consumazione di un delitto. Ciò che costituisce l'essenza materiale del delitto mancato è l'esaurimento di tutti gli atti necessarii al delitto. Finchè l'azione criminosa era in via, poteva il delinquente pentirsi, e pentirsi utilmente. Mi quando tutti gli atti erano compiti, il pentimento (se in quegli atti era l'idoneità) sarebbe stato tardo, ove la provvidenza non avesse, con l'intromissione di un fortuito, salvato la vittima.
§. 404. Questa considerazione porta ad imputare maggiormente il delitto mancato. Ma fu spinta da alcuni sino al punto di desumerne l'uguaglianza della sua imputazione col delitto perfetto. Questo per altro è un errore: perchè vuole giustizia che come il fortuito, che rese più grave l'evento, spesso aggrava la sorte di un giudicabile; così si tenga conto a di lui favore del fortuito, che impedì l'evento a cui egli tendeva. D'altronde il pubblico spavento è sempre minore dove non è a piangersi la vittima del malefizio. Il danno immediato non vi è; e la sua totale assenza non può restare senza peso appo la giustizia. Vuole infine la politica che una differenza nella repressione serva di freno all'autore del delitto mancato, per dissuaderlo dal rinnovamento degli atti criminosi, del quale potrebbe spesso avere occasione.
§. 405. Ma non a caso si dice - tutti gli atti necessarii al delitto - Esiste differenza fra l'avere eseguito tutti gli atti necessarii, e l'avere eseguito tutti gli atti che il delinquente aveva disegnato. Queste due formule talvolta si unificheranno, per mera accidentalità, nel caso concreto. Ma possono anche non unificarsi; ed allora il delitto mancato sparisce se non trova applicazione la prima formula, quantunque la trovi la seconda.
§. 406. Gli atti necessarii a produrre un effetto sono definiti dalle leggi naturali sui rapporti delle cose. L'uomo può scoprire cotesti rapporti, ma non crearli, o distruggerli. E se colla vanità della sua immaginazione si figura di produrre un effetto con atti ai quali la natura loro ha negato cotesta potenza; egli dà opera ad un'azione che è scevra di ogni pericolo, e che per conseguenza non può esser causa di ragionato timore nei cittadini.
§. 407. L'inidoneità degli atti è per conseguenza distruttiva del delitto mancato, a qualunque momento sia intervenuta. Potrà nei congrui casi rimanere un tentativo, se una serie di atti idonei intervenne, che fosse valevole a costituirlo: ma il delitto mancato non vi si può ravvisare, quantunque l'agente abbia esaurito tutta la serie dei momenti che costituivano l'azione da lui disegnata; ed abbia così eseguito anche l'ultimo atto, che nel suo erroneo concetto doveva esaurire la consumazione.
§. 408. Si immagini per esempio che taluno con un archibugio carico a piombo minuto vada in cerca del suo nemico per ucciderlo; e raggiuntolo gli diriga contro l'arma. Abbiamo fino a questo momento un tentativo. Se a costui fosse arrestato il braccio, ei sarebbe responsabile di tentativo prossimo di omicidio. Costui però non fu fermato; ed esplose: ma ignaro dell'uso dell'arme, attese ad esplodere quando il nemico già si era dilungato per dugento e più passi da lui. Ecco, egli ha consumato l'ultimo atto del suo disegno; ma non per questo egli può dirsi colpevole di omicidio mancato, quando siasi certi che con quel piombo, ed a quella distanza, era impossibile per legge fisica uccidere.
§. 409. Quel colpo lanciato al vento è un atto insano, che non può noverarsi nella somma delle azioni pericolose, di cui si chiede conto al loro autore. In quello non fu che un'intenzione prava: l'assenza sì del danno come del pericolo, lo rese spoglio della forza fisica, indispensabile ad ogni atto delittuoso. Tutti gli atti disegnati furono eseguiti; tutti gli atti necessarii nò. Quell'atto ultimo in cui non era potenza di uccidere, non può dirsi atto di consumazione: è un atto consumativi immaginario: nei sogni dell'agente figurò come atto consumativo; ma nella realtà delle cose non lo era, per la perentoria ragione che non poteva consumare l'omicidio: la giustizia penale non colpisce le fantasie nè i desiderii; ma gli atti esterni che furono cagione, o di danno, o di pericolo vero ed effettivo.
§. 410. Se l'inidoneità fu solo nell'ultima atto, che rese vani tutti gli altri; quest'atto è giuridicamente come non esistente; perchè privo della forza fisica delittuosa. Dunque l'azione difetta di uno dei suoi momenti: dunque non vi è delitto mancato.
§. 411. Rimane però il precedente tentativo, che si costituiva di una serie di atti rappresentanti un pericolo. L'inesperienza del colpevole che tardò ad esplodere tinche si fosse allontanata la vittima, tanto da non più poter essere offesa, rappresenta la causa fisica fortuita, che fece restare imperfetto il delitto; ma non può distruggere i fatti precedenti, nè cancellare l'imputazione già incorsa coi medesimi. E la dico causa fisica fortuita, o sia casuale (§. 586) quantunque la tarda esplosione si facesse così per volontà libera dell'agente; perchè la sua volontà non dirigevasi a non uccidere, ma anche in quel momento, ad uccidere: e così fu fortunoso l'errore di giudizio che fece intervenire la causa fisica della aumentata distanza, ad impedire la strage. E' un equivoco il credere che la esplosione pazza e impotente per natura, renda inaccettabile l'idea del tentativo. Questo pensiero nasce dall'osservare die gli atti non sono stati interrotti. Si dice che a colui che esplose non restava niente a fare, e quindi si afferma che nella sua azione non può più essere tentativo. Ma non si riflette con ciò che l'atto ultimo fatto inutilmente è come non fatto: è giuridicamente nullo. Onde il tentativo resta pei fatti precedenti se in loro ne avevano i caratteri. Non è vero che a costui non restasse niente a fare: sì, gli restava ad esplodere l'arma in modo da colpire, e questo non fece. E la ragione di non aver ciò fatto opera il duplice effetto giuridico, di lasciar sussistente nella somma degli atti eseguiti la figura del tentativo; e di escludere dalla somma di tutti quelli atti la figura dell'omicidio mancato.
§. 412. E' conseguenza logicamente indeclinabile di tali principii, che a costituire l'essenza di fatto del delitto mancato si esiga l'attitudine dei mezzi con tutta la più rigorosa esattezza; e se ne istituisca la ricerca con più positivo criterio, di quello si faccia nel tentativo.
§. 413. Laonde ad escludere il delitto mancato può bastare l'inidoneità meramente relativa, purchè si connetta al disegno dell'agente (§. 425). E in ciò consiste una differenza fra il modo di essere del delitto mancato e del conato; pel quale vedemmo (§. 362) non bastare l'inidoneità relativa ad escluderlo. Sebbene i mezzi adoperati non fossero assolutamente incapaci, cioè subiettivamente, pure se lo erano a cagione del loro rapporto con quel soggetto passivo, o con quell'ordine di esecuzione che prescelse il colpevole, e cioè obiettivamente, tanto basta perchè la mancanza dell'evento discenda dalla volontà dell'agente, che scelse quell'ordine di esecuzione: e dal modo d'agire di lui; nel quale, stante l'inettitudine relativa, era insita per legge inalterabile della sua natura, la mancanza di risultato.
§. 414. L'attitudine perciò non basta che sia meramente possibile: ma bisogna che il mezzo scelto, e l'evento che si vuol dire mancato, stiano tra loro nel rapporto di causa ad effetto nel corso ordinario dei fatti. E possibile che un atleta con un pugno uccida un uomo. Se io (ammettasi pure con animo deliberato ad uccidere) ammeno un pugno al mio nemico, e gli reco una semplice contusione, avremo l'elemento intenzionale del delitto mancato; perchè la truce intenzione perseverò fino all'estremo momento della esecuzione del pravo disegno: ma non ne avremo l'elemento materiale: e sarà errore applicare cotesto titolo. Era nel pugno la possibilità di uccidere; ma nel corso ordinario dei fatti i pugni non uccidono. Dunque se al mio colpo non susseguì la morte voluta, fu per cagione del mezzo stesso da me scelto. Il mio disegno era un volo pindarico, che aveva in sè stesso la causa del suo fallire. Non vi è delitto mancato, perchè non fu uno straordinario fortuito quello che impedì la uccisione, ma l'ordinario rapporto delle forze materiali, che il delinquente aveva posto in movimento. Vi è un'intenzione feroce. Ma le intenzioni non hanno valore appo la giustizia penale, se non in quanto sono accompagnate da un danno effettivo, o da pericolo reale. Da ciò dipende anche il danno mediato, che tanto influisce sulla politica imputabilità.
§. 415. è perciò che nella definizione del delitto mancato si soggiunge - non susseguito dall'effetto voluto per cagioni indipendenti dalla volontà, e dal modo di agire del colpevole.
§. 416. Dire - dalla volontà - sembra a prima giunta superfluo, perchè se l'evento mancò per volontà dello stesso agente è così incivile l'idea di aumentare la sua responsabilità in ragione di un fatto che egli avrebbe diretto ad impedire il de litto, da non meritare neppure di esser notata.
§. 417. Ma l'indicazione della volontà si ricongiunge con l'indicazione del modo di agire del colpevole; appunto perchè quel modo d'agire fu voluto da lui; e così fu voluta da lui la causa, benchè senza previsione, del non successo.
§. 418. E precisamente perchè il modo di agire fu volontario nell'agente, se in cotesto modo di agire da lui scelto stette la causa stessa che frastornò l'evento, l'opera sua nacque senza quelle condizioni di pericolo perseverante fino all'estremo, sul quale si appoggia l'imputazione ed il titolo speciale del delitto mancato.
§. 419. Quando pertanto la causa che impedì la violazione della legge fu insita al disegno, e al fatto stesso dell'autore, sarebbe repugnante ai principii della scienza il tenerlo responsabile di tutti i momenti dell'azione, e così portargli a carico anche quello fra tali momenti, dal quale provenne la salvezza della vittima. Fu, è vero, perseverante il malvagio volere, ma non fu completa fazione delittuosa nei suoi rapporti ontologici col risultato a cui la medesima si dirigeva.
§. 420. Ciò è intuitivo quando l'ostacolo provenne dal soggetto attivo secondario del delitto: cioè dai mezzi o strumenti adoperati dal reo.
§. 421. Quando però l'ostacolo provenne da condizioni speciali del soggetto passivo, per le quali i mezzi adoperati riuscirono vani a cagione del loro rapporto fra questi e quello, bisogna distinguere.
§. 422. 0 tali ostacoli erano sconosciuti all'agente; p. e. l'impedimento provenne da una maglia di acciaro che il nemico portava sulle carni; ed allora in questi ostacoli stessi si configura il fortuito che frastornò l'evento; e si avrà il delitto mancato. Non potè la volontà dell'agente portarsi su cosa incognita; cotesto ostacolo da lui imprevisto è estraneo al suo modo di agire. E il vero caso in cui l'impedimento è tutto indipendente dal soggetto attivo.
§. 423. 0 quell'ostacolo era precognito all'agente: ed egli credeva di superarlo coi mezzi usati: ma i mezzi usati erano per legge di natura loro impotenti a superarlo: ed allora non si ha delitto mancato. Era, a modo di esempio, il nemico difeso dietro un riparo: ed il colpevole esplose l'archibugio con piena risoluzione di uccidere, pensando che la palla traforasse il riparo, mentre ciò era fisicamente impossibile. La volontà dell'agente si portò su cotesto impedimento, poichè lo conobbe: e benchè lo conoscesse, non usò i mezzi valevoli ad eluderlo: scelse un modo per vincerlo che era a ciò affatto impotente. Il rapporto tra l'impedimento ed i mezzi usati entrò nel disegno del colpevole: e questo disegno, tale quale fu concepito ed eseguito, fu scevro affatto di pericolo. Un'azione siffatta, ove cento volte si ripetesse, non potrebbe mai nuocere: il delitto mancato non vi è. Mancò l'evento pel modo di agire del reo; mancò perchè tutti gli atti necessarii a procacciarlo non furono eseguiti.
§. 424. Riassumendo tutta la teoria del tentativo e del delitto mancato nella più semplice formula, abbiamo questo risulato. Essenziali al delitto sono l'intenzione ed il pericolo. L'autorità non può senza tirannide minacciare politica imputabilità ove uno di questi elementi difetta. Il magistrato non può, senza abuso di potere, civilmente imputare un fatto ove sia deficienza dell'uno o dell'altro elemento; nè, senza imperdonabile aberrazione, supplire alla deficienza di un elemento, con l'altro. I due elementi debbono essere posti in sodo ciascuno di per sè: andrebbe a ritroso dei precetti logici e giuridici chi credesse che il grave pericolo del fatto supplisse alla intenzione dell'agente; o che la malvagia intenzione supplisse al pericolo che non era nel fatto.
§. 425. Del resto per ciò che attiene alla misura dell'imputazione, il delitto mancato deve rappresentare una media proporzionale fra il tentativo prossimo e il delitto perfetto. Noi non accettiamo la dottrina che vorrebbe parificare nella pena il delitto mancato al consumato; benchè adottata da alcuni codici, e benchè abbracciata da Romagnosi, sostenuta da Chalveau, ed anche recentemente difesa con calore da M. Bernard (1), e da altri rispettabili giureconsulti.
Articolo II.
Della complicità.

§. 426. In un delitto posson prender parte parecchie persone. Giustizia vuole che tutti sian chiamati a render conto della parte presa nella infrazione della legge; ma vuole altresì che ciascuno ne risponda proporzionalmente all'influenza che ha esercitato sulla infrazione. Di qui l'importanza della dottrina della complicità.
§. 427. L'autore principale del delitto è colui che esegui l'atto consumativo della infrazione. Coloro che agli atti consumativi presero parte sono coautori, o correi: tutti delinquenti principali. Tutti gli altri, che parteciparono o al disegno criminoso, o agli altri atti, ma non a quelli della consumazione, sono delinquenti accessorii, o complici in lato senso.
§. 428. La filosofia, che ha per oggetto enti puramente ideologici, può bene ravvisare un autore psicologico in colui che, concepita un'idea, seppe ordinarla a completo disegno.

(1) Revue critique de legislation vol. 20 pag. 466.

§. 429. Ma la scienza penale, che ha per oggetto i soli atti esterni, e dei pensieri non si occupa se non per indagare le cagioni di quelli, non può parificare l'autor di un'idea, all'autore di un fatto. Il delitto per lei è un ente giuridico, che risultando dalla contradizione tra un fatto e la legge, non ha vita se non è materialmente offesa la legge con un fatto: e l'autore di questo fatto è soltanto colui che materialmente lo consumò. Chi lo ideò, e ad altri ne commise l'esecuzione, è l'autor dell'idea, non dell'offesa alla legge. Il giure penale ravviserà in costui una causa del fatto; e chiamandolo primo motore del delitto, lo perseguiterà con rigore anche, se vuolsi, uguale a quello che usa contro chi lo eseguì. Ma tra l'esser causa, o motore, di un fatto, e l'esserne autore vi è differenza essenziale. Può alcuno aver concepito il disegno di un quadro nelle più minute sue parti: può altri aver con denaro indotto il pittore a porre in tela cotesto disegno. Questi due saranno respetti vamente cause del nascimento del quadro, e averne anche un merito; ma l'autore è colui che col pennello gli diede esistenza.
§. 430. Dire autore del delitto chi l'ideò, è una finzione, una figura rettorica. Ma una scienza positiva come la nostra deve bandir le metafore dal suo linguaggio. Le scuole criminali erano d'accordo nel distinguere i Motores criminis dagli authores criminis (1). Pare che fosse Tittman il primo che riunì gli uni e gli altri sotto una stessa denominazione. Onde poi gli Alemanni entrambo gli espressero col solo vocabolo urheber, al quale troviamo appunto nei lessici corrispondere la doppia significazione di autore, e primo motore. Ma neppure tutta la scuola germanica assente a tale denominazione. Mittermaier (archivio del diritto criminale vol. 3, pag. 415) sostenne doversi con diverso nome distinguere nella scienza l'autore (thater) e il motore (urheber); e da questo l'ausiliatore, e il fautore, che troveremo fra poco.

(1) Eisenhart De criminum sociis §. S - Kessenich De sociis in crimine - Mommaerts De criminum fautoribus pag. 8-10.

§. 431. Il delitto si compone di due elementi
- Elemento fisico (moto del corpo, atti esterni) senza del quale l'infrazione della legge non è possibile
- Elemento morale (disegno criminoso, intenzione) senza di cui la materiale violazione del diritto è un accidentale infortunio.
Ora la partecipazione dei più individui può essere avvenuta in un solo di questi elementi: o in ambedue.
Di qui sorge spontanea la partizione di questa teoria, secondochè si considera
- o un concorso di azione senza concorso di volontà
- o un concorso di volontà senza concorso di azione
- o un concorso cumulativo di azione e di volontà.
1. Concorso di azione senza concorso di volontà.
§. 432. Questo primo caso si configura tutte le volte che avvenga ad alcuno di coadiuvare altri in un delitto, senza saperlo e volerlo. Il corpo di costui ha concorso efficientemente alla forza fisica del delitto; ma non vi ha concorso l'animo: non ha concorso alla sua forza morale. Manca l'intenzione di violare la legge: e rimpetto a lui l'azione, benchè materialmente offensiva della legge, non è imputabile.
§. 433. Ciò può avvenire in quattro modi distintissimi tra di loro, che variano secondo la diversa forma che assunse l'intenzione di chi cooperava al delitto senza pensare a cooperarvi. Il risultato è però sempre identico in rapporto alla non imputabilità di costui.
§. 434. - 1.° Potè avere costui un intensione innocentemente distinta: quando egli credette dar opera a cosa tutta lecita mentre in realtà un malvagio di cotest'opera sua traeva profitto per violare la legge.
§. 435. - 2.° Potè avere un'intenzione criminosamente distinta (1): quando Cajo credette aiutare Tizio a commettere un delitto più lieve; mentre questi coll'aiuto suo dolosamente consumò in realtà un delitto più grave, che Cajo non prevedeva nè voleva. In quel delitto ulteriore Cajo ha partecipato col corpo, ma non coll'animo: Eisejshart De criminum sociis §. 28; e Hoorebecke De la compilate pag. 328.

(1) La formula della intenzione criminosamente distinta, strettamente coerente ai principi fondamentali dell'imputabilità, scioglie un problema che ha richiamato le osservazioni dei criminalisti contemporanei.
Una sentenza del 4 piovoso anno 13 condannò a morte come complice di omicidio premeditato un giovine che aveva prestato all'amico un bastone di cui questi si era valso per uccidere un suo rivale. La sentenza dichiarò letteralmente essere risultato in fatto che l'amico non avea prestato quel bastone, se non dietro solenne promessa che non avrebbe ucciso il rivale. Malgrado la certificazione dì questa circostanza, in esecuzione della legge di Francia che parifica nella pena i complici all'autor principale, quell'infelice fu condannato a morte, e decapitato. Ora: nel febbraio del 1861 M. Benoit Champy ha pubblicato a Parigi un eccellente libro sulla complicità. In questo libro ei ricorda quest'atroce sentenza, e se ne vale a mostrare che la legge dovrebbe distinguere nella pena il complice dall'autor principale.
Posteriormente M. Thiengou, dando una succinta analisi dello scritto di Champy, ritorna su questo fatto crudele. E se ne vale per trarne un'altra conseguenza. Egli dice che dovrebbe la legge lasciare ai giudici un arbitrio per modificare la pena secondo i casi.
Io non discuto nè la conclusione di M. Champy (che in massima accetto come verissima), nè la conclusione di Thiengou. Ma dico che nel caso dell'anno XIII, non vi era bisogno di modificazioni legislative per impedire l'ingiusta strage di quell'infelice, io dico che se i giudici ricordavano i veri principj della scienza, quel disgraziato era salvo, senza arbitrio, e senza correzione di legge.
Infatti costui non aveva mai avuto volontà diretta all'omicidio. Egli aveva imprestato un'arme, ma con la certezza che non divenisse strumento di morte. Come potè dunque dichiararsi complice di omicidio premeditato? Fosse pure premeditata dall'autor principale la strage, non potè averla premeditata chi non la voleva. Si sostituì dunque da quei giudici il concorso materiale al concorso intenzionale; la coefficienza materiale alla coefficienza morale. Si dichiarò complice di un fatto chi positivamente non lo aveva voluto. La causa di uccidete l'accusatosi trovò nel dolo qualificato; nella premeditazione; checchè potesse dirsi quanto al risultato più grave derivato dai mezzi voluti, certo è che la premeditazione essendo circostanza che tutta risiede nella intenzione non può essere comunicabile. E ammesso ancora che l'autore avesse premeditato l'uccisione, certo è che anche in questa ipolesi si sarebbe condannato a morte un uomo per la intenzione di un altro uomo: intenzione che quello non avea conosciuto, e a cui non aveva partecipato. Così la qualifica, e per conseguenza la pena, furono aberranti; ed ingiuste per una giudaica aderenza alla lettera della legge, la quale deve sempre intendersi che subordini i suoi dettati ai precetti sovrani della ragione e della giustizia, formulati nei canoni della scienza.

- Canone da non dimenticarsi mai nella teoria della complicità è il seguente - il fatto materiale può essere comunicabile fra più partecipi: l'intenzione non è mai comunicabile da individuo a individuo. Questa configurazione dell'intenzione criminosamente distinta non è un'idea nuova; nè nuova è la regola che ne deduco. Essa fu considerata dai romani giureconsulti: e risoluto il problema con la regola della non complicità. Vedasi la leg. 53 ff. de furtis; ove Paolo immagina il caso di uno che injuriae causa atterrò una porta; per la quale altri si introdusse a rubare: e dice che non tenetur furti, perchè maleficio, voluntas et propositum delinquentis distinguunt: lo che si ripete da Ulpiano alla leg. 39 ff. eod. L'errore di contentarsi della efficienza materiale per costituirne la complicità senza curare la certezza della coefficienza intenzionale, non è sostenibile in teoria, nè da alcuno osa sostenersi: soltanto vi si cade talvolta nella pratica.
§. 436. - 3.° Potè agire con intenzione indireità negativamente tale: versare cioè in un fatto colposo. Ma nei fatti colposi non può esservi complicità, perchè implicherebbe contradizione. E assoluta la regola di Ulpiano (leg. SO §. 2 f[de furtis) nec consilium vel opera ferre sine dolo malo nemo posse.
§. 437. - 4.° Potè infine trovarsi nello stato di intenzione imperfetta: essere cioè nel quarto grado del dolo. Ed anche in questa ipotesi non si ammette per regola complicità; tranne specialissimi casi, nei quali, malgrado l'impeto istantaneo degli affetti, possa apparire univocamente esplicita la volontà di coadiuvare il delitto che altri commetta.
§. 438. In una parola la teoria si epiloga, coerentemente ai principii costitutivi del delitto, in una regola semplice ed assoluta. Il concorso materiale, per quanto efficiente al delitto altrui, non rende mai partecipi del delitto, se non vi fu intenzione determinata a coadiuvarlo.
2. Concorso di volontà senza concorso di azione.
§. 439. Opposta regola procede, ove alcuno concorra con la volontà al delitto che altri commette; ma senza prendere veruna parte all'azione materiale. A costui è imputabile il fatto altrui, purchè la sua volontà abbia esercitato sull'animo dell'agente una influenza efficace; e la sua responsabilità si misura sul grado maggiore o minore di tale influenza.
§. 440. Costui allora dicesi causa morale del delitto. In lui non s'imputa il pensiero. Il giure penale, sempre logico, non perseguita gli atti interni. Ma oltre l'atto interno è intervenuto un atto esterno, che ha violato la legge: ed allora anche la manifestazione del pensiero diviene politicamente Imputabile in quanto abbia dato impulso a quel fatto esterno violatore della legge.
§. 441. Perchè dunque il concorso puramente morale al delitto altrui sia imputabile politicamente, è indispensabile che nel medesimo possa riscontrarsi un impulso al delitto stesso. A tal fine è necessario che il pensiero criminoso sia stato comunicato all'agente sotto una qualche forma; sicchè abbia spinto questo ad agire.
§. 442. Ora secondo il variare di tali forme, varia il modo di essere della partecipazione morale: e ne nascono cinque distinte figure di complicità.
Queste sono
- 1.° il mandato
- 2.° il comando
- 3.° la coazione
- 4.° il consiglio
- 5.° la società a delinquere.
Tali forme distinte di partecipazione morale può un legislatore, a cui piaccia, unificare a talento; e contentarsi della parola istigazione. Ma l'istigazione è un genere che comprende diverse specie separate tra loro a caratteri pronunciatissimi; e la scienza ha bisogno di studiare queste singole specie, ponendosele innanzi con nomi distinti. Quando fra due cose esistono difformità essenziali, la velleità moderna di unificarle con un solo nome porta confusione nel linguaggio, e niente altro: ma è impotente a distruggere le differenze reali.
§. 443. - 1.° Mandato si ha quando si commette ad altri l'esecuzione di un delitto per nostro utile e conto esclusivamente.
§. 444. - 2.° Il comando è un mandato a delinquere imposto con abuso di autorità da un superiore ad un inferiore.
§. 445. - 3.° La coazione (nel senso in cui qui si adopera cotesta parola, cioè in quanto sia causa di azione, non di reazione) è un mandato a delinquere imposto con la minaccia di grave male.
§. 446. è evidente che il comando e la coazione non sono che mandati qualificati, o dall'abuso di autorità, o dall'incussione del timore.
§. 447. Queste due forme di complicità morale hanno solo questo di particolare, che in ragione della maggiore influenza che può avere esercitato sull'animo dell'agente o l'autorità, o la minaccia, se ne minora l'imputazione dell'autore fisico; e se ne aumenta la imputazione di chi ne fu causa morale. E tale aumento, e respettivo decremento, possono giungere sino al punto, da esonerare da ogni responsabilità (§. 288) l'autor fisico, e far ricadere tutta l'imputazione del delitto sulla causa morale. Ciò avviene quando l'esecutore debba considerarsi non come strumento attivo, ma come strumento passivo dell'altro: o perchè non ebbe una volontà libera, come nei congrui casi il coatto; o perchè non ebbe una volontà intelligente; come nei congrui casi (§.316) il comandato.
§. 448. Tranne cotesta specialità, le regole del comando, della coazione, e del mandato corrono di pari passo.
§. 449. - 4.° Il consiglio è la istigazione diretta ad alcuno col fine di indurlo a commettere un delitto per suo esclusivo utile e conto.
§. 450. - 5.° La società è un patto intervenuto fra più persone al fine di consumare un delitto per utile o comune, o respettivo, di tutti gli associati.
§. 451. La società, il consiglio, e il mandalo hanno questo di comune, che in loro stessi non possono considerarsi come tentativi del delitto pattuito, consigliato, od ingiunto, perchè con loro non si dà principio all'esecuzione del delitto. Ove non vogliano perseguitarsi come rei di delitti sui generis, e per sè stanti, non possono il mandante, il consigliero, ed il socio imputarsi in ragione di complicità, finchè l'autor fisico non ha dal suo canto posto in essere almeno un tentativo del delitto voluto. Si può essere complici di un tentativo; ma tentativo di complicità non si ammette. I pratici esprimevano questa verità col broccardo - mandans tenetur, causa mandati, non ex mandato.
§. 452. Il mandato, il consiglio, e la società hanno il principal carattere differenziale nel diverso reparto dell'utile derivante dal delitto. Questo è l'unico criterio possibile che suggerisca la scienza per distinguere coteste tre figure. Ma è criterio essenziale; perchè influisce sul reparto delle forze criminose: e perciò coteste figure vogliono appunto esser distinte, per misurarne con giusta proporzione la rispettiva imputabilità.
§. 453. Se il delitto si eseguì per solo interesse della causa morale del delitto si ha un mandato (1): se per solo interesse della causa fisica si ha un consiglio: se per interesse o comune, o respettivo, tanto di chi lo eseguì come di chi partecipò al solo disegno criminoso, si ha la società.

(1) Questa nozione del mandato, alla quale per vaghezza oltramontana, vorrebbe oggi darsi l'ostracismo dalla scienza, è classica nella medesima - Carpzov, pars I quaest. 3 - Strykio dissert. de mandato delinquendi - Nani Principi di giurisprudenza criminale §. 436- Carmignani Elem. juris crim. §. 264 - Il quale sebbene la disapprovi agli effetti penali per la speciosa ragione che un consiglio a delinquere essendo contro la morale, presuppone sempre un interesse in chi lo emette, non suggerisce però un diverso criterio, e mantiene la distinzione fra consiglio e mandato. Ognuno comprende che ad anime corrotte non repugna consigliare altri al male senza verun proprio lucro; e che l'interesse del malvagio consigliere è tutto nel piacere di veder delinquere. Ma dove l'istigato non avrà un interesse proprio non potrà mai dirsi che si ha un consiglio: come dove il delitto porta tutto l'utile all'istigato non potrà mai dirsi che si abbia un mandato. L'essere o no a sè profittevole il delitto conduce a dire che siasi eseguito o per conto proprio, o per conto di altri, o per conto comune: e questo criterio della distinzione tiene alla stessa natura delle cose. è poi il medesimo politicamente influente, perchè l'utile derivante o no dal delitto all'esecutore tanto, perchè anche in questi trova una causa della delinquenza che ella deve reprimere. La potenza di una causa è tanto più forte quanto più ha agito senza sussidio di altre cause a procacciare l'evento. Il movente che più d'ordinario spinge l'uomo a violare la legge è l'utile che spera ottenere dal delitto. Dunque il reparto della imputazione tra l'autore fisico del delitto, e chi vi partecipò moralmente soltanto, deve graduarsi secondo il reparto della utilità. dimostra se debba referirsi la prima causa del delitto, o in tutto o in parte all'istigatore. Si vedano le istituzioni del Giuliani vol. I pag. 489 (ediz. 4856) e pag. 203 - ivi - Che il consiglio, a differenza del mandato, ridonda in vantaggio di chi lo riceve, e non di chi lo dà - Puccioni Saggio teorico-pratico pag. 105 - Si commetterebbe grave errore confondendo il consiglio col mandato. In questo il mandatario intraprende la esecuzione del delitto per conto ed interesse di quello dal quale il mandato proviene: al contrario nel consiglio il delitto si compie nel solo interesse del consigliato. Nel Codice toscano si volle bandire anche questa nomenclatura: ma si dovette conservare la realtà della distinzione fra motivi proprii, molivi comuni, motivi esclusivi. Sicchè tutto il progresso consiste non nell'emenda del pensiero, o del principio, ma nella confusione della nomenclatura esatta e adequata della vecchia scuola italiana, nel solo vocabolo istigazione. Si è sdegnato ripetere le voci consiglio, e mandato. Si è detto invece istigato che ha motivi proprii - istigato senza motivi proprii - istigato che ha motivi comuni. Così taluno che proponesse non doversi più dire oro od argento: ma metallo giallo e metallo bianco, avrebbe rinnovato la scienza metallurgica.

§. 454. La legge civile perseguita anche coloro che parteciparono nel delitto altrui moralmente solo.
§. 455. Nel mandato si suppone che il mandatario non avesse nissun interesse a delinquere. Dunque causa primaria del delitto fu il mandante: senza il mandato, il mandatario non avrebbe certamente commesso quel delitto in cui non aveva interesse nessuno: dunque la imputazione del mandante deve essere maggiore di quella che si dirige contro il socio, o contro il consigliere.
§. 456. Su questa idea le scuole e i codici moderni hanno fondato la dottrina della perfetta uguaglianza nella imputazione tra mandante e mandatario (1).

(1) Fondano la dottrina della parificazione sul responso di Ulpiano leg. 45 ff. ad leg. corn. de sic. - Nil interest occidat quis, an causam mortis praebuit? - Leunclavio ecloga basilicorum fragm. 355 riporta questa sentenza - mandator caedis pro homicida habetur. La quale però non è nel codice fiorentino delle basiliche, nè nel corpus juris del Gebauer pag. 4048. Il Renazzi, seguendo Farinaccio (p. 5 qu. 436 n. 6), vorrebbe anzi punito più il mandante che il mandatario. La parificazione si insegnò da Carpzov, 4, 49, 45 e qu. 4 n. 44 e qu. 38 n. 54 - Gebauer De imputatione facti alieni seet. 4 §. 7, sect. 2 §. 4. - Conciolo verb. assassinium resol. 3 - e in generale dai pratici. Vi si oppose Beccaria per un principio di politica; e Carmignani per un principio di giustizia. La sostiene Haus Cours, 4, 201.

§. 457. Cotesta parificazione presuppone però sempre due condizioni:
1.° un grado eguale di dolo nel mandante e nel mandatario; variando il quale deve variare il rapporto della imputazione
2.° che realmente ciò che la ragione dell'interesse porta a presumere siasi avverato: cioè che trattisi di vero e proprio mandatario. Se in fatto anche il mandatario aveva un interesse respettivo al delitto, il mandante assume piuttosto la figura del socio non esecutore; e si assimila a lui. Se poi, anche senza tale interesse, viene a conoscersi che il primo a concepire il delitto, e a cercar l'ordine di commetterlo, fu il mandatario stesso, la presunzione forza è che ceda alla verità. Il mandante non è più la causa morale primaria del delitto: e deve imputarsi meno del mandatario; perchè mentre entrambo vollero il delitto con ugual forza di volontà, il mandante lo volle soltanto; il mandatario lo volle e lo eseguì.
§. 458. Nella società l'interesse è comune. Dunque causa morale del delitto sono ambo i soci. Ma la causa fisica del delitto fu il solo socio esecutore. Dunque a parità di causa morale, la prevalenza della causa fisica porta a dovere imputare il delitto più al socio esecutore, e meno al socio non esecutore. Che se tutti i consociati a delinquere concorsero o all'esecuzione o alla consumazione, non si ha più un semplice concorso di volontà, ma ancora un concorso di azione; e l'imputabilità si gradua fra i più delinquenti secondo la parte presa nell'azione, come vedremo (§. 471) tra poco.
§. 459. Nel consiglio si suppone che il consigliere non abbia nessun interesse al delitto; il quale torna ad esclusivo vantaggio del consigliato che l'eseguì. Per ciò può ritenersi che costui avrebbe commesso il delitto anche senza il consiglio altrui. Dunque mentre all'esecutore si mantiene tuffa la pienezza dell'imputazione; il considero deve imputarsi meni) del mandante, o del socio; e può anche non essere niente imputabile.
§. 460. L'imputabilità o non imputabilità del consiglio dipende dal grado di influenza (1) che esso esercitò sul delitto. Di qui la distinzione tra consiglio semplice o esortativo; e consiglio efficace.

(1) Tissot volle distinguere il consiglio dall'ordine, ravvisando nel primo una partecipazione meramente intellettuale (partecipazione all'idea) nel secondo una partecipazione morale (partecipazione alla determinazione). Siffatta distinzione può essere ideologicamente esatta, perchè la determinazione (atto di volontà) è cosa bene diversa dall'idea (atto di mera intelligenza). Ma quando si immagina un consiglio efficace si esce dal campo delia mera concezione di un'idea, e si entra necessariamente nel campo della determinazione; perchè quella concezione esercita appunto una forza determinante la volontà. E quando si presuppone il dolo nel consigliere, questo non in altro può consistere tranne nella intenzione di spingere al delitto la determinazione altrui. Senza ciò può essersi nei meri termini di imprudenza, e manca il concorso di volontà al delitto. Altrimenti il chimico che pubblica una sua scoperta circa la fabbricazione di un veleno, sarebbe responsabile del veneficio, che taluno, edotto dal suo libro, commettesse dipoi.

§. 461. L'efficacia del consiglio si desume dalla certezza che si ottenga di una influenza esercitata dal Consiglio stesso sull'animo del male inclinato; per la quale costui siasi con maggiore facilità, od anche esclusivamente per essa, determinato ad agire. Ella è questione di fatto, sulla quale la scienza non può porgere che una formula generale. Certo è però che l'efficacia deve essere tanto oggettiva quanto soggettiva. Non basta che una parola incauta abbia determinato altri al delitto, se non fu proferita con cotesta intenzione: qui sta il dolo nel consiglio. Neppure basta che sia nel consiglio una efficacia soggettiva, se non s'ebbe anche oggettiva. Taluno disse uccidi a colui che inseguiva con mano armata il nemico. Questi l'uccise : ma è provato che non udì quella parola. Qui stava l'efficienza reale del consiglio.
§. 462. Deve avvertirsi che il consiglio è sempre imputabile perchè indubitatamente efficace, (fermo stante il dolo nell'emetterlo) quando fu accompagnato da istruzioni, che poi abbiano effettivamente giovato alla esecuzione del delitto. In questo caso il consiglio ha esercitato influenza non solo sulla determinazione, ma in certa guisa anche sull'azione.
§. 463. Deve pure notarsi che il massimo grado d'imputazione si deve al consiglio, quando può accertarsi, che senza di quello il delitto non si sarebbe commesso. Infatti l'utilità derivante dal delitto non offre che una mera presunzione d'influenza. E tale presunzione deve cedere, come tutte le presunzioni, alla prova contraria. Sempre però il consiglio, per quanto efficace, dovrebbe (a parer mio) imputarsi meno della esecuzione.
§. 464. Evvi una forma speciale di partecipanza al delitto altrui, senza concorso di azione, che gli scriitori ora chiamano complicità negativa (Tissot I, 119); ora connivenza (Puttmann opusc. 3 - Ras De vinculo cognationis). Ora reticenza (Randwjick De reticentia). Essa consiste nel conservare il silenzio intorno ad un delitto che si conosce volersi commetter da altri; e col non denunziarlo all'autorità lasciare che si consumi. L'imputazione di questo silenzio come delitto da alcuni si ragiona sulla utilità politica, e si è portata alle più esorbitanti conseguenze da certi legislatori nei delitti di Stato (1). Da altri si nobilita col principio della solidarietà difensiva dei cittadini (2). Checchè sia della imputabilità di codesto silenzio, o in ordine ai delitti da commettersi, o in ordine a delitti già commessi; guardato come fatto sui generis, e valutato come delitto di per sè stante, coito è che non possono mai trovarsi nel medesimo i termini della complicità. Non essendovi concorso di azione, la partecipanza fondata sul mero concorso morale non può radicarsi che sopra un atto positivo ed efficiente della volontà, che aderisca al delitto. Ora codesta adesione non ha nel caso altra base che una presunzione: la presunzione che colui, al quale divenne noto il disegno criminoso di altri, poichè omette di farsene delatore, voglia che il delitto si consumi. Così la pretesa complicità si fonda sovra la presunzione di un desiderio; il presunto desiderio si converte in una volontà determinata; e così con supposizione di supposizione si attribuisce ad un pravo volere ciò che può essere l'effetto o di pudore, o del timore di proprio pericolo, o di pietà verso gli altri.

(1) Taschemacker De jure silentii - Gebauer De imputatone facti alieni, il quale dice che è reo di furto chi non acclama ai ladri vedendo rubare - Strykio De imputatione furti alieni n. 70 cap. e cap. 5 n. 86, 99; e Disp. de credentiae revelatione cap. 5 - Gundlincio De silentio in crimine majestatis. Questa dottrina mosse diritta dal giure penale dell'Impero Romano. E l'energia con cui fu combattuta da Beccaria, da Montesquieu, e da Filangieri non trattenne alcuni codici moderni dal fulminare severissimo pene contro la non rivelazione. Codice francese art. 104 - Codice austriaco art. 54, 55 - Codice napoletano art. 144 - Codice ticinese art. 408.

(2) Codice portoghese art. 8, e rapporto della commissione cap. VII; ove si applica alla non rivelazione l'imputazione dell'aderenza. L'idea della solidarietà defensiva dei consociati, per cui si eleva a dovere civico la prevenzione dei crimini, e a delitto la violazione di tale dovere, si sostenne da Hencke, Oersted, Konigswarter, ed altri - Winckler (De crimine omissionis §. 6) ricorda molti statuti che punirono come delitto speciale il non impedimento del delitto da commettersi, e la non rivelazione del delitto, o da commettersi, o già commesso. Latamente Jonge de delictis (Traject. 4845) voi. 2 pag. 443. Sia che vuoisi di così grave disputa che qui non cade, basti al presente luogo, affermare che uè la non rivelazione, uè il non impedimento, giammai possono costituire vera complicità, perchè non vi è nè concorso di azione, nè concorso di volontà.

3. Concorso di volontà e concorso di azione.
§. 465. Concorre al delitto con volontà e con azione chiunque, oltre a volere la violazione del diritto che il reato minaccia, interviene personalmente ad alcuno degli atti che ne costituiscono la forza fisica soggettiva, ossia l'elemento materiale. Per ben calcolare il grado d'imputazione che si deve a questa forma di partecipanza è necessario distinguere la materialità dell'azione criminosa in tre diversi momenti: preparazione, esecuzione, consumazione. Aver confuso il primo col secondo, ed il secondo col terzo di tali momenti, è stato causa di equivoci. Già alla materia del conato (§. 593, e 598) notai che la preparazione si distingue dalla esecuzione per la univocità; e la esecuzione dalla consumazione per la presenza del soggetto passivo della consumazione. Gli atti che non si riferiscono univocamente al delitto sono preparatori!; come p. e. munirsi di uno scalpello per rubare. Quando gli atti acquistano univocità criminosa incomincia l'esecuzione; p. e. il ladro ha confitto lo scalpello nell'uscio per dischiuderlo. E se è certo che l'atto dirige vasi ad un delitto; ma dubbio se ad uno più grave o più leggero; prevarrà la probabilità del delitto più lieve. Ma non siamo ancora alla consumazione; perchè il soggetto passivo del furto non dev'essere quell'uscio. Siamo alla consumazione tostochè il ladro dirige l'opera sua sulla cosa che vuol rubare. Se però nel tentativo la nozione degli atti preparatorii porta ad esimerli da ogni imputazione per l'incertezza della loro criminosità; evidentemente nel tema della complicità l'avvenuta consumazione effettiva rivela con certezza la direzione degli atti preparatorii; cosicchè il resultato di questa nozione non può mai essere identico al resultato che produce nel conato. Questa osservazione pare a noi decisiva per accettare la formula che la qualità di preparatorio in un atto non può desumersi da altro criterio tranne quello della univocità. Se l'atto preparatorio fosse non imputabile soltanto perchè è atto preparatorio, ei non sarebbe imputabile nel complice che si limitò a tali atti.
§. 466. In proposito del concorso di azione al delitto altrui la distinzione di questi tre momenti fa nascere diverse forme di partecipanza. Dalla partecipazione agli atti consumativi sorge la correità; dalla partecipazione agli atti precedenti (o di esecuzione, o di preparazione) nasce l'ausilio, o prossimo o remoto. Dalla partecipazione agli atti posteriori alla consumazione nasce l'aderenza, e il favoreggiamento.
§. 467. Quando la partecipazione fu concomitante agli atti consumativi, colui che la pose in essere è un correo, ove anche vi abbia partecipato unicamente colla parola; od anche colla mera presenza, e senza nulla operare. La parola istigatrice; che sviluppa il solo concorso morale se è precedente alla consumazione del delitto; assume il carattere di concorso materiale quando è concomitante ai momenti della consumazione, è con lei si compenetra per l'unità di tempo.
§. 468. La nuda parola può anche costituire elemento fisico di partecipazione al delitto altrui, benchè precedente alla consumazione: e ciò quando non abbia influito soltanto sulla volontà dell'agente; ma abbia influito direttamente sul fatto come parte di azione. Ciò si esemplifica bene in colui che, d'accordo coll'assassino, abbia con parola ingannevole indotto la vittima a recarsi nel luogo ove il micidiale l'attendeva. Quella parola non ha avuto un'influenza morale soltanto, ma un'influenza fisica sul fatto criminoso; e rientra nel concorso, non di mera volontà, ma di volontà e di azione.
§. 469. La mera presenza, benchè atto negativo, assume il carattere di complicità quando tale presenza riunisce le due condizioni di essere stata efficiente, e di essere stata intesa a facilitare l'esecuzione. Allora anche la presenza inattiva è un momento materiale che si congiunge alla forza fisica del delitto.
§. 470. Il correo è imputabile ugualmente che l'autore fisico del delitto. è un'accidentalità se la mano dell'uno piuttostochè quella dell'altro operò l'atto con cui la legge venne definitivamente violata. Quest'atto si considera come fatto di ciascuno dei malvagi che scientemente vi assisterono di persona. Quell'assistenza, anche inerte, rendeva più audace l'esecutore; e tanto basta perchè assuma il rapporto di causa ad effetto respettivamente al delitto a cui tutti i presenti dirigevano attualmente le loro volontà.
§. 471. Quando la partecipanza dolosa all'azione fu solo precedente agli atti consumativi, colui che la pone in essere è un ausiliatore.
§. 472. La forza fisica del delitto ha ricevuto da costui un impulso minore che non fu quello datole da coloro che parteciparono alla consumazione. Fu il fatto di costoro che violò la legge; senza del quale il fatto dell'ausiliatore poteva restare innocente. Oltre a ciò la volontà criminosa perseverò in quelli fino all'esaurimento del delitto: mentre nell'ausiliatore si ignora se avrebbe ugualmente perseverato.
§. 473. Vuole dunque giustizia che contro l'ausiliatore si diriga un'imputazione minore di quella che si applica all'autor principale.
§. 474. Tale imputazione si gradua sul criterio della maggiore o minore influenza che l'ausilio esercitò sulla consumazione. Di qui la distinzione dell'ausilio in prossimo e remoto; analoga alla consimile distinzione del conato. Il più spesso la partecipazione agli atti di esecuzione costituirà l'ausilio prossimo: la partecipazione agli atti preparatorii costituirà l'ausilio remoto. Dico il più spesso perchè talvolta l'ausilio anche negli atti preparatorii può lasciare un risultato materiale che poi figuri nei momenti della consumazione; perlochè ravvicinandosi a questi l'atto del complice può presentare tale Influenza da doversi considerare come ausilio prossimo, p. e. la manipolazione del veleno è atto preparatorio; ma chi scientemente preparò il veleno all'avvelenatore pare a me ausiliatore prossimo, perchè il risultato del suo atto ha figurato in modo efficace trai momenti della consumazione. Questo ravvicinamento del risultato materiale del fatto preparatorio alla consumazione, vi accosta giuridicamente la persona di chi lo eseguì dolosamente a cotesto fine, quantunque l'atto, (dolosa preparazione del veleno) sia nella natura dei preparatorii, e quantunque sia discosto e per una lunga serie di momenti intermedii, per un intervallo forse di mesi, dalla consumazione del veneficio. Ripeto che cotesto confronto rilevantissimo della differente gravità politica degli atti preparatorii nel conato, e nella complicità, è un'ulteriore riprova della esattezza della formula da me adottata quando affermai che il vero criterio scriminativo degli atti preparatorii nel conato, non è già la mera possibilità del pentimento (la quale si accomuna ad ogni attentato) ma bensì la mancanza di univocità. è sempre una questione di scienza. Nel tentativo l'impossibilità di sapersi dai terzi la vera direzione di quegli atti li scrimina quando non furono susseguiti da atti ulteriori. Nella complicità la scienza nel complice della loro destinazione aggiunge al concorso fisico il concorso morale. E se gli atti preparatorii furono susseguiti da atti ulteriori, colui che partecipò a quelli è indubitatamente imputabile; e lo è talvolta al massimo grado al quale possa salire l'imputazione dell'ausilio.
§. 475. Quando la partecipazione materiale al delitto altrui fu susseguente all'atto consumativo, si deve distinguere: o cotesta opera era stata dal partecipe promessa all'esecutor del delitto precedalitemente alla consumazione del medesimo; o non era stata promessa.
§. 476. Se era pattuita precedentemente, l'atto tisico di partecipazione, benchè materialmente posteriore all'esecuzione, costituisce un ausilio, e ne corre le regole. Nè vale in tal caso l'obietto che un atto posteriore non possa esser causa dell'atto anteriore; perchè l'ausilio, sebbene abbia avuto esistenza materiale solo dopo il delitto, ebbe per altro, mercè il patto, un'esistenza intellettuale antecedente. E questa influì, o potè influire, sulla determinazione criminosa dell'autor fisico: il quale potè con facilità risolversi, per modo d'esempio, ad uccidere, perchè reso certo che l'altro lo avrebbe aiutato a seppellire la vittima. Onde a ragione in questi partecipanti, che alcuni chiamarono fautores ex compacto, per distinguerli dagli altri che dissero fautores accidentaliter, si riconoscono i caratteri di vera complicità. L'efficienza fisica nel fatto loro fu posteriore: l'efficienza morale fu anteriore.
§. 477. Se poi la partecipazione non ebbe esistenza nè intellettuale nè materiale precedentemente al delitto: ma sì l'idea come l'azione del terzo furono posteriori; allora si deve di nuovo distinguere. O l'atto posteriormente concepito ed eseguito ebbe per unico fine di sottrarre il delinquente alle persecuzioni della giustizia: o ebbe anche il fine di portare il delitto a conseguenze ulteriori.
§. 478. Nel primo caso non può parlarsi di complicità. Sorge un titolo nuovo di reato di per sè stante; che dicesi favoreggiamento, e che è un delitto sui generis, che ha per obietto la pubblica giustizia. Il diritto che l'autore di questo fatto intendeva a violare, e quello che effettivamente violò, non era, a modo di esempio, il diritto che il soggetto passivo del delitto aveva alla vita, o alla integrità delle membra. Questo diritto era ormai violato dall'autore del reato. Il diritto che il fautore volle violare, e violò, fu un diritto universale. Fu il diritto che tutti i cittadini hanno di vedere rispettata con effetto, non elusa e conculcata, la pubblica giustizia.
§. 479. Ma se l'atto, sebbene tutto posteriore, cadde intorno un reato non del genere degli istantanei, ma di quelli che diconsi successivi, perchè ammettono prosecuzione nell'offesa al diritto principalmente attaccato: ed ebbe per fine di agevolare questo delitto nella sua prosecuzione; e di fatto lo proseguì: io penso che debba sempre parlarsi di vera complicità, anche nell'atto posteriormente concepito ed eseguito.
§. 480. In cotesto caso l'atto è posteriore alla violazione della legge e del diritto, ma non posteriore all'esaurimento dell'azione. La legge ed il diritto erano sempre suscettibili di essere violati, in quell'identico soggetto passivo del primo delitto: e se l'atto posteriore alla prima violazione rappresenta egli medesimo una seconda violazione della stessa legge e dello stesso diritto, il fatto deve definirsi e misurarsi dall'offesa recata a questo; non dall'offesa alla giustizia, alla quale l'agente non intendeva (1).

(1) Vedasi il mio discorso sulla ricettazione dolosa di cose furtive: e il Codice del Brasile art. 126, §.1 - Il sig. Pachecho (Estudios del derecho penal leccion 13) accennò alla irreparabilità del delitto consumato, come a criterio della nozione del favoreggiamento. Ma non spinse a risultato cotesta osservazione: nè la distinzione fra reato irreparabile, e reato reparabile può esser guida sicura per discernere i fautori del delitto dai continuatori. Il criterio unico esatto è quello della continuabilità, o non continuabililà della violazione del diritto; poichè è questa che dà al delitto l'indole successiva, e porge agli alti posteriori l'identità di obietto con gli anteriori consumativi. L'idea di questa distinzione trovo che si era rivelata anche al Mommaerts, e ch'ei l'accettava senza per altro svolgerla. - De criminum fautoribus pag. 22 (Lovanio 1827.- Nam qui rem furtivam celat atque recipit non solum aliquatenus id efficere potest ut crimen impunitum maneat; sed etiam receptatores rerum furtivarum impediunt quominus res ablatae domino restituantur. Ideoque damnum ejus, atque delictum furis quasi continuant. Eo magis ii puniendi videntur si in lucro participent, quod plerumque fieri solvi.

§. 481. Le antiche scuole confusero nella complicità indistintamente tutti i fatti posteriori ad un delitto; ed anche quelli che non potevano avere altro fine, tranne di procacciare al colpevole l'impunità. Questo fu un errore. Colui che seppellisce la vittima di un omicidio, senza avere precedentemente promesso quest'opera al micidiale, non può dirsi complice dell'omicidio. Alla prima violazione era costui estraneo sì moralmente che materialmente. Il diritto di quell'infelice alla vita non era più suscettibile di esser violato; nè lo violava per certo colui che dava sepoltura alla fredda salma. Trovare l'obietto di tale delinquenza nel diritto alla vita di quell'infelice, era l'istesso che dare per obietto ad un reato un diritto non più esistente, non più suscettibile di essere offeso: e effettivamente non violato dall'atto posteriore.
§. 482. Le scuole moderne corressero cotesto errore, distinguendo il fautore dall'ausiliatore. Ma io penso che trascendessero nella correzione, quando, senza distinguere tra reati istantanei (mi valgo della formula di M. Ortolan) e reati che continuano la violazione del diritto (detti già da Jousse successivi): e senza distinguere fine da fine; gittarono nella classe dei favoreggiamenti tutti gli atti che senza patto anteriore si potevano porre in essere dopo il delitto. Colui che per fine di lucro scientemente dà opera a liquefare l'argenteria che a me è stata rubata, affinchè il ladro possa giungere all'ultima meta del suo delitto; cioè la propria locupletazione; non aiuta il ladro a ingannar la giustizia, ma a compire la violazione della mia proprietà. Costui viola il mio diritto di proprietà, che malgrado il furto è tuttavia saldo e vivace; e da questa violazione deve desumersi la misura della sua imputazione. Tale almeno è la mia opinione conforme a quella dei criminalisti italiani fino ai dì nostri, e dei criminalisti francesi anche modernissimi.
§. 483. In una parola l'essenza materiale della complicità sta in questo - che l'atto cui vuole applicarsene la nozione sia stato causa della violazione del diritto da cui tragge il suo titolo l'azione principale. - Se l'atto interviene quando il diritto non era più violabile, è repugnante ravvisarvi un atto di complicità; e non può perseguitarsi che come delitto isolato secondo i suoi fini ed effetti. Ma quando il diritto era sempre violabile, e l'atto sopraggiunto dopo la prima violazione lo ha realmente offeso di nuovo; e il fine dell'agente era appunto diretto contro questo diritto (come è evidente in colui che dolosamente ricettando l'oggetto furtivo, porta l'avida mano sulla, cosa altrui per farne lucro), quest'atto, se non può dirsi causa della prima violazione già esaurita, può hene dirsi causa, come realmente lo è, di una violazione ulteriore recata al diritto di proprietà. E una prosecuzione (come acutamente osservò M. Trebutien) della prima offesa; ed è atto di complicità.
§. 484. Sicchè riepilogandomi, dovrebbero a mio parere dividersi i partecipanti al delitto altrui in cinque categorie
- 1.° i motori: che possono essere o esclusivi, o concomitanti
- 2.° gli autori: ai quali si assimilano i coautori, o correi
- 3.° gli ausiliatori: che possono essere o prossimi, o remoti; o necessarii, o accidentali,
- 4.° i continuatori
- 5.° i fautori.
- La ricettazione, come titolo speciale costituito dalla abitualità del ricovero di cose o persone, non ha alcun nesso col delitto principale. Tanto è ciò vero, che per alcune giurisprudenze per avere questo titolo di delinquenza non sempre è neppur necessaria la verificazione di un delitto consumato.
4. Anomalie dell'imputazione nella complicità.
§. 485. I principii fondamentali di giure penale sono assoluti. E appunto perchè sono assoluti, le regole applicative variano con le modificazioni dei fatti: perchè la regola applicativa deve sempre obbedire al principio; e non questo arrendersi a quella.
§. 486. è principio assoluto che l'imputazione si misuri sulla ragion composta della forza morale e della forza fisica del delitto. Come altrettante deduzioni di cotesto principio noi trovammo le regole secondo cui l'imputazione del mandante, del socio, del consigliere, del correo, o dell'ausiliatore si gradua proporzionatamente a quella dell'autor principale. Ma tali regole di proporzione presuppongono lo stato ordinario e normale del respettivo concorso delle volontà o delle azioni.
§. 487. Or questa normalità può sparire ogni qualvolta intervenga una modificazione, o nei rapporti che legano i partecipanti tra loro; o nei loro rapporti con la legge penale.
Ciò può verificarsi in tre modi diversi
- 1.° ove non sia stata coerenza perseverante tra le volontà degli agenti
- 2.° ove sia mancata la coerenza dell'azione alla volontà del partecipe
- 3.° ove non siavi coerenza nella posizione giuridica delle persone.
A completare la teoria rimane si spieghino questi tre casi di possibile modificazione.
Ricorderemo con M. Tissot l'aurea regola: in materia penale quanto più si distingue più siamo certi di amministrare giustizia.
§. 488. - Primo Caso - Cessazione di coerenza nelle volontà - La coerenza della volontà dell'autore con la volontà del suo complice, e viceversa, deve avere in qualche momento esistito, altrimenti non vi sarebbe complicità (§. 432 e segg.) in nessun caso.
§. 489. Ma l'accordo nato una volta fra i più malvagi, e che gli ha legati in un rapporto giuridico verso la legge punitiva, può esser rotto per una mutazione di volontà avvenuta in un solo dei più consociati. E qui variano le regole, secondochè tale resipiscenza è avvenuta, o nel delinquente principale, o nell'accessorio.
§. 490. Se si è pentito colui che doveva essere esecutore del delitto, distinguesi:
§. 491. 0 si pentì prima di aver nulla operato; ed il suo pentimento giova al socio, all'ausiliator e, al mandante in questo senso: che non essendo intervenuto verun atto esterno di esecuzione, manca il fatto principale su cui possa cadere la imputazione, e non può senza vizio logico parlarsi di complicità, cioè di accessorio a ciò che non esiste. L'accordo criminoso può tutto al più in certi casi imputarsi a colui che perseverò nel reo volere, come delitto di per sè stante.
§. 492. O l'esecutore si pentì dopo aver già posto in essere atti esterni costituenti la materialità di un tentativo: ed allora quel tentativo potrà non essere imputato a colui che si pentì; perchè rapporto a lui si avrà un delitto rimasto imperfetto per causa volontaria (§.391); ma sarà sempre il tentativo stesso imputabile all'altro, perchè rapporto a lui il pentimento dell'esecutore è un fortuito, indipendente dalla sua volontà.
§. 493. Se poi il pentimento non si verifica nell'esecutore, ma nel mandante, nel socio, nel consigliere, o nell'ausiliatore, bisogna distinguer di nuovo.
§. 494. O quel pentimento rimase ignorato all'esecutore; il quale condusse a termine il delitto in coerenza al primitivo accordo: ed allora il pentimento nulla giova a scusare il partecipe, come nulla giovò ad impedii e l'esecuzione del delitto alla quale egli avea dato valido impulso.
§. 495. O quel pentimento fu conosciuto tempestivamente dall'esecutore; il quale, malgrado conoscesse la variata volontà del suo compartecipe, perseverò per conto proprio, e condusse, a fine il delitto: ed allora per regola il solo responsabile rimane l'esecutore.
§. 496. Cotesta regola però si fonda sul concetto che il delinquente accessorio comunicando tempestivamente, sebbene non utilmente, il suo variato consiglio all'esecutore, abbia distrutto per parte sua tutti gli effetti del suo primo disegno, e dell'accordo primitivo. Perciò ove tale supposto cessi, ella è necessità logica riconoscere la perseveranza della imputabilità nel partecipe, ad onta del suo pentimento, e della manifestazione tempestiva di cotesto pentimento.
§. 497. Ciò accade quando il partecipe abbia ajutalo ai primi atti delittuosi, o dato istruzioni, o somministrato mezzi, che poscia abbiano effettivamente servito a consumare il delitto. In cotesto fattispecie il primo atto malvagio del partecipe che ebbe efficienza sul delitto, non può essere cancellato dal secondo atto di resipiscenza, che non fu efficiente ad impedirlo. L'imputabilità resta malgrado cotesto futile pentimento, a menochè il partecipe non abbia spinto la sua resipiscenza fino al punto di agire con ogni suo possibile per impedire il delitto.
§. 498. - Secondo Caso - Mancata coerenza dell'azione alla volontà -. Ciò avviene quando l'esecutore del delitto produce un effetto più grave, e viola un diritto più impostante di quello previsto dai suoi partecipi. L'ordine del mandante, le istigazioni del consigliere, gli accordi del socio, i preparativi dell'ausiliatore, tendevano per esempio al semplice ferimento dell'inimico: l'esecutore lo ha ucciso: saranno gli altri responsabili dell'omicidio? (1).

(1) La piena responsabilità dell'eccesso si sostenne da molti - Bohemer elem. 2, 16, 215. - Mattheo de crim. 48, 5,3 - Bergero oecon. 3, 5, 36; e 3, il, 42 - Eisenhart opusc. pag. 67 - Carpzov i, i, 17 - Combattè energicamente tale opinione il Puttmann crim. opusc. op. 1.

§. 499. Due principii vengono a conflitto. Da un lato si obietta che quei partecipi avendo influito sul mettere in moto il braccio dell'autor fisico del delitto, sono in certa guisa cause di questo. Dall'altro si oppone che non può esservi mai responsabilità penale dove non ricorre la volontà.
§. 500. Il conflitto si dirime distinguendo fra eccesso nei mezzi, ed eccesso nel fine.
§. 501. Si ha eccesso nei mezzi quando l'esecutore ha usato mezzi diversi da quelli concertati coi partecipi: il disegno comune eia di usare il bastone; e l'esecutore si valse di stile. In questo caso la responsabilità pesa tutta sull'autor dell'eccesso; unica causa del più grave risultato.
§. 502. Si ha eccesso soltanto nel fine quando, sebbene i mezzi adoperati fossero quei medesimi che si volevano da tutti, produssero però un effetto più grave di quello previsto. In simil caso se l'effetto più grave nacque per conseguenza naturale del fatto, o per semplice colpa dell'esecutore, la responsabilità si comunica: perchè quantunque i partecipi non prevedessero nè volessero quel fine, pure vollero dolosamente quei mezzi che per natura loro produssero il risultato più atroce. Ciò li rende responsabili del titolo più grave: sebbene però non valga a trasportare la qualifica del dolo di proposito dal caso previsto e voluto al titolo non previsto nè voluto.
§. 503. Se però l'eccesso, anche nel mero fine, provenne da dolo speciale dell'esecutore, egli solo ne è responsabile.
§. 504. Nè si deve perder di vista che le regole relative all'eccesso; che trovano congrua applicazione nell'istesso genere di delinquenza; non procedono però nel tema di delitti diversi. In questa ben distinta fattispecie sono costanti le regole di irresponsabilità stabilite di sopra (§. 435).
§. 505. - Terzo Caso - Mancata coerenza nella posizione giuridica dei condelinquenti. Le circostanze materiali inerenti al fatto ciiminoso si comunicano frai più compartecipi al delitto. Le circostanze inerenti alle persone non si comunicano. La complicità non è mai accessione alla persona, ma al fatto: è reale, non personale. Questa regola è assoluta: ma sorgono difficoltà nella sua applicazione.
§. 506. Vi sono delle circostanze così intuitivamente personali, che non può emergerne occasione di dubbio. La minoretà, l'errore, l'ebrietà, il sordomutismo, la demenza, la veemente passione (1) di uno dei partecipanti al delitto, nissuno vorrà sostenere che comunichi il benefizio della scusa agli altri partecipi, che si trovano in condizioni di piena imputabilità. Nè la forensità, o lo stato di recidivanza potrebbe mai come ragione di aggravio portarsi a carico dei compagni, che non sono forestieri nè recidivi.

(1) è stato oggetto di elegante disputa fra i pratici il caso del marito che sorpresa in adulterio la propria moglie, comandò al figlio od al servo di ucciderla. Fanno valere a prò dell'esecutore la scusa che proteggeva il marito offeso, Farinaccio quaest. 121, n. 18, ed altri: per la ragione che l'esecutore sapeva le conseguenze giuridiche del giusto dolore sul fatto che gli veniva comandato. Ne dubitò Harpprecht disp. 1 n. 345. Vi si oppose Covarruvias in epitome part. 2. cap. 7 §.7 n. 5 - Ove dopo aver confessato che questa è la comune dottrina degli scrittori, ne oppugna per altro la verità. E noi pure la crediamo meno vera. Soltanto ravvicinando questa ipotesi alla ipotesi del complice del figlio parricida, ci sembrerebbe che le due questioni volessero esser decise con un criterio uniforme.

§. 507. Del pari vi sono delle circostanze che sono così intuitivamente materiali, da non porgere occasione di dubbio circa la loro comunicazione a tutti i partecipi. Lo scasso, la scalata, la falsa chiave, la violenza, ed altre circostanze materiali che abbiano servito di mezzo al furto, e che ne aumentano la quantità politica, non possono non essere comuni a tutti coloro che scientemente presero parte al delitto così qualificato, benchè costoro non abbiano per avventura di propria mano operato essi la violenza o la effrazione. Coteste circostanze sono così unificate al fatto criminoso, che non se ne possono declinare le conseguenze da chi volle o coadiuvò il fatto accompagnato dalle medesime.
§. 508. Tutta la difficoltà nasce in ordine a certe circostanze; le quali ben lungi dall'esser reali, sono propriamente intrinseche alla persona; ma pure influiscono sul titolo del reato. La domesticità nel ladro, dalla quale nasce il titolo di famidato, si comunica essa ai compagni non domestici? La qualità di pubblico ufficiale deteriora essa le sorti dei partecipi del falso commesso dal tabellione? La qualità di figlio nell'uccisore aggrava essa anche la responsabilità dei partecipi nel parricidio?
§. 509. Quando coteste qualità meramente personali, oltre ad influire sul titolo (lo che può configurare un'efficacia meramente nominale) o danno l'essenza al nuovo reato, o ne furono mezzo ed occasione, deve certamente farsene rinfaccio anche a coloro che nella propria persona non le avevano, ma che al fatto di chi le aveva paiteciparono con scienza delle medesime; e così delle medesime profittarono. Quando niente di ciò si verifica, le opinioni sono divise (1); ma sembra soverchio rigore il comunicare un'aggravante a chi in sè non ne aveva la causa, per la mera ragione dell'ossequio alla nomenclatura.

(1) Carmignani insegnò la dottrina della comunicazione. - Rossi acremente difese la non comunicazione dell'aggravante. - Molenès De l'humanitè dans tes lois criminelles, pag. 549: Boitard, Le Graverend, Chauveau et Helie ed altri sono per l'incomunicabilità. - Bertaud Derniere leçon pag. 437 avverte che la dottrina è per l'opinione più mite, e la giurisprudenza per la più severa. Ma si decide per questa - Trebutien dopo qualche esitanza mostra propendere per la comunicazione; e si tranquillizza poi (pag. 200) con avvertire che il giurì avrebbe ammesso pel complice non figlio le circostanze attenuanti. Cosi il sistema delle circostanze attenuanti, che lascia senza fisonomia la giustizia pratica, conduce all'indifferentismo sui principj scientifici, e si lascia ai giudici la cura di farla da legislatori. - Mounier (revue critique vol. 13 pag. 86) sostiene la parificazione della pena pel complice sì del parricida, come del notaro che abbia falsificato un pubblico documento - Ortolan (n. 1284, 2.°) ammette che la dottrina corrente fra i teorici è quella della non comunicabilità. Ma (n. 1285) egli si dichiara in massima per la comunicabilità tutte le volte che la qualità personale influisce, come diciamo noi, sul titolo; o, come egli dice, sulla criminalità del fatto, e non sulla sola criminalità della persona. Ne limita per altro (n. 4286) l'influenza per guisa da render sempre disuguali le sorti dei partecipi. - Rauter spinse il suo rigore fino a dirci (n. 119) che il complice partecipa la responsabilità delle qualità personali dell'autore, ancorchè egli le abbia ignorate! Proposizioni che parrebbe impossibile si potesser leggere in un libro pubblicato ai nostri tempi, se questo ed altro non ci fosse spiegato con le tradizioni di Jousse e di Vouglans (il grande nemico di Beccaria). Con ciò si bandisce il requisito dell'elemento intenzionale nella complicità; e si cade nella più assurda contradizione. L'ignoranza dei suoi rapporti personali con l'ucciso esclude il titolo di parricidio anche nello stesso figlio uccisore del padre, perchè quanto al parricidio è errore essenziale: e si osa sostenere che tale ignoranza non giova al complice!

CAPITOLO X
Del delitto continuato.

§. 510. Fin qui abbiamo considerato la posizione giuridica di un uomo a cui si vuole imputare, o come autore o come complice, la violazione di un solo diritto, o consumata o tentata.
§. 511. Abbiamo considerato ancora la posizione giuridica di colui a cui si rimproverino più violazioni, l'una delle quali abbia servito di mezzo all'altra: ed abbiamo veduto come un delitto si compenetri con l'altro, e si unifichi (§. 52 e §. 170).
§. 512. Abbiamo considerato ancora il caso di chi abbia commesso più violazioni per più distinti fini: ed abbiamo di volo notato, che tanti sono i fini, tanti sono i delitti di cui l'agente è imputabile distintamente l'uno dall'altro. Ma quest'ultima regola ha bisogno di ulteriore sviluppo.
§. 513. La regola procede tranquilla se i fini diversi rappresentano più violazioni di diversa legge penale: per esempio alcuno rubò e stuprò, anche nello stesso contesto di azione; nessun dubbio sulla regola. Son due delitti distinti.
§. 514. Ma se l'agente colle ripetute violazioni offese sempre una stessa legge penale, il fine allora delle più violazioni sembra unificarsi; almeno sotto un punto di vista generico; e l'unificazione del fine sembra dover portare ad unificare anche il reato. Ecco la teoria sottilissima della continuazione: che deve la sua origine alla benignità dei pratici che con ogni studio tentavano diradare la pena di morte inflitta al terzo furto.
§. 515. Fu notata la differenza fra delitti nei quali la violazione del diritto si esaurisce in un solo momento; e delitti nei quali la violazione del diritto prosegue anche dopo il momento della sua consumazione. Così nell'omicidio, nella lesione personale, nello stupro, la violazione del diritto si esaurisce coll'atto dell'uccisione o del ferimento: dopo il quale non continua nè si prolunga, sebbene continui il male già prodotto dall'infrazione. In altri delitti invece la violazione si prolunga (o può prolungarsi) indefinitamente: come per esempio l'associazione di malfattori, la congiura, l'usurpazione del possesso altrui, il ratto, il plagio, il deposito di armi, il carcere privato, la bigamia, ed anche sotto certi aspetti il furto. Quelli furono detti delitti istantanei (§. 52); questi dagli antichi si chiamarono successivi (quasi aventi insita una progenie di violazioni) altri li chiamò continuanti, altri permanenti; altri modernamente li disse cronici.
§. 516. Questa distinzione non è propriamente quella in cui risiede la teoria del delitto continuato.
§. 517. La nozione del delitto continuato (nel senso almeno con cui si è sempre intesa dai pratici italiani) presuppone la ripetizione di più azioni, ciascuna delle quali rappresenti una perfetta (1) violazione di legge. Quando il delinquente persevera nelle congreghe ribelli, nel godimento del possesso usurpato, nella ingiusta detenzione del cittadino, nell'abuso doloso di cosa altrui, tale prosecuzione del delitto, se può mostrare la perseveranza del pravo animo, non sviluppa però ulteriori violazioni di legge. Qui non può nascere il dubbio che si tratti di più di un delitto. La prosecuzione consiste nel tener vivi gli effetti del primo delitto in un modo quasi negativo, piuttosto che con un rinnovamento di azione in cui veramente sia una seconda infrazione della legge.

(1) Di qui la grave questione se possa obiettarsi la continuazione nel tentativo, e nel delitto mancato. La questione fu proposta in un caso pratico alla Corte Regia di Lucca, ma fu piuttosto evasa che risoluta.

§. 518. La continuazione in cotesti reati è così inerente alla natura loro, che non è possibile farne una specialità nei singoli casi; o pretendere di rinfacciare al colpevole della prima infrazione, il secondo atto come una nuova infrazione di per sè stante.
§. 519. Perchè si abbia l'aspetto di più delitti bisogna vi siano più azioni rappresentanti ciascuna di per sè una nuova offesa alla legge. Ora data questa pluralità di azioni, il rigor de' principii avrebbe richiesto che all'autore delle medesime si imputassero tutte, come altrettanti distinti titoli di delitto. Ciò portando per necessità logica ad un'agglomerazione di pene che poteva essere esorbitante, i pratici introdussero la dottrina della continuazione; la quale ha lo scopo benigno di considerare i più delitti come un solo delitto continuato; onde applicargli una imputazione complessiva, più grave di quella attribuibile al delitto unico, ma non mai equivalente alla somma risultante dal cumulo delle imputazioni dovute a ciascuna infrazione.
§. 520. Da ciò è intuitivo che la continuazione non è in modo assoluto una circostanza aggravante, poichè porta l'effetto di diminuire la imputazione di tanto, di quanto l'imputazione che si dà ad un delitto solo (aumentata per la continuazione) differisce dalla imputazione della prima violazione, sommata con la imputazione della seconda, e della terza, ed oltre secondo i casi. Checchè possa essersi detto dalle giurisprudenze, in obbedienza (o vera o creduta) di certi diritti costituiti, è chiaro in faccia ai principi razionali che la continuazione non può mai esser portata all'effetto di infliggere ai più fatti una pena maggiore di quella che recherebbe la somma delle pene dovute a tutti i fatti. Ciò è dimostrato dalla storia di questa teoria: e dalla ragione di cui si ispira, che è quella di trovare nei fatti continuanti, non già più e diverse determinazioni criminose, ma una sola. Essendo innegabile che debba tenersi come più scellerato chi più volte si è determinato al delitto, che noi sia chi vi si è determinato una volta sola, è repugnante punir più questo che quello. è in questi difficili conflitti di applicazione che la giustizia pratica sembra spesso fuorviare dai dettati della giustizia razionale; e porge il fianco alle amare censure dei socialisti.
§. 521. A ben definire il delitto continuato è necessario stabilire due criteri distinti. L'uno per discernere il caso del delitto continuato dal caso dei più delitti. L'altro per distinguere il delitto continuato dal delitto unico. Avvertenza non sempre chiarita abbastanza, e la cui dimenticanza divenne feconda di equivoci. Due scrittori sembreranno concordi perchè dicono entrambi - questo non è caso di delitto continuato. Ma l'uno nega la continuazione perchè sostiene che sono più delitti: l'altro la nega perchè sostiene che è un delitto solo. E invece di essere concordi sono agli antipodi.
§. 522. Distinguere il reato continuato dal molteplice è agevole, tostochè si risalga ai principi costitutivi del delitto. Prima di tutto è necessario, per escludere la pluralità, che si tratti di più violazioni della stessa legge. L'identità o unità di legge violata è dunque il primo requisito per escludere la pluralità dei reati. Ove i più atti violino diverse leggi, è evidente che (per la moltiplicità degli oggetti) si ha più di un delitto da imputare; tranne il caso che si unifichino nel rapporto di mezzo a fine.
§. 523. Ma non basta l'unità di legge. Ogni delitto ha la sua essenza da un elemento morale (intenzione) e da un elemento fisico (atto esterno). Quando si è trovata la pluralità di atti esterni violatori della stessa legge, si ha una moltiplicità di elemento fisico: ma per avere la pluralità di delitti si esige ancora la pluralità di elemento morale. Questa nel delitto continuato non si ha; e la ragione è intuitiva. Quando si è imputata la prima azione, si è imputato l'elemento fisico A; più l'elemento morale B, costituito dalla determinazione criminosa. Quando si procede ad imputare la seconda azione, si imputa l'elemento fisico C, distinto dall'elemento fisico A; e si imputa di nuovo l'elemento morale B, perchè essendo unica la determinazione, l'elemento morale, che si congiunge con gli elementi fisici A, e C, è sempre l'identico elemento B. Dunqne dando un'imputazione integrale a ciascuna delle due azioni si cade nell'ingiustizia, perchè si torna ad imputare due volte l'identico elemento morale di cui l'accusato ha già sofferto la prima imputazione.
§. 524. Perciò l'unità di determinazione, congiunta all'unità di legge violata, deve sempre portare ad escludere la pluralità di delitti.
§. 525. Nè dicasi che cotesto argomento proceda eziandio quando con un'unica determinazione si deliberi la violazione di più leggi diverse; perchè la diversità di obietto (coerentemente sempre all'idea che l'obietto del delitto è la legge) rende impossibile per necessità ideologica l'unificazione della determinazione. Tranne quando una violazione stia all'altra come mezzo a fine, la risoluzione di violare una legge è ideologicamente distinta nella sua genesi e nei suoi momenti, dalla risoluzione di violare un'altra legge diversa. Ne può essere contemporanea la concezione; ma unica nò.
§. 526. Dunque ove sia pluralità di azioni, ma unità di legge violata e di risoluzione criminosa, non potrà ammettersi pluralità di delitti. La si dovrà solo quando abbiasi pluralità di azioni, e pluralità di risoluzioni, tanto se le leggi violate siano una stessa o diverse.
§. 527. Ma tutte le volte che si avrà pluralità di atti esterni diretti contro la medesima legge, e provenienti da una medesima risoluzione criminosa, si avrà egli sempre il delitto continuato? No. La regola che è assoluta nel primo senso, non è assoluta in questo senso rovescio, perchè non sempre la pluralità di atti materiali porta a dover dire che si hanno più violazioni compenetrate in un delitto continuato. Spesso malgrado la pluralità di atti materiali, si ha il delitto unico. Per chiarir questa idea pare a me che sotto il punto di vista scientifico si debba insistere sulla distinzione fra atti e azione.
§. 528. Sarebbe assurdo stabilire che la pluralità di atti offensivi della medesima legge, e procedenti da una sola determinazione, conduca sempre al delitto continuato. Prendiamone ad esempio il furto. Colui che entrato in mia casa ruba cento scudi, qualora li trovi tutti in un sacco e con un solo atto li prenda, evidentemente pone in essere un'azione unica. Ma se la pluralità di atti portasse per regola assoluta alla continuazione, bisognerebbe dire che se quel ladro trovò i cento scudi sparpargliati; sicchè dovesse prenderne prima dieci, poscia altri dieci per porseli in tasca, e così di seguito, avrebbe posto in essere un furto continuato. Infatti il primo atto di prendere dieci scudi e intascarli presenta di per sè un delitto completo; lo stender di nuovo la mano e prenderne altri dieci costituisce un secondo atto diverso dal primo, il quale è in sè pur esso un furto completo. Ma chi vorrebbe sostenere sul serio cotesta teoria! Tuttodì si commettono furti di parecchi oggetti; e nessuno mai si azzardò nel foro ad obiettare la continuazione ad un ladro perchè trovò il denaro sparso anzichè trovarlo nel sacco.
§. 529. Dunque vi deve essere un secondo criterio, pel quale, malgrado la pluralità di atti, sparisca anche la continuazione, per far luogo al delitto unico.
§. 530. Questo criterio bisogna trovarlo in ulteriori unità che, oltre l'unità di legge e di risoluzione, elidano la materiale pluralità degli atti, e ne costituiscano un'azione sola. Allora unificato il delitto nell'elemento fisico, come si unifica nell'elemento morale, bisogna che ne risulti l'unicità di imputazione sulla norma del delitto unico: il quale può essere o semplice (§. 52) o complesso, senza cessare di essere unico (1).

(1) Io non so convincermi che si possa referire ai delitti continuati il caso di un'archibugiata che abbia ferilo più individui. Unica la legge violata, unica la risoluzione, unico l'atto, ne avremo per la pluralità dei risultati, un delitto complesso. Ma trovare la continuazione giuridica dove sia un solo momento morale, e un solo momento fisico, pare alla mia tenuità repugnante almeno in teoria. E benchè il resultato porti due diversi titoli di delitto, p. e. l'omicidio di uno, e il ferimento di un altro, non sarà questo il caso della nota distinzione fra concorso formale, e concorso materiale? Forse questa materia non ha ancora ricevuto dalla scienza il suo ultimo svolgimento.

§. 531. Ora quali saranno le ulteriori unità per cui si unifichino i più atti consecutivi? Taluno ripose cotesto criterio nella unità di condizioni del soggetto passivo del delitto. Così se un ladro introdottosi in mia casa ruba contemporaneamente più cose appartenenti tutte a me, fu detto essere un furto unico, benchè caduto sovra più cose, e risultato da più atti. Ma se alcuna di quelle cose era di altro proprietario, che l'avesse colà lasciata, si pretese che il furto dovesse dirsi continuato. Ma questa sottigliezza non persuade l'animo; e perchè non risponde a giustizia; e perchè fallace la ragione di cui si vorrebbe avvalorare. Non è vero infatti che nel secondo caso siavi la violazione di più di un diritto, e nel primo caso la violazione di un diritto solo; perchè anche nel primo caso se il diritto soggettivo è unico, è però diverso il diritto oggettivo; cosicchè anche allora potrebbe dirsi che è violato più di un diritto; cioè il mio diritto sulla cosa A, e il mio diritto sulla cosa B, che pur sono distinti.
§. 532. L'unità o la pluralità dei soggetti passivi è dunque criterio fallace per unificare o moltiplicare i reati emergenti da più atti materialmente distinti.
§. 333. Piuttosto sembrerebbe accettabile il criterio dell'unità di luogo, e di tempo; per quanto possa esistere umanamente unità in cotesti rapporti. Secondo queste, la prudenza del giudice potrà non tener conto della materiale ripetizione degli atti: e considerandoli tutti come momenti di un'unica azione, ravvisare un delitto unico, dove potrebbe apparire la sembianza della continuazione. Altrimenti se con rigore ontologico si procedesse a sceverare atto da atto in un'azione delittuosa, col troppo sofisticare si verrebbe in certi generi di delitti a trovare nella continuazione il caso ordinario, e nella unicità una rara eccezione.
§. 534. Sente ognuno che certi delitti hanno insita, e quasi indispensabile, la ripetizione di atti positivi, ciascuno dei quali a solo sarebbe un delitto perfetto. Dovrà andarsi a cercare se l'accusato di oltraggio violento al pudore si limitò ad uri sol toccamento, o reiteratamente spinse la mano impudica sopra la renitente donzella? Si andrà cercando se colui che salì sulla pianta altrui colse un sol pomo e di quello fu sazio, o ne colse due? Se colui che ingiuriò, o minacciò,proferì una sola parola offensiva, o più d'una? In verità gli atti furon più: e ogni singolo di loro ha in sè quanto bisogna a presentare un delitto completo. Ma si cadrebbe nel ridicolo con questa rigorosa esattezza, facendo equivalere la moltiplicità degli alti alla moltiplicità delle azioni, solo perchè ciascuno atto offre un delitto completo.
§. 535. D'altronde l'unità di tempo non è una unità assoluta, umanamente possibile. Sicchè il criterio della continuazione con un'apparente anfibologia bisognerà desumerlo dalla discontinuazione. Guardare cioè se vi fu intromissione di atti. Se gli atti saranno continuati materialmente, con più facilità si dirà che non furono continuati giuridicamente; che costituiscono diversi momenti di una sola azione criminosa; e che abbiamo il delitto unico. Se saranno discontinuati materialmente, sicchè si abbia un intervallo rappresentante interrompimento dell'azione criminosa, si potrà con più facilità accettare l'idea non solo di più atti; ma bene di più azioni distinte; e così escludere affatto il delitto unico per ravvisare i più delitti, quando vi furono diverse risoluzioni; o il delitto continuato se vi fu l'unità di determinazione.
§. 536. Ma anche l'unità di risoluzione non deve intendersi con rigore ideologico. Conviene contentarsi di una unicità generica. Un servo, per esempio, si è procacciato una falsa chiave dello scrigno del padrone per rubarne alla spicciolata denaro. Vi torna due, tre, e più volte. Questo è, per comune consenso dei pratici, un furto continuato. Ma le risoluzioni sono altrettante, a rigore di termini, quante volte costui ad un dato momento si è determinato a tornarvi. Dopo la prima e la seconda volta poteva anche desistere. Vi è stato dunque bisogno di un nuovo atto di volontà perchè egli vi torni la terza volta. Pure si considera anche il terzo fatto come il risultato di un'unica risoluzione criminosa, perchè unica fu la risoluzione generica: quella cioè di rubare da quello scrigno quante volte ne avesse avuto fantasia od occasione. Le succedanee determinazioni speciali, sono sempre attuazioni, o svolgimenti, della prima (1).

(1) Abbiamo in pratica dei casi di continuazione dichiarata in ordine a parecchi furti, commessi nel corso di molti mesi, in diversi luoghi, e a danno di parecchi proprietarii diversi.

§. 537. Sicchè epilogando il mio concetto su questo astruso e controverso argomento, direi in punto di astratta teoria
- 1.° Che la pluralità di azioni e di determinazioni porta alla moltiplicità dei delitti anche rispetto alla violazione della stessa legge.
- 2.° Che la diversità di leggi violate porta pure alla moltiplicità dei delitti quantunque apparisca esservi unità di determinazione e di azione, tranne il caso del delitto pedissequo come mezzo a fine
- 3.° Che la unicità di determinazione generica, e di legge violata porta al delitto continuato quando vi fu pluralità di azioni
- 4.° Che la unicità di determinazione, di legge violata, e di azione porta al delitto unico, quantunque si abbia una pluralità di atti
- 5.° che la unicità di atto porta al delitto unico, ma complesso, benchè siavi pluralità di diritti violati.
§. 538. Non occorre avvertire che la continuazione è inconcepibile nei delitti collettivi (§. 52) che hanno per estremo l'abitualità. è però a notarsi che la teoria della continuazione è importante non solo per la misura dell'imputazione, ma anche per la stessa imputabilità nel caso di prescrizione. Perchè se il delitto è continuato, la prescrizione non corre che dall'ultimo atto; se son più delitti, ognuno ha la prescrizione sua propria. Onde avviene che l'accusato; cui d'ordinario interessa unificare il più che possa le sue delinquenze; posto nel caso di invocare la prescrizione, si farà a sostenere che trattasi di più delitti onde aver la pena soltanto dell'ultima azione, non aumentata per la continuazione, sostenendo le prime prescritte.

CAPITOLO XI
Degli effetti giuridici del delitto.

§. 539. Svolta sotto un punto di vista generale la nozione del delitto, ed i suoi elementi; i suoi effetti naturali (danno immediato) e i suoi effetti politici (danno mediato); rimane che se ne veggano gli effetti giuridici; e questo ci avvia alla seconda sezione, ove si parlerà della pena.
§. 540. Agli effetti naturali del delitto, che vedemmo consisteie nel danno immediato risultante dalla sua» forza fisica; e ai suoi effetti politici, che vedemmo consistere nel danno mediato risultante dalla sua forza morale, corrispondono due diversi effetti giuridici, compresi sotto il generico risultato dell'obbligo alla riparazione. Fin quì abbiamo considerato il delitto come causa di un male; ora dobbiamo considerarlo come causa di diritti; e perciò appunto questi ulteriori effetti si dicono giuridici.
§. 541. Dal danno immediato sorge l'obbligo della riparazione civile; dal danno mediato l'obbligo della riparazione sociale.
§. 542. L'obbligo della riparazione civile si adempie col prestare l'indennità alla parte lesa: l'obbligo alla riparazione sociale si adempie col subire la pena, che è l'indennizzo alla società offesa pel disturbo cagionatole dal delitto.
§. 543. A ciascuna di tali obbligazioni corrisponde un'azione, perchè ciascuna sviluppa un diritto esigibile. Diritto nel leso alle indennità materiali: diritto nella società alle indennità morali.
§. 544. L'azione rispondente alla prima obbligazione dicesi azione civile: quella rispondente alla seconda obbligazione dicesi azione penale.
§. 545. Per portare queste azioni al conseguimento dei loro respettivi fini è necessario un fatto ulteriore. Questo fatto è il giudizio. Giudizio civile per ottenere la riparazione del danno immediato; del che si occupa il civilista. Giudizio criminale per conseguire la riparazione del danno mediato; lo che forma argomento della terza sezione del nostro corso; e del corso speciale di piocedura penale.
§. 546. L'azione civile spetta sempre al solo offeso, nel cui arbitrio è riposta la facoltà di sperimentarla.
§. 547. L'azione criminale spetta di regola alla società, e suoi rappresentanti che ne sono investiti: e però dicesi azione pubblica.
§. 548. Ma talvolta a cagione di un rispetto all'amore della pace, o al decoro ed interesse dello stesso offeso, le leggi trovano conveniente di far dipendere dalla volontà del leso anche la persecuzione penale del delitto patito: e allora questi delitti si dicono di azione privata.
§. 549. La repressione anche in tali casi si ordina nell'interesse della società, e non per sodisfare la vendetta privata. Ma il minore interesse che ha la società nella repressione di cotesti delitti; ed il maggiore interesse che può avere il leso a non dar loro una pericolosa pubblicità, incatenano il movimento dell'azione, senza però cangiarne la natura e lo scopo.
§. 550. La riparazione civile si ottiene, secondo i casi, in diversi modi.
O con la riparazione naturale; reintegrazione del diritto violato; come con la restituzione dell'oggetto involato, la riposizione del termine remosso, e simili.
O con la riparazione pecuniaria, quando la naturale non possa ottenersi, o per accidente, o perchè il diritto sia di natura non reintegrabile; nel qual caso il denaro, comune rappresentante di tutti i valori, fa le sue funzioni.
O con la riparazione onoraria; quando il delitto abbia offeso l'onore del cittadino, e a questo si voglia una speciale soddisfazione.
§. 551. La riparazione onoraria si faceva in antico con la palinodìa, che distinguevasi secondo i casi in recantatio solemnis, deprecatio, e declaratio. I costumi odierni vi hanno sostituito la inserzione ne' giornali, o la pubblicazione a stampa, della sentenza condennatoria.
§. 552. Non si può ammettere la riparazione che dissero vendicativa.
§. 553. Si ammette la riparazione sostitutiva, quando con giustizia si possa tenere il terzo civilmente responsabile per un reato commesso da altri: per esempio il padre pel figlio.
§. 554. è utile e doverosa la riparazione sussidiaria introdotta da qualche legislazione. Essa consiste nel costituire una pubblica cassa, che si impingua con le ammende inflitte ai delinquenti, e alla quale si ricorre per indennizzare i lesi del danno sofferto per un delitto commesso da persona insolvente. Non è morale che il governo si arricchisca sui delitti che non ha saputo prevenire. è morale che la società, dalla quale i buoni cittadini erano in diritto di esigere protezione, ripari agli effetti della mancata vigilanza. Questa verita (esornata modernamente dal Rhusemande fidejussione universali civium) fu proclamata nel Codice Leopoldino del 1786 all'art. 46 (1).

(1) Art. 46 - ivi - E siccome abbiamo considerato che quanto è dovere essenziale del Governo il prevenire i delitti, il perseguitarli, e gastigarli, altrettanto lo è di pensare ad indennizzare non solo i dannificati dai delitti dei rei, quanto ancora quelli individui, i quali per le circostanze dei casi, o certe combinazioni fatali si saranno trovati senza dolo, o colpa di alcuno sottoposti ad essere processati criminalmente, e molle volte ritenuti in carcere con pregiudizio del loro decoro, ed interesse, e di quello della loro famiglia, e saranno poi stati riconosciuti innocenti, e come tali assoluti: così avendo noi già provveduto col patrimonio pubblico per supplire alle spese di giustizia, che primi pagavansi dal fisco in parte col prodotto della confiteazione dei beni, e pene pecuniarie, vogliamo che venga fornita una cassa a parte sotto la direzione del presidente del Buon Governo nel dominio fiorentino, e nel senese dell'auditor fiscale di Siena; nella quale debbano colare tutte le multe, e pene pecuniarie di tutti i respettivi tribunali dello Stato, e della quale ne renderanno conto a Noi dì anno in anno. Da questa cassa, per quanto si estenderanno i suoi assegnamenti, dovranno indennizzarsi tutti quelli, che danneggiati per delitti altrui, dal delinquente da cui il danno è loro derivato non possono ottenere il risarcimento per mancanza di patrimonio, o per fuga; e tutti quelli i quali senza dolo, o colpa di alcuno (giacchè in questo caso chi avrà commesso il dolo, o la colpa sarà tenuto esso ad indennizzarli) ma solo per certe combinazioni fatali, o disgraziate saranno stati processati carcerati, e poi trovati innocenti, e come tali assoluti; purchè nell'uno, e nell'altro di questi casi abbia il giudice dichiarato doversi questa indennizzazione, e in quella somma che avrà liquidata, e tassata, e purchè in oltre dove vi è reo, o debitore dichiarato della detta indennizzazione, il dannificato faccia costare di avere usate tutte le diligenze per essere dal di lui patrimonio sodisfatto.

§. 555. Questa riparazione non dovrebbe però concedersi mai quando lo stesso leso fosse stato causa per propria colpa del delitto patito. Siffatta idea è coerente alla dottrina che insegna non doversi riparazione civile al leso che fu causa rimproverevole del proprio danno: per esempio, quando il ferito spinse l'offensore a ferirlo con grave provocazione. Questa è la teoria della compensazione del dolo, e della colpa respettivamente.
§. 556. In mancanza di cotesta istituzione della riparazione sussidiaria, deve almeno valere il principio, che sulle sostanze del reo trovi il leso sodisfazione privilegiata; e preambula ai diritti che ha il fisco per le ammende e le spese.

(1) Leg. 10 ff. de compensat - leg. 36 ff. de dolo malo - leg. 154 §. 1 ff. de reg. jur - leg. 39 ff. soluto matr.

§. 557. L'azione civile passa agli eredi, e contro gli eredi. L'obbligo alla riparazione civile ammette fidejussori.
§. 558. Avendo tale obbligo una causa tutta distinta dalla riparazione penale, deve nascere dalla legge, senza bisogno che al giudice criminalè ne sia fatta dimanda dal leso; nè che il medesimo lo dichiari. Il delitto è un fatto civilmente obbligatorio per ministero di legge.
§. 559. Fu detto che all'azione penale non corrispondeva obbligazione nel reo; perchè la natura avendo insinuato nell'uomo invincibile repugnanza a soffrire il male, non era conciliabile si concepisse un'obbligazione a patire un male. Quindi si volle persino assimilate ai diritti imperfetti il diritto che ha la società a punire i rei. E molti sistemi si immaginarono per isciogliere questo problema.
§. 560. Non panni che si possa trovare simiglianza nessuna tra un diritto imperfetto, ed un diritto esigibile. Ed il diritto a punire è nella società indubitatamente esigibile.
§. 561. Che se all'uomo repugna soggettarsi ad un male; ciò porta alla conseguenza di negare nel colpevole la obbligazione di agire per esser punito del suo malefizio. Ma non porta a negare l'obbligazione di patire. Non è una obbligazione positiva, che costringa a fare; ma una obbligazione del genere di quelle che i pubblicisti chiamano negative. Tali sono tutte le obbligazioni che vincolano tutti gli uomini verso l'uomo rispetto ai suoi diritti originarii. Nessuno, in virtù del semplice rapporto di umanità è obbligato a fare in guisa che altri goda ed eserciti questi diritti: ma tutti sono obbligati a non opporsi agli altri, e non impedirli di esercitare e godere tali diritti (1). E il diritto di punire è appunto a considerarsi come un diritto originario nella società civile. Esso è così connato e inseparabile da lei, che senza di questo non saprebbe concepirsi una società civile; stando la sua ragion d'essere ed il suo fine primario nella tutela del diritto (§. 607) e così nella punizione del colpevole; unico mezzo di esercitare cotesta tutela.
§. 562. La prima proposizione conduce alla conseguenza che non possa ascriversi a nuovo delitto quanto il reo ponga in essere per esimersi dalla pena in un moda puramente negativo (e come tale può considerarsi anche l'occultamento proprio, e la fuga senza violenza): purchè in questo suo sottrarsi, per naturale impulso, al male che lo minaccia non si configuri nessuna azione diretta contro la società. Quindi a me pare troppo rigida la sanzione di alcuni codici moderni, che hanno qualificato come circostanza aggravante la negativa dell'inquisito.

(1) Haus Doctrina juris naturalis §. 68.

§. 563. La seconda proposizione porta alla conseguenza che possa e debba ascriversi a nuovo delitto al colpevole (ed a delitto appunto contro la giustizia pubblica) quanto ecceda la mera resistenza passiva. Così il reo viola il diritto che ha la società di punirlo se corrompe il giudice, se lotta con gli apparitori, se con falsi documenti o falsi testimoni, inganna o tenta ingannare i magistrati.
§. 564. All'azione penale che ha la società corrisponde non una obbligazione positiva, ma un'obbligazione negativa, che rappresenta un vero e proprio dovere, non solo morale; ma anche civile.
§. 565. Le due azioni che nascono dal delitto sono nel loro esercizio indipendenti l'una dall'altra a vicenda. Infatti sebbene abbiano a comune la causa occasionale, cioè il fatto reo; hanno però distinta la causa giuridica, perchè nascono dalla lesione di diritti diversi; ed hanno distinto il fine.
§. 566. Prima conseguenza di questa proposizione si è, che possono instaurarsi contemporaneamente ambedue. Quella del leso avanti i tribunali civili per i suoi indennizzi: quella della società innanzi ai tribunali penali pel fine della repressione.
§. 567. Ove però questo duplice movimento accada, ella è regola razionale che si dia seguito all'azione penale precedentemente all'azione civile.
§. 568. Siffatta regola si limita quando l'azione penale involva una questione pregiudiziale di esclusiva competenza dei tribunali civili. In tali casi l'azione criminale si sospende finchè i tribunali civili non abbiano risaluta la questione civile.
§. 569. Seconda conseguenza di quella proposisizione si è: che, come la sentenza assolutoria proferita dal giudice civile sull'azione promossa dal leso contro il delinquente non può pregiudicare all'azione penale che spetta alla società; così la sentenza assolutoria, proferita sull'azione penale tra il pubblico accusatore e il delinquente, non pregiudica all'azione civile spettante al leso, quando questi non fu parte nel giudizio criminale, ed ancorchè avesse portato querela o denunzia. Sebbene infatti nei due giudizi siavi identità di causa, non vi è identità di oggetto nè di persona. Roberti vol. 1 pag. 310.
§. 570. Nè può dirsi che la rejudicata converta in verità anche le cose false: perchè una sentenza assolutoria in criminale non proclama come verità l'innocenza dell'accusato, ma la insufficienza delle prove raccolte al fine di punirlo.
§. 571. Nè può dirsi che la sentenza criminale assolutoria faccia stato sull'azione: perchè l'azione su cui fa stato è l'azione penale; e non la civile che là non si era proposta.
§. 572. Nè può dirsi che la sentenza leghi le parti: e pretendere che il pubblico ministero, rappresentando la società, abbia così nel giudizio penale rappresentato insieme con tutti i cittadini anche il leso stesso: perchè questa sottile finzione immaginata da Merlin non ha solidità, ove si rifletta che il pubblico ufficiale rappresenta i cittadini in quanto alla pena, non in quanto ai loro privati interessi patrimoniali.
§. 573. Terza conseguenza dell'anzidetta regola di indipendenza si è: che come la riparazione al leso, o la remissione del leso, sebbene estinguano l'azione civile, niente pregiudicano all'azione penale nei delitti di pubblica azione; così l'espiazione della pena, o la sua remissione fatta per indulto sovrano, niente pregiudica all'azione civile.
§. 574. Quarta conseguenza di tale indipendenza si è: che la prescrizione dell'azione penale non pregiudica all'azione civile, che voglia sperimentarsi avanti i tribunali civili (1), e viceversa.

(1) Il contrario fu sostenuto da Merlin; e disputano su ciò Bergèro Electa juris criminalis obs. 74 - Jousse 1, 600 - Carnot Code penal 1, 52 - Mangin, 355, 367 - Vazeille, 593 - Hoorebecke De la prescription pag. 211 - Coustorier De la prescription n. 57 - Rauter n. 853 - Labroguère Revue critique vol. 19 pag. 163, 171 - Trebutien, 2, 161. - Marcadè art. 2280 n. V.

§. 575. La prescrizione procede in ordine all'azione civile ed all'azione penale per principii sostanzialmente diversi; poichè la prescrizione penale emana da principii di ordine pubblico primario; quello dell'azione civile da principii di ordine pubblico secondario. Le due azioni sono due enti giuridici affatto distinti. Non può dunque accettarsi una parità di ragione fra effetto ed effetto: nè ammettersi che la vita di un'azione sia assolutamente incompatibile con la morte dell'altra.
§. 576. La prescrizione in materia civile è un'eccezione - in materia penale è un modo politico di estinguere l'azione. Alla prescrizione civile può rinunziare la parte; alla penale no, e deve supplirsi dal giudice. La prescrizione civile muove da una presunzione di incuria, e dall'idea di punire i negligenti; ed anco i maliziosi, che appositamente tardino a proporre l'azione onde siano difficultate le prove che potrebbero eliderla. Nella penale niente affatto ha che fare la presunzione di incuria; onde è un vero equivoco fare illazione alle prescrizioni penali della regola contra non valentem agere. In penale il tempo estingue l'azione perchè, oltre alla difficultata giustificazione dell'innocente, il tempo ha fatto cessare il danno sociale mercè la presunta oblivione della delinquenza; la quale conduce alla cessazione dell'impressione morale della medesima, sia sui buoni in cui è cessato il timore, sia sui malvagi nei quali non ha più forza il mal esempio. Cessato il danno politico si rende inutile la riparazione penale: ma il danno privato può persistere, e deve subire le regole speciali dei diritti meramente privati.
§. 577. Gli effetti giuridici del delitto hanno come ogni umana cosa, il loro respettivo modo di cessazione.
Si estingue l'azione civile con tutti quei modi pei quali le civili obbligazioni si estinguono: modi naturali, modi giuridici; dei quali il civilista.
Si estingue l'azione penale anch'essa per modi naturali, e modi politici.
§. 578. Modi politici sono quelli pei quali la legge estingue l'azione penale, benchè questa non abbia raggiunto il suo fine, e le fosse possibile tuttora raggiungerlo.
Tali sono la sentenza assolutoria; l'indulto sovrano; la remissione nei delitti di azione privata; e la prescrizione.
La sentenza assolutoria non estingue l'azione criminale, se non per rispetto al principio politico dell'autorità della cosa giudicata.
L'indulto (ben differente dalla grazia §. 710, 711) non ha altra ragione che l'utile generale della città: che in certi casi si trova più nella impunità, che nella punizione del colpevole.
§. 579. La prescrizione dell'azione criminale (il termine della quale varia secondo la diversa gravità dei delitti) è ammesso da tutti gli scrittori, e da tutte le legislazioni (1).

(1) Vedasi Bertaud, Lógon 2. Anche coloro che si rifiutano alla considerazione del cessato danno politico (come Bentham) l'ammettono per la grave difficoltà in cui verserebbe l'innocente, al quale la serotinità dell'accusa renderebbe malagevole e talvolta impossibile la propria giustificazione.

§. 580. La prescrizione dell'azione penale incomincia a decorrere secondo alcuni dal giorno del delitto; secondo altri dal giorno dell'ultimo atto di persecuzione, eseguito dal pubblico ufficiale contro il colpevole. Essa nel secondo sistema può interrompersi con atti di procedura; ma non ammette causa di sospensione (1).

(1) Labroguère - Questions sur la prescrìption. Question 6.

§. 581. Modi naturali sono quelli pei quali o all'azione è divenuto impossibile raggiungere il suo fine, e tale è la morte del reo; o lo ha raggiunto, e tale è la sentenza condennatoria definitiva; la quale fa nascere una nuova azione: l'actio judicati contro il delinquente. Dopo la condanna definitiva non resta che l'esecuzione della medesima.