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Francesco Carrara. Programma del corso di diritto criminale.

SEZIONE SECONDA

Della pena

CAPITOLO I
Idea della pena.

§. 582. La parola pena ha tre distinte significazioni
- 1.° in senso generale esprime qualunque dolore, o qualunque male che cagiona dolore,
- 2.° in senso speciale designa un male che si soffre per cagione di un fatto nostro, o malvagio, od incauto; e così comprende tutte le pene naturali,
- 3.° in senso specialissimo indica quel male che dall'autorità civile s'infligge ad un colpevole per causa del suo delitto.
Quando la scienza criminale passa a considerare nella pena il secondo oggetto delle sue speculazioni, usa la parola pena nel suo significato specialissimo.
Onde è chiaro che quando Grozio disse la pena - un male di passione incorso per un male di azione - definì la pena nel suo senso non specialissimo, ma speciale.
§. 583. Beccaria definendo le pene - ostacoli politici contro il delitto - espresse piuttosto il fine della pena come egli lo concepiva, anzichè darne la nozione. Carmignani oltrepassò i limiti di una definizione quando volle includervi la ragione di essere e la destinazione delle pene, e formulare con la definizione un sistema.
§. 584. Difficilmente nella definizione di un oggetto, si possono stringere i suoi fini e le sue cagioni. Le definizioni bisogna per lo più si arrestino ai caratteri costitutivi dell'oggetto. Ciò che riguarda la sua razionalità attiene allo sviluppo della teoria. Perciò definisco la pena - Quel male che in conformità della legge dello Stato, i magistrati infliggono a coloro, che sono con le debite forme riconosciuti colpevoli di un delitto - Se un male s'infligge a chi non è riconosciuto colpevole: o da chi non ne ha l'autorità; o senza legge che lo commini; o in modo arbitrario; questa sarà una vendetta, una violenza; ma non una pena in senso giuridico. Ma se invece il legislatore comminò la pena per fini irrazionali, o con esorbitanza dalla ragion penale; la pena potrà dirsi ingiusta, abusiva, dannosa: ma sarà sempre una pena.
§. 585. A completare la nozione della pena: a comprenderla cioè, non quale può essere di fatto, ma quale deve essere per dirsi giusta; a riconoscere in una parola le condizioni della sua legittimità; è necessario indagarne l'origine, e il fine. Queste due ricerche sono essenzialmente distinte.

CAPITOLO II
Origine della pena.

§. 586. Nella pena l'origine storica differisce dalla sua origine giuridica. E' necessario conoscere l'una distintamente dall'altra. Studiando la prima si cerca un fatto: studiando la seconda si cerca la genesi di un diritto.

Articolo I
Origine storica della pena
.
§. 587. E' necessità riconoscere come una verità autenticata dalle più remote tradizioni della razza adamitica, che l'idea della pena nacque nelle società primitive dal sentimento della vendetta. Duboys histoire du droit criminel.
§. 588. Nè può eccitare repugnanza che ad un atto oggimai riconosciuto come esercizio di giustizia, si siano condotti gli uomini per una colpevole e feroce passione.
§. 589. La provvidenza nei suoi alti disegni, volendo condurre il creato ad un sistema di armonìa universale, adoperò pel mondo fisico la forza tutta materiale dell'attrazione e della repulsione: potenze primarie; portentose ordinatrici dei corpi: le quali attuarono la legge eterna dell'ordine fisico; ed impreteribile la conservano.
§. 590. Del pari la provvidenza adoperò per l'ordinamento del mondo morale altrettante forze di istintiva tendenza od aborrimento: potenze primarie; e meravigliosamente direttive delle volontà: le quali attuarono la manifestazione della legge naturale regolatrice dell'ordine morale nell'umanità, precedentemente a qualsivoglia calcolo razionale, ed a qualsiasi dettato di umani legislatori.
§. 591. Così mentre la umanità si destinava dalla legge di natura a trovare il suo ordine nella società civile, furono i primi uomini sospinti al mutuo e permanente consorzio dalla attrazione di un bisogno morale, indefinitamente sentito: il quale precedette il calcolo e l'osservazione dei resultati benefici, che poscia dimostrarono razionalmente la necessità del nostro vivere nello Stato.
§. 592. E così pure gli uomini primitivi furono spinti dal sentimento della vendetta ad infliggere un male a chi aveva ad altri recato male; prima assai che i calcoli razionali dimostrassero ciò consentaneo a giustizia, e indispensabile alla tutela dei diritti umani. In tal guisa l'onnipotente conduce le creature alla cieca osservanza delle sue leggi. L'armonia universale è il risultato di un principio unico, costituito dal Supremo Motore, come organo dell'ordine, e del progresso nel creato, così nel mondo fisico, come nel mondo morale.
§. 593. Il sentimento congenito della vendetta privata, dalla sua natura di desiderio fu nelle società primitive elevato all'altezza di un diritto: diritto esigibile; diritto ereditario; diritto redimibile a piacere dell'offeso: diritto che per parecchi secoli si guardò come esclusivo dell'offeso, e dei suoi familiari. Ecco la genesi storica della penalità. Noi la troviamo nei libri di Mose, in Omero; e i viaggiatori l'hanno ritrovata nell'Asia, nell'Affrica, e nei popoli del nuovo mondo.
§. 594. Poscia civilizzandosi gli uomini per l'opera della religione, assunse questa la direzione universale dei loro sentimenti. Di qui il pensiero che i sacerdoti dovessero essere i misuratori della vendetta privata. Laonde, intromessa una volta l'idea religiosa nella penalità; e condotti i giudizii alla forma teocratica o semiteocratica; il concetto della vendetta divina venne sostituendosi a quello della vendetta privata. Pensiero nel suo nascimento utilissimo e civilizzatore: perchè quegli uomini, incolti nella loro fierezza, dai quali la vendetta tenevasi come diritto loro; non si sarebbero arrenduti a rassegnare cotesto supposto diritto nelle mani di altri esseri simili a loro. Egli fu facile invece persuaderli alla abnegazione di cotesto sentimento, insinuando loro che il sodisfarlo era un diritto esclusivo di Dio.
§. 595. Ma i popoli collo svolgersi della civiltà acquistarono l'idea dello Stato: e personificata in tal guisa la società civile, su questa nuova idea fondarono gli ordinamenti governativi, purgandoli poco a poco da ogni mistura teocratica. Allora alla nuova idea adattarono il vecchio pensiero della vendetta nelle pene. Non più guardossi il delitto come offesa al privato, o alla divinità; ma come offesa alla società intera. Non più la pena guardossi come vendetta privata, o vendetta divina; ma come vendetta dell'obesa società.
§. 596. In tal guisa dopochè il sacerdozio aveva ritolto al privato l'autorità di punire, costituendosene egli solo supremo moderatore, vide alla sua volta ritogliersi cotesto ministero dall'autorità dirigente lo Stato, come rappresentante l'offesa nazione. E primi i delitti politici, ultimi i delitti religiosi, sottratti alla giurisdizione clericale, ebbero la loro repressione per disposto di leggi civili, e per decreto di magistrati.
§. 597. Sempre però in tutto il corso di cotesto processo di idee, perseverossi a considerare la vendetta come idea dominante nella punizione dei delinquenti; e si corse per secoli con la formula della vendetta, o privata, o divina, o pubblica, senza gran cosa inquietarsi della legittimità giuridica delle punizioni. E tanto pareva naturale e ineccezionabile il così detto diritto di vendicarsi; che la divergenza nacque soltanto sul punto di stabilire a chi appartenesse cotesto diritto; e per conseguenza a nome di chi dovesse esercitarsi. Tale è il processo storico delle pene, quale può affermarsi come dimostrato dalla tradizione di tutte le genti. Ond è che gli antichi filosofi (non escluso Cicerone (1)) ebbero spesso come espressioni di un medesimo concetto ultionem, defensionem, e poenam.

(1) Vedi Thomasio insl. jur. div. lib. 3, c. 7.

Articolo II
Origine filosofica
.
§. 598. Ma i pensatori non si appagano sempre delle ragioni per le quali conducesi il volgo all'esecuzione di certi fatti. Essi si sollevano alla contemplazione dell'idea astratta del giusto, perchè sentono il bisogno di legittimare i fatti degli uomini con un principio razionale. Laonde anche nella antichità non mancarono filosofi, i quali, mentre i popoli correvano a punire pel sentimento della vendetta, ricercassero del punire più alta e più vera ragione, che non fosse quella di un sentimento feroce e vizioso. Cotesti pensieri non furono per altro che lampi fugaci, perchè l'ordinamento del diritto penale a teoria filosofica tutta speciale, era riserbato al secolo decimottavo.
§. 599. Fu allora che le vitali questioni del giure penale incominciarono ad occupare le menti; ed assunsero una preponderante importanza nelle scienze filosofiche. Ed allora si comprese il bisogno di rendere della pena una ragione giuridica; e di cercare se questo fatto ripetuto per tanti secoli, pel quale una creatura umana si dispoglia suo malgrado dei più sacri diritti, fosse un abuso della forza, o l'esercizio irrecusabile di un diritto.
§. 600. Ecco lo studio dell'origine giuridica della pena, che sussegue quello della sua genesi storica. Non più si cerca il perchè siasi fatto dagli uomini, ma il perchè si dovesse fare, e si potesse fare così. Onde, trovato al fatto un fondamento di diritto, possa il fatto stesso continuarsi con sicura coscienza dai reggitori dei popoli; e debba da questi rispettarsi non come sfogo di una passione dei potenti, ma come legittimo esercizio di un diritto al quale il delinquente non ha ragione di opporsi.
§. 601. In cotesta ricerca i moderni pubblicisti aberrarono per cento vie; diverse fra loro, e spesso contradittorie. Ma l'esposizione dei tanti sistemi ideati per dimostrare nella punizione un diritto; e la confutazione di ciascuno; eccederebbe il raggio di questo programma (1).

(1) è forse impossibile enumerare tutti i diversi sistemi che immaginarono i pubblicisti per dare al gius di punire il suo principio fondamentale: ed è anche difficile il distinguerli; perchè spesso, diversificanti nella corteccia delle parole, si unificano poi nella sostanza. Pure accennerò i seguenti.
- 1.° La vendetta - Hume - Pagano - Vecchioni - Bruckner - Raffaelli - Romano ed altri, confusero l'origine storica con la filosofica: ammisero che una prava passione potesse convertirsi in un diritto esigibile: e nel desiderio di vendicarsi, che dissero innato nell'uomo, trovarono la legittimità del giure punitivo. Concetto che ha in sè la repugnanza morale.
- 2.° La vendetta purificata (luden). La società punisce perchè l'offeso non si vendichi. Concetto incompleto: che falsa lo scopo del giure penale: che converte la pena in una protezione: che non dando ragione del diritto di far male a me perchè si teme che altri si vendichi di me, ritorna in fine al principio dell'utilità.
- 3.° La convenzione (Rousseau - Montesquieu - Burlamaqui - Blackston - Vattel - Beccaria - Mably - Pastoret - Brissot de Warville), o la cessione alla società del diritto privato di difesa diretta. Al che vennero o colla nuda asserzione del patto, senza dar ragione della potenza. O col figurare la cessione (Filangieri) del diritto che ha l'aggredito di uccidere l'aggressore: senza avvertire all'anacronismo, e alla diversità essenziale di condizioni fra diritto e diritto. 0 immaginando che il diritto di punire (Grozio - Locke - Micheli - Folkersma) appartenesse per legge di natura all'offeso per cautelarsi contro il nemico da offese ulteriori. E sempre sopra un'ipotesi falsa, ed assurda.
- 4.° L'associazione (Puffendorf). La costituzione della società sviluppa il giure punitivo, per ragione dell'unione stessa. Concetto del tutto empirico, che dà ragione del fatto col fatto; e ritorna nell'idea della convenzione; e così urta nello scoglio che il fatto dei padri non può vincolare la libertà dei figli.
- 5.° La riparazione (Klein - Schneider - Welcker). Principio assoluto che chi ha recato un danno lo ripari. Dunque il delinquente deve riparare il danno che ha recato alla società. Concetto che denatura la pena, e confonde il suo fine col suo principio.
- 6.° La conservazione - La società col punire esercita il diritto che ha ogni essere di conservare sè stesso: nè può conservarsi se non ferma il braccio degli altri col punire il delinquente. Lo che si espresse o con la semplice formula di conservazione (Schulze - Busatti - Martin): o con la formula della difesa sociale indiretta (Romagnosi - Comte - Rauter - Giuliani): o con la formula più vaga della politica necessità (Feuerbach - Krug - Bayer - Carmignani). Concetto che accenna la cagione del punire; ma non dimostra perchè la società abbia il diritto di punire uno per timore degli altri.
- 7.° L'utilità (Hobbes - Bentham) - Principio assiso sul falso postulato che l'utilità (intesa nel senso di bene materiale) dia il sommo principio del bene morale e la sufficiente genesi del diritto.
- 8.° La correzione (Roeder - Ferreira - Mazzoleni - Marquet-Vasselot). La società ha diritto di punire il colpevole per emendarlo. Concetto simpatico: ina che denatura la pena: e non può dar ragione del diritto che afferma, se non col farlo discendere dall'interesse sociale; cosicchè si confonde col principio dell'utilità.
- 9.° L'espiazione (Kant - Henche - Pacheco). è principio di giustizia assoluta che chi ha fatto male espii il suo fallo col patire un male. Formula vasta che autorizza la società a sindacare la moralità interna più che la esterna: e mercè la quale l'autorità civile usurpa un attributo divino. Onde la scuola eclettica vi aggiunse il limite della difesa sociale (Broglie - Rossi - Guizot - Remusat - Pouhaer - Belime - Haus). Col che se le tolse il principale suo vizio; non se ne tolsero però gli altri difetti. Perchè assumendo come prima base della pena l'espiazione, e configurandovi un'anticipazione della giustizia divina, è forza subire le esigenze della morale nel misurare le pene: e sì resta esitanti in faccia ad un fallo per altra guisa espiato: e si attribuiscono all'uomo cognizioni che sono esclusive di Dio. Difetti che con uguale fondamento si rimproverano al sistema della decadenza (Schmalz - Fichte): che consiste noll'affermare che l'uomo col delinquere, scade dalla sua dignità; e perciò può venire senza ingiustizia spogliato dei suoi diritti. Lo che ognuno comprende essere un'asserzione, e niente di più. Tutte queste formule, chejianno per base un principio morale astratto, mostrando nel delinquente il merito di esser punito, non spiegano perchè la punizione si infligga dall'autorità sociale, ed esclusivamente da lei: sicchè per giungere a cotesto risultato vi è bisogno di una seconda teoria, e di una seconda dimostrazione. Nel modo stesso che la formula della necessità sociale ha bisogno di una seconda teoria per dimostrare la ragion di essere dello Stato.
- 10.° La difesa continuata - Questa formula si è recentemente proposta da M. Thiercelin (Revue critique 1803 vol. 22 pag. 253), come un nuovo dettato: ma a me pare un mero svolgimento del principio della difesa diretta.

§. 602. Il diritto di punire nell'autorità civile emana dalla legge eterna dell'ordine applicata all'umanità; che è quanto dire emana dalla legge di natura. E quando io dico legge di natura, diritto naturale, non intendo già per natura le condizioni materiali dell'individuo umano. Questo falso concetto che generò tanti errori, porta a confondere gli appetiti, e i bisogni dell'uomo individualmente guardato, coi diritti dell'umanità. Gli appetiti umani possono essere talvolta la rivelazione spontanea della legge naturale, quando siano razionali: cioè coordinati al rispetto dei diritti di tutti. Ma la legge di natura non deve scambiarsi con la voce che in certi casi la promulga. Essa è precedente a cotesti appetiti; non procedente da loro: nel modo stesso che è precedente ad ogni fatto umano, e ad ogni umano ordinamento. La legge di natura è quale la concepiva Aristotele: la legge dell'ordine prestabilita all'umanità dalla mente suprema.
§. 603. In questa formula si unificano il principio della giustizia assoluta, della quale è il primo archetipo la legge naturale; il principio della conservazione, della quale è strumento divino la legge stessa; e l'assentimento spontaneo della coscienza universale, promulgatrice costante di quella legge. Queste tre idee si unificano in quella formula, non come tre cose distinte, che la fantasia di un eclettico ricongiunga per formarne un sistema; ma come tre elementi o condizioni insite per natura sua in un principio unico; e da lui inseparabili.
§. 604. La derivazione nella società del diritto di punire dalla legge di natura si dimostra mercè la catena delle seguenti inconcusse proposizioni:
1.° Che esiste una legge eterna, assoluta, costituita dal complesso dei precetti direttivi della condotta esteriore dell'uomo; promulgata da Dio all'umanità mediante la pura ragione. L'esistenza di questa legge si esprime dai giuristi teologi con la formula - legem naturalem hominibus imponere Deus et potuit, et debuit, et voluit. - Essa non può negarsi senza negare una mente nella creazione; o negarle gli attributi della sapienza, e della bontà.
2.° Che questa legge accorda all'uomo dei diritti, necessarii a lui per raggiungere la sua destinazione su questa terra. Riconosciuto che l'uomo sia dal creatore soggettato a dei doveri; non può senza assurdo non riconoscersi nella legge morale anche il carattere di legge giuridica; per la repugnanza che porterebbe in sè stessa una legge che imponesse dei doveri senza concedere i diritti che sono indispensabile mezzo per adempirli.
3.° Che della necessità assoluta in cui sono gli uomini di godere questi diritti, è necessità conseguente il diritto di esercitarne anche coattivamente la tutela, avverso coloro che per malvagio impulso violino il dovere, a tutti reciprocamente imposto, di rispettarli.
4.° Che dal libero esercizio di questi diritti, e dalla relativa obbedienza al dovere di rispettarli, nasce l'ordine morale esterno, voluto dalla legge di natura.
5.° Che il bisogno di quest'ordine, e cioè l'effettiva protezione dei diritti umanitarii, non è sodisfatto nella società naturale; per la doppia cagione, - dell'impotenza di affermare il giudizio sul diritto e sulla violazione - e dell'impotenza materiale di impedire o di riparare la lesione del diritto.
6.° Che dunque è necessità della natura umana lo stato di società civile: di una società, vale a dire, nella quale ai consociati sovrasti un'autorità protettrice dell'ordine esterno. Cosicchè l'ordine della società civile, ben lungi dall'essere un contrapposto dell'ordine naturale, è anzi l'unico ordine che la legge naturale impone all'umanità.
§. 605. Questa serie di proposizioni porta alla conseguenza inevitabile, che l'autorità sociale, voluta dalla legge eterna dell'ordine come unico mezzo possibile di tutelare i diritti dell'uomo, deve essere un'autorità armata di tutte quelle forze che le sono necessarie per raggiungere cotesto fine. E queste forze a lei attribuisce, non il consenso umano, o la convenienza politica; ma la stessa legge che la volle, e la volle per cotesto fine.
§. 606. Ma le forze meramente remunerative, e le preventive dell'autorità sociale non risponderebbero al bisogno, senza il diritto di punire i violatori della legge giuridica. Dunque da quella stessa legge dalla quale è voluta l'autorità ed il suo fine, è pure conferito nella medesima il diritto di punire. Se vi è fatto che esaminato a posteriori si dimostri come svolgimento di un principio universale ed assoluto, tale si è questo della punizione dei delinquenti. Rivelata all'uomo in tutti i tempi, e in tutti i luoghi sotto forma del sentimento di vendetta; purificata ai primi albori della civiltà coll'idea religiosa; ricondotta dal progresso dei lumi al suo vero carattere esclusivamente terreno; e finalmente portata alla sua ultima elaborazione col ravvisarvi non un diritto dell'offeso, del sacerdote o del principe, ma della umanità; la potestà punitrice si è mantenuta, attraverso tutte le idee e tutti i sistemi, uno scettro al quale le passioni umane si sono sempre e dappertutto curvate. Ciò mostra, io ripeto, che se vi è precetto che intuitiva riveli la sua emanazione dalla legge eterna regolatrice dell'umanità, tale si è questo della punizione del colpevole sulla terra.
§. 607. Perciò tanto è lontano che possa elevarsi il menomo dubbio sulla legittimità delle punizioni irrogate dall'autorità sociale; quanto invece la società civile ha per unica ragione assoluta del suo essere soltanto questa della necessità di punire le offese recate ai diritti dell'uomo. Ai bisogni fisici ed intellettuali dell'umanità basterebbe infatti una mera società naturale; ordinata sul principio della perfetta uguaglianza; senza autorità, e senza leggi. Perchè dunque si dice che alla natura umana la sola associazione fraterna non basta; ma le è necessaria la società civile; che è quanto dire l'impero? Soltanto pei bisogni morali dell'uomo, i quali senza l'impero non sarebbero sodisfatti per la mancanza di ogni possibile protezione del diritto. La necessità di punire è la sola ragione di essere dell'impero. Ponete che nissun uomo violasse mai i diritti altrui, o che la legge morale avesse in sè medesima bastante forza di coazione, o bastante sanzione, come l'hanno le leggi fisiche; e l'impero sarebbe allora una superfluità e una ingiustizia. Il mutuo soccorso nelle esigenze dell'umanità; il progresso intellettuale indefinito dell'uomo, che cammina sul carro della tradizione; troverebbero quanto loro occorre nella mera associazione fraterna; alla quale è spinta, e nella quale è mantenuta per impulso irresistibile della sua stessa natura, l'umanità.
§. 608. Ma la legge morale è in condizione di esser violata a cagione della libertà umana; e delle rie passioni che troppo trascinano al male. E la legge morale, siffattamente esposta ad esser violata, non ha in sè medesima sulla terra una coazione efficace, nè una sanzione immediata e sensibile. I bisogni dell'umanità esigevano che tale coazione e tale sanzione venisse a completarla. E lo strumento dalla legge eterna destinato a questo suo complemento è l'autorità sociale; che lo raggiunge mediante la coazione preventiva (ufficio di buon governo); e mediante la minaccia e l'irrogazione di un male sensibile ai violatori del diritto (magistero punitivo): e così protegge legittimamente i diritti degli uomini e i proprii. Il fine precipuo della società civile è la costituzione sulla terra del regno della legge giuridica che senza lei non sarebbe possibile: cioè di far vivere gli uomini uniti nel vincolo di obbedienza alla legge del diritto. Ogni lesione del diritto individuale avversa il fine della società civile, e così avviene che leda anche la società. L'autorità sociale ha dunque diritto di fare tutto quello che è necessario a raggiungere codesto fine della tutela giuridica, e così ha il diritto di conservare, e tutelare sè stessa, perchè con ciò tutela e conserva lo strumento che la legge eterna dell'ordine ha prestabilito come indispensabile a render perfetta la legge morale. Di qui il potere nell'autorità di esercitare coazione fisica per impedire un delitto non anche commesso: di qui il potere in lei di esercitare una coazione psicologica sui male inclinati, minacciando loro un dolore sensibile in pena di aver ceduto all'appetito del bene sensibile con violazione della legge del diritto. E poichè la sola opera della coazione fisica non basterebbe all'uopo, così il magistero punitivo deriva propriamente da una necessità dell'umana natura, è non da una necessità politica (1).

(1) La formula di Carmignani, che trovò nel diritto di punire uno jus politicae necessitatis; quantunque meno difettosa di tante altre formule immaginate allo scopo; non risponde al bisogno. Perchè necessità politica vuol dire necessità della città, dello Stato; e il malvagio che si vuole soggettare ad una pena può sempre rispondere che egli non riconosce la ragion di essere di codesto Stato, e di codesta città. E finchè a lui si ripete la consueta argomentazione che i bisogni fisici ed intellettuali della umanità, e la sua destinazione ad un indefinito perfezionamento, esigono lo stalo di associazione; egli senza niente affatto ricorrere ai delirii del Ginevrino può ammettere la verità della natura socievole dell'uomo, e riconoscere nell'associazione il destino della umanità; ma persistere a negare che tale associazione debba aberrare dai limiti di una mera fraternità fondata sui diritti dell'uguaglianza; negare la legittimità della coslituzion di un governo, e dirla un risultato della forza. Cosicchè quando a lui per tutta ragione del fatto di punirlo, gli si adduce il bisogno politico, si ricorre ad un postulato che egli nega in radice. Ed ecco che si ha bisogno di una seconda dimostrazione per legittimare la costituzione della società a forma di Stato; e la legittimità del divieto, e della punizione. La formula necessità politica è dunque incompleta, perchè lascia a desiderare la dimostrazione che siffatta necessità sia costitutiva di diritto. Ma quando la ragion di punire si fa rimontare alla legge giuridica primitiva, è dimostrata la necessità del punire come derivazione di codesta legge: ed è dimostrata contemporaneamente la necessità di essere della società civile e dell'impero. Il malvagio non può senza sofisma, e senza contradizione evidente, negare codeste verità quando si riassumono con siffatta formula. Perchè quando egli chiede ragione alla società del divieto e della punizione per cui lo si priva di certi diritti, egli afferma in sè l'esistenza di quei diritti dei quali vorrebbe all'autorità contrastare la potestà di spogliarlo. E affermandoli in sè, gli è giuocoforza confessare una legge giuridica, e confessare ugualmente l'esistenza di quei diritti negli altri. E confessandoli negli altri bisogna che confessi il suo non diritto di spogliarne gli altri com'egli ha fatto coli'azione delittuosa: e bisogna che confessi il diritto degli altri di tutelarli contro di lui. E allora sorge spontanea la differenziale del confronto fra questi e lui. Perchè questi, non avendo ì primi violato la legge giuridica, hanno ragione d'invocarne la tutela, e dirsi da lui spogliati ingiustamente. Egli invece, perchè violò il primo la legge giuridica, non può senza contradizione invocare la tutela della medesima entro i limiti nei quali il diritto da lui affermato trova collisione nel diritto degli altri. E perciò, che il diritto in genere di proibire e punire non può dal colpevole negarsi senza vizio logico, perchè nella sua opposizione egli si fonda sul postulato dell'esistenza di una legge giuridica, la quale gli è forza confessare universale, e a tutti comune. E la confessione del diritto è inseparabile dalla confessione della facoltà di difenderlo. Ecco perchè io ho creduto di non accettare la formula del mio grande maestro; perchè se si prende seccamente è una formula empirica; e se vuole farsi risalire ad un sommo principio di ragione, questo non può trovarsi in altro che nella legge di natura, prima costitutrice del diritto, e della sovranità del diritto. La società civile, o sia la città, ben lungi dall'essere la causa del diritto; ne è il primo effetto. Non è dessa che crea la legge giuridica; è la legge giuridica che crea lo Stato come strumento della propria osservanza, A me pare giustissima la censura di Thiercelin (pag. 202 e segg.) che la formula necessità sociale cade nell'errore così frequente di confondere il diritto con la sua garanzia.

§. 609. Il diritto di punire nella società ravvisato come complemento del precetto morale; causa dell'essere della società; prescrizione della legge eterna dell'ordine nella umanità; riposa in tal guisa sui tre principii della utilità, della giustizia, e della simpatia. Dell'utilità, perchè la legge di natura è unicamente intesa al bene dell'uman genere: della giustizia, perchè la legge di natura come legge divina ha per norma il giusto assoluto, che esige il male di chi fa male: della simpatia, perchè la legge di natura promulgata da Dio al cuor di tutti gli uomini mercè il senso morale e la retta ragione, non può non trovare un eco di approvazione alle sue volontà in tutti i cuori, che non siano pervertiti dalla passione. Ma questi non sono tre principii che si accozzino per virtù di una dottrina: sono le condizioni congenite e inseparabili della legge di natura.
§. 610. La pena non è un mero bisogno dì giustizia che esiga l'espiazione del male morale. Dio solo ha la misura e la potestà di esigere la dovuta espiazione. Non è una mera difesa che l'interesse degli uomini si procacci a spese altrui. Non è lo sfogo di un sentimento degli uomini che mirino a tranquillizzare gli animi loro rimpetto al pericolo di offese future. La pena non è che la sanzione del precetto dettato dalla legge eterna: la quale sempre intende alla conservazione dell'umanità, e alla tutela dei suoi diritti: sempre procede sulle norme del giusto; sempre risponde al sentimento della coscienza universale.
§. 611. Il sistema penale, riconosciuto come emanazione della legge di natura, deve ordinarsi dunque in conformità di quelle condizioni, che sono insite al fonte da cui deriva. Ogni sistema penale che aberri da una di tali condizioni, è ingiusto, antipatico, e deve riuscire dannoso: perchè le norme della legge eterna sono assolute ed impreteribili. Coerentemente a siffatti pensieri io ravviso il principio fondamentale del giure punitivo nella necessità di difendere i diritti (1) dell'uomo: ravviso nella giustizia il limite del suo esercizio: nella pubblica opinione il moderatore della sua forma.

(1) La tutela giuridica è evidentemente una formula essenzialmente diversa dalla formula della tutela sociale. A questa la scuola eclettica ebbe bisogno di congiungere l'idea del limite della giustizia, come un quid ulteriore, adiettovi dalla conciliazione della dottrina. E bene fu mestiero lo usare questo ripiego, perchè la formula difesa sociale dà alla punizione un principio tutto materiale, e lo pone in balla delle fluttuanti e spesso esorbitanti esigenze dell'utile. Ma nella formula della tutela giuridica, il limite della giustizia è congenito, intrinseco, inseparabile. Fra i moderni criminalisti quello che più siasi avvicinato a cotesta formula è l'illustre M. Ortolan Cours de droit penal n. 176 et suiv. 185 et suiv.

§. 612. Lo che porta a concludere che là libertà dell'uomo è in definitiva il fondamento del giure penale. Destinato l'uomo per legge di sua creazione ad esercitare liberamente la sua attività sulla terra entro il limite del rispetto alla libertà dei suoi simili, egli è costituito ab eterno sotto il dominio della legge morale che ad un tempo segna i suoi diritti sugli altri, e i suoi doveri verso gli altri. Ma questa libertà non sarebbe reale senza il freno di un autorità che completasse l'efficacia della legge. Dunque non è la società che fa nascere (!) il diritto di punire: è la necessità di punire i violatori del diritto quella che fa nascere la società civile. Questa è un effetto inalterabile della legge di natura, non come fine, ma come mezzo, come strumento, alla coazione della licenza, e alla respettiva protezione della umana attività.
Se si nega la preesistenza del diritto alla società civile: se nella recognizione di questa legge eterna non si ravvisa la ragion di essere dell'autorità come sua necessaria ministra; bisogna gettarsi disperati in una di queste due vie.
O incatenare la ragione umana ad un dommatismo favoloso.
O lanciarsi nell'onda infida ed incostante della utilità.
Nel primo caso si consegna il giure penale alla teologia: e necessariamente si subordina ad un principio falso appo quelle genti che non godono la verità della rivelazione: nel secondo si affida ai venti delle passioni.
Ogni altra formula non è che un ritrovato di nuove frasi, nel cui fondo, o vi è il vuoto, o vi è una di queste due idee. Non vi è che la formula della legge dell'ordine terreno, che mantenga il giure penale nella vera sua condizione di essere un fatto puramente umano esente da ogni ascetismo, ed ai soli fini umani diretto: e di essere un fatto che si rannoda ad un principio assoluto, incrollabile e immoto, sì rimpetto alle furie dei molti, come rimpetto alle prepotenze dei pochi. La base della nostra formula è un domma: il domma universale che legittima le società, i governi, il magistero penale e civile, e quanto altro avvi che esprima l'impero dell'intelligenza umana sull'uomo: un domma umanitario che persuade così i cristiani come i seguaci dei falsi profeti: il domma, che il Creatore subordinasse gli uomini ad una legge morale, che fosse giuridica e perfetta. Noi siamo tutti strumenti nella mano di Dio: o governati o governanti non abbiamo diritti tranne per servire ai suoi fini.

CAPITOLO III
Fine della pena.

§. 613. Spesso si confuse lo scopo di un fatto, con la ragione della sua legittimità: ciò avvenne ancora in rapporto alla pena; e fu sorgente di errori. L'una cosa è essenzialmente distinta dall'altra.
§. 614. Il fine della pena non è quello nè che giustizia sia fatta; nè che l'offeso sia vendicato; nè che sia risarcito il danno da lui patito; nè che si atterriscano i cittadini; nè che il delinquente espii il suo reato; nè che si ottenga la sua emenda. Tutte coteste possono essere conseguenze accessorie della pena; ed essere alcune di loro desiderabili: ma la pena starebbe come atto incriticabile quando tutti cotesti risultati mancassero.
§. 615. il fine primario della pena è il ristabilimento dell'ordine esterno nella società (1).

(1) Cock (Diss. de fine poenarum), Feuerbach, e altri con loro, dissero doversi distinguere il fine della comminazione della pena, dal fine della sua effettiva irrogazione. Ma Bayer e Kónigswarter respinsero cotesta distinzione come una vana sofisticheria, osservando che all'esecuzion della pena non potea darsi un fine speciale. Essa non deve essere che la sequela necesaria della sua comminazione fatta dalla legge. Ora se il giudice nello irrogare la pena si proponesse un fine diverso da quello che il legislatore si propose nel minacciarla; la condanna non sarebbe più la sequela necessaria della legge: non sarebbe più un'azione giusta, ma un'azione politica: e il giudice nel diverso fine supposto potrebbe trovare una ragione di deflettere dalla coerenza alla legge.

§. 616. ll delitto ha materialmente offeso un individuo, od una famiglia, od un numero qualunque di persone. Questo male non si ripara con la pena.
§. 617. Ma il delitto ha offeso la società violando le sue leggi: ha offeso tutti i cittadini diminuendo in loro l'opinione della propria sicurezza, e creando il pericolo del mal esempio.
§. 618. Il pericolo dell'offeso è ormai pur troppo passato, poichè si è convertito in male effettivo. Ma il pericolo che minaccia tutti i cittadini è adesso cominciato. Il pericolo cioè che il malvagio, se si lascia impunito, rinnovi contro altri le sue offese: e il pericolo che altri, incoraggiati dal mal esempio, si diano anch'essi a violare le leggi. Ciò eccita naturalmente l'effetto morale di un timore, di una sfiducia nella protezione della legge, in tutti i consociati, che nutrono all'ombra della medesima la coscienza della loro libertà.
§. 619. Questo danno tutto morale (§. 118) crea l'offesa a tutti nell'offesa di uno, perchè turba la quiete di tutti. La pena deve riparare a questo danno col ristabilimento dell'ordine, commosso pel disordine del delitto. Il concetto di riparazione col quale esprimiamo il male della pena ha implicite in sè le tre risultanti di correzione del colpevole; incoraggiamento dei buoni; ammonizione dei male inclinati. Ma questo concetto differisce grandemente dal concetto puro della emenda, e dal concetto dello atterrimento. Altro è indurre un colpevole a non più delinquere, altro è pretendere di renderlo interiormente buono. Altro è ricordare ai male inclinati che la legge eseguisce le sue minacce, altro spargere il terrore negli animi. Il timore e l'emenda sono implicite nell'azione morale della pena; ma se di loro vuol farsi un fine speciale, essa si denatura; e si conduce ad aberrazioni il magistero punitivo.
§. 620. I cittadini che temevano nuove offese dal delinquente, cessano di temerne, sperandolo frenato dalla pena.
§. 621. I cittadini che temevano per parte di altri la imitazione del malvagio, cessano di temerne, sperando dal male a lui inflitto una remora che elida l'impulso del tristo esempio.
§. 622. Così la pena che niente rimedia al male materiale del delitto, è rimedio efficacissimo, ed unico, del male morale. Senza questa i cittadini che sentirebbero, per la ripetizione dei malefizi, ogni giorno viepiù dileguarsi la loro sicurezza, sarebbero costretti ad abbandonare una società incapace a proteggerli.
§. 623. In tal guisa l'ultimo fine della pena è il bene sociale, rappresentato nell'ordine che si procaccia mercè la tutela della legge giuridica; e l'effetto del fatto penale si ricongiunge con la causa che lo legittima.
§. 624. Ma per giungere a cotesto fine la pena bisogna produca certi effetti, i quali sono come altrettanti fini più prossimi, cui la penalità deve indirizzarsi. E questi determinano i caratteri speciali che devono impreteribilmente desiderarsi nella medesima.
§. 625. Tali condizioni della penalità, essendo derivazioni del suo principio assoluto, legano lo stesso legislatore; il quale non può senza abuso defletterne: poichè la legge eterna dell'ordine è, come disse Bacone, la lex legum.
§. 626. Finchè si aggira nella ricerca di queste condizioni essenziali, il giure penale si mantiene all'altezza di scienza, puramente speculativa. Quando discende poi a scegliere i modi migliori per attuare cotesti principii, viene (come bene osservò un grande filosofo (1)) a partecipare dell'arte; perchè le sue ricerche cadono tutte sui mezzi pratici di obbedire a quella legge; e di raggiungere quel fine, che la scienza gli ha rivelato.

(1) Il Cav. Senator Centofanti.

CAPITOLO IV
Forze inerenti alla pena.

§. 627. Esaminando la pena nella sua indole giuridica, troviamo costituirsi la medesima di due forze, analoghe a quelle che riscontrammo nel delitto (§. 55, e segg.); ed in ciò ricorre perfettissima analogia: forza fisica, e forza morale.
§. 628. La forza fisica soggettiva della pena consiste negli atti materiali con cui s'irroga al reo il male che costituisce la punizione. Senza atto esterno non può esservi pena, come non vi può esser delitto.
§. 629. La forza fisica della pena, oggettivamente guardata, si rappresenta dallo effettivo patimento, in cui sta pel condannato il risultato doloroso della pena: come la forza fisica oggettiva del delitto ci esprime il risultato dannoso che dal medesimo proviene all'offeso.
§. 630. La forza morale soggettiva della pena sta nel procedere essa dalla volontà razionale del giudice competente, che interpetra ed applica la volontà della legge. Senza questo elemento; senza un fatto psicologico, che gli dia legittimità; nel male irrogato non si ha una pena, ma un fatto violento che non ha caratteri giuridici: nel modo stesso che se il fatto dannoso non procede da volontà intelligente, non si ha un delitto, ma una violenza del fato, senza carattere giuridico; perchè gli manca il concorso del fatto psicologico.
§. 631. La forza morale oggettiva della pena si rappresenta dal risultato morale che il supplizio eccita negli animi dei cittadini; o buoni col farli tranquilli; o malvagi col frenarli.
§. 632. La grande efficacia politica della pena sta in questa sua forza morale. Dalla forza morale del delitto nasce l'offesa sociale; dalla forza morale della pena nasce la riparazione sociale.
§. 633. E tale l'importanza della forza morale della pena, che alcuni criminalisti, fra i quali Niccolini (1), vollero in questa sola, considerata nei suoi effetti sull'animo del colpevole, ravvisare la vera pena. Il carcere, l'ammenda, e la stessa morte non sono, secondo questa dottrina, veramente la pena; ma sono i mezzi per cagionare la pena: e quelli sono unicamente legittimi per cotesta loro azione sull'animo.

(1) In un suo trattato inedito sul diritto di punire inviato in forma di lettera a M. Ortolan nel 1813.

§. 634. Non può negarsi questo duplice significato della parola pena. Quando si dice, il carcere è una pena, si designa la materialità di un mezzo speciale destinato a far soffrire il colpevole. Quando si dice, Cajo ha subito la carcere, si esprime il risultato del mezzo materiale usato contro di lui, la privazione della libertà personale, e il patimento che questa ha cagionato al colpevole. Cotesta duplice accezione della parola pena, emerge chiara da una frase comune, che senza ciò sarebbe un'anfibologia. Dicesi spesso - le pene infamanti non sono pena per l'infame: le pene pecuniarie non sono pena per il ricco. Ciò venendo a dire la pena non è pena, affermerebbe l'impossibilità logica dell'essere e non essere, se non si desse un duplice senso alla parola.
§. 635. Simile pensiero è dunque esatto: ma l'aspetto tutto ideologico sotto il quale la pena verrebbe così a considerarsi, male si presta alla sposizione della dottrina; e rinnoverebbe quasi il linguaggio scientifico. Senza dunque abbandonare il significato materiale che comunemente si dà alla parola pena, al concetto ideologico si giunge assai, per quanto importa ai bisogni della scienza, col rintracciare distintamente nella pena (mezzo di cagionar dolore) le forze che in lei si contengono, e che ne costituiscono il meccanismo, ed i risultati.
§. 636. La forza morale è nella pena, sotto entrambo i suoi aspetti, anche prima che sia irrogata. Anzi allo stato di minaccia essa non agisce che moralmente. Ma quando il delitto dallo stato di previsione è passato allo stato di realtà; la forza morale della minaccia sarebbe distruttale anche la pena non divenisse una realtà. è la sua irrogazione materiale quella che restituisce alla minaccia, disprezzata dal delinquente, tutta l'efficacia sugli animi: ed è in questo momento che si completa la forza morale della pena. L'irrogazione materiale del castigo diviene un fatto giuridico, perchè rende più sensibile l'idea: l'idea nel colpevole di aver meritato quel patimento col violare il precetto: l'idea nei buoni di esser protetti mercè la sanzione del precetto: l'idea nei malinclinati di correre incontro ad uguali patimenti se violeranno il precetto.
§. 637. Ma perchè la pena abbia in tutta la sua potenza cotesta forza morale oggettiva, bisogna che risponda alle condizioni, che nella medesima sono richieste dal suo principio fondamentale, e dal suo limite.

CAPITOLO V
Condizioni che deve avere la pena.

§. 638. Coteste condizioni possono dividersi in due classi, secondochè o emanano dal criterio tutto positivo della tutela del diritto: o dal criterio della giustizia, che, riconosciuto come limite, può dirsi meramente negativo.

Articolo I
Condizioni della pena derivanti dal suo principio positivo
.
§. 639. In questa prima categoria si richiamano tutte quelle condizioni che tengono all'efficacia della punizione. Affinchè la pena risponda alla legge dell'ordine; che la vuole come mezzo di proteggere i diritti umani; deve essere sentita dal reo che colpisce, e sentita moralmente dagli altri cittadini.
In lei devono essere pertanto sotto questo rapporto, le condizioni seguenti:
§. 640. - 1.° Deve essere afflittiva del reo; o fisicamente; o almeno moralmente. Fu un'aberrazione supporre, come taluno fece, che il bisogno della pena fosse sodisfatto quando si potesse persuader gli altri che il delinquente soffre, benchè in realtà nulla soffra. Ove pure siffatta pena ideale fosse bastante tutela del diritto rispetto agli altri; non lo sarebbe rispetto al reo che ne riderebbe.
§. 641. - 2.° Deve essere esemplare: tale cioè che generi nei cittadini la persuasione che il reo ha patito un male. La mancanza del primo requisito fa cessare l'efficacia della pena rispetto al reo: la mancanza di questo secondo la fa cessare rispetto a tutti gli altri; e così nei buoni come nei malvagi per diversa cagione. Ma l'esemplarità che richiedesi nella pena non deve guardarsi come un fine precipuo, a cui debba essa servire (V. Puttmann opusc. crim. pag. 265, §. etsi autem ad pag. 270): ciò condurrebbe alla falsa teoria dell'intimidazione. Deve piuttosto intendersi come una condizione esteriore della pena nella sua irrogazione. Mai non deve spingersi all'effetto di aggiungere alla pena tormenti oltre la sua giusta misura sotto il pretesto di renderla più esemplare. L'esemplarità in una parola è un risultato che si deve ottenere dalla punizione, senza che per ottenerlo se ne alteri la misura oltre il rapporto (§. 648) della giustizia.
§. 642. - 3.° Deve esser certa; e così irredimibile. La forza morale oggettiva della pena sta più in ragione della sua certezza, che della sua severità; ossia, questa senza quella è elusoria. La certezza di che qui si parla non è quella di fatto che emerge dall'aumentata probabilità di scoprire i delitti; lo che attiene agli ordinamenti procedurali, e di polizia giudiciaria. Ma è invece la certezza legale: cioè che la legge non ammetta mezzi di evader la pena quando è incorsa. In tal senso osta a questa condizione il principio che vorrebbe insinuarsi dalla dottrina correzionalista, insegnando che la pena deve cessare contro il reo quando dimostri di essersi emendato.
§. 643. - 4.° Deve esser pronta: perchè nell'intervallo fra il delitto e la punizione, la forza morale oggettiva del delitto continua ad esercitare i funesti suoi effetti.
§. 644. - 5.° Deve esser pubblica. La pena irrogata in segreto sarebbe logica se il suo principio emanasse dalla vendetta, dall'espiazione, o dalla riforma. Ma unificato il suo principio nel bisogno di completare la legge dell'ordine, ogni pena segreta è un abuso illegittimo di forza.
§. 645. - 6.° Deve essere irrogata in guisa che non divenga perversione del reo - Noi non riconosciamo come fine proprio della penala riforma morale del colpevole, se non in quanto dal suo esser di pena nasce l'infrenamento delle malvagie passioni. Lodiamo quanto può farsi dai provvidi governi onde profittare della penalità per ricondurre alla moralità i cittadini traviati. Ma altro è dire che debba profittarsi di un fatto per ottenere un fine ulteriore; altro è dire che cotesto fine sia una ragione od una causa del fatto. Altro è ciò che spetta al buon governo; altro ciò che spetta al magistero punitivo. Questo deve correre per la sua via ai fini suoi proprii: quello deve profittare di ogni occasione per educare il popolo al bene: ma con ciò non deve intralciare il movimento dell'altro. La troppa tenerezza della riforma del condannato, se si compenetra col giure penale, porta ad ammollire la sua inflessibilità, e a far vacillare l'idea della irredimibilità della colpa, con grave pericolo della società. Ma se nella correzione interna del reo; che lodiamo come opera santa di buon governo; noi non ravvisiamo un fine proprio (1) della pena; rigettiamo però ogni modo di pena che avvilisce o corrompe il condannato, o gli rende più difficile il ritorno sul buon sentiero.

(1) Io so bene che questi pensieri vanno a ritroso della corrente del secolo. Cresce ogni giorno nei criminalisti moderni l'entusiasmo per la dottrina della emenda del reo. Nel momento attuale poco vi vuole a scorgere che questo è il punto culminante che richiama le meditazioni del giurista. L'onda del secolo muovesi in questo senso come marea che monta. Se le nuove tendenze poggiano al vero, trattasi di ricostruire tutta la scienza penale. Destriveaux nel Belgio sostenne che l'unico fondamento giuridico della pena è la correzione del colpevole. Mazzoleni in Italia pone questo pensiero come base dei suoi nuovi principi di diritto penale, insegnando che la società non ha diritto a punire il reo, ma soltanto a costringerlo ad emendarsi. Henke proscrive la detenzione perpetua, perchè il reo emendato non si deve punire più oltre; e il Codice di Bolivia adotta questa teoria. Pinheira, Marquet-Vasselot, ed altri proclamano il domma che la correzione dei colpevole Deve far cessare la pena: e il nuovo codice peuale pel regno di Portogallo sembra ispirarsi a coteste idee. Idee tutte eccitate da un sentimento lodevole: ma io vorrei che non fossero pericolose se invadono il magistero penale. Cotesta dottrina non è che una trasformazione del domma religioso. Ma fu sempre arrisicato per gli uomini lo imitare la divinità. Gli avi nostri si arrogarono l'esercizio della giustizia di Dio: e nacque il sistema dell'espiazione. Oggi si vuole esercitare il perdono di Dio, e si riduce a sistema il diritto di punire per correzione. Non si vuol mai restringere l'autorità nei confini della difesa giuridica. Come solo può misurare la giusta espiazione; così Dio solo può congiungere la giustizia e la misericordia; e per un atto di pentimento sincero cancellare una serie di scelleraggini. Questa è fede cristiana: fede necessaria all'ordine morale; e quasi dirò necessaria alla vita. Perchè l'uomo, così proclive a cadere, non potrebbe, caduto una volta, aver più quiete nell'anima senza questo dilemma; o rinnegare la credenza della vita futura, e correre ciecamente nel sentiero del male: o confidare nel perdono di Dio; e correggersi per meritarlo. Ma questa è legge divina: perchè Dio discerne con la sua onniveggenza il pentimento sincero dalla sua ipocrita apparenza; mentre l'uomo confonde spesso un Agostino con un Ciappelletto. La irredimibilità della colpa repugnava bene alla legge divina: che non accetta come mezzo di lavacro un pentimento ispirato dal desiderio di migliorare la nostra sorte terrena; o dai tormenti del carcere, e dalla speranza di farli cessare col mostrarsi pentito. Ma la legge umana non può avere forza pratica frenatrice, se non si afferra tenace al principio della irredimibilità. Resa incerta cotesta, la legge è fatta gioco di artificiose speculazioni. Guai se la protezione dei rei si spinge al segno da far vedere nel delitto un mezzo di vincere l'avversità della fortuna!
Io non avverso il sistema penitenziario. Calunnerebbe le mie intenzioni chi ciò mi apponesse. Io lo encomio perchè toglie alla pena della detenzione la brutta macchia di essere, come lo fu pur troppo per tanti secoli, istrumento di corruzione, scuola di mal costume, occasione di perniciose alleanze. Io l'encomio perchè è dovere di ogni governo, e dirò d'ogni cittadino, di promuovere la moralizzazione del popolo. Ma l'uomo si deve correggere col purificarne il cuore dagli affetti terreni; col sollevarne i pensieri a Dio; e facendolo rassegnato ai patimenti di quaggiù assuefarlo a guardare in questi un titolo di anticipata espiazione. Non si deve correggere col promettergli beni caduchi, o esenzione dai meritati castighi; e molto meno si deve preferire la sua emenda apparente, al reale pericolo della società.
La pena non può essere che una pena. Mite sì: giusta: ma adeguata al passato; e inamovibile per variare di fatti posteriori. La scienza penale non può cambiare la sua divisa; nè correndo dietro a seducenti illusioni, intramettere la protezione dei buoni per la manìa d'educare i malvagi. Lo spettacolo di un delinquente corretto è edificante, è utilissimo alla pubblica morale: ne convengo. Ma un delinquente corretto a prezzo dello alleggerimento della pena meritata è un eccitamento a delinquere; è uno scandalo politico.
Io considero dunque la riforma del reo utilissima cosa, e da procacciarsi con ogni studio; ma fuori affatto del cerchio del magistero penale. Lo immischiarvela (oltre ciò che è effetto naturale della pena) pare alla mia mente una contradizione. Punire vuol dire recare un male. Emendare, istruire, educare vuol dire recare un bene grandissimo. Due forze distinte debbono all'aspetto di un delitto mettersi in movimento; ed agire contemporanee sul delinquente. Forze diverse nel punto di loro partenza, e nella meta a cui tendono. La prima guarda il delitto, e vi scorge un disordine; e lo vuole inesorabilmente punito per ristabilire l'ordine che quel fatto ha turbato. La seconda guarda il delinquente, e vi scorge una creatura di Dio, traviata dal buon sentiero, e vuole ricondurvela. La prima si ispira al sentimento del pericol > sociale, e alla reverenza del giusto. La seconda si infiamma alle aspirazioni della carità verso i nostri simili. La società deve provvedere acciò queste due forze si svolgano ciascuna nella sua sfera di azione, senza urtarsi ed elidersi. Ma stringerle in una teoria; unificarle nel principio e nel fine; e porre in ambedue l'anima del magistero penale, come vorrebbe la nuova scuola correzionalista, pare alla mia tenuità repugnante.

Articolo II
Condizioni della pena derivanti dal suo limite
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§. 646. Dallo essere, per l'eterno precetto della legge di natura, subordinato il principio positivo della tutela del diritto al criterio negativo o limitativo della giustizia, ne scaturisce spontanea la necessità di esigere nella pena le condizioni seguenti:
- 1.° Non deve essere illegale: cioè, non si irroga legittimamente se prima la legge non l'ha minacciata. Deve esser la legge, non l'uomo, che punisce. Vedasi la dottissima dissertazione di Konigswarter nullum delictum nulla poena sine praevia lege penali - Amstelodami 1835.
§. 647. - 2.° La pena non deve essere aberrante. La personalità della pena ne è condizione assoluta. Non vi è pretesto di utilità, e nemmeno ragion di difesa, che legittimi un male irrogato sotto sembianza di giustizia ad un innocente.
§. 648. - 3.° Non deve essere eccessiva - cioè, non deve esuberare la proporzione col male del delitto. L'eccessività della pena è viziosa anche sotto il rispetto politico, sì per l'influenza che esercita sui costumi; sì perchè eccita la pubblica antipatia-, e per le dannosissime conseguenze di questa. La legge è difficilmente obbedita quando non ha seco la simpatia delle coscienze. La pietà opera il fenomeno che i buoni si uniscono coi malvagi ad eluder la giustizia; e il suo trono è minato. Questa considerazione politica è per altro un di più. Poichè a proscrivere la eccessività delle "pene, basta la sola ragione di giustizia, prescindendo da qualunque empirica considerazione.
§. 649. - 4.° Non deve essere disuguale. Niente cioè deve guardare alla diversa posizione dei delinquenti, quando questa non altera la quantità del delitto.
§. 650. - 5.° Deve essere divisibile, ossia frazionabile in guisa da rispondere al diverso grado della imputazione; la quale si modifica col modificarsi delle circostanze che accompagnano ciascuna delinquenza: nel che l'opera prudente del magistrato forza è che completi l'opera del legislatore.
§. 651. - 6.° Deve essere, per quanto si può riparabile; perchè troppo è facile un errore giudiziario (1); e troppo ne sono fatali le conseguenze. La condanna di un innocente è un rovescio di idee: perchè lo strumento della giustizia si converte in un fattore di ingiustizia. Essa è una vera calamità sociale, per lo spavento che genera nei cittadini, maggiore assai di quello che nasca da molti delitti impuniti.

(1) Si sono avuti anche ai tempi nostri esempi dolorosi di innocenti condannati a capitale supplizio. Nella sola Francia è stata riconosciuta l'innocenza di - Lesurques - Badger - Ravier - e Loizerolles tutti quattro guigliottinati: di Filippi - e Rosaria Dolce, ai quali l'arbitrio benefico del tribunale avea commutata la pena di morte nella galera a vita. Tutti questi fatti attengono al presente secolo.

CAPITOLO VI
Nozioni generali della qualità, quantità, e grado nella pena.

§. 652. Abbiamo sin qui contemplato la pena nel suo genere: cioè in quelle condizioni essenziali che debbono, con maggiore o minor prevalenza, esser comuni a tutte le pene. Ma come guardando il delitto nelle sue possibili specialità, trovammo (§. 128 e segg.) potervi essere varietà importantissime di qualità, di quantità, e di grado tra fatto e fatto; così analoghe differenze troviamo adesso tra pena e pena. E come Io studio di queste tre nozioni completò la teoria del delitto; così lo esame della qualità, quantità, e grado nella pena, completa la teoria di questo secondo oggetto del giure penale.
§. 653. Già notammo (§. 129) che le nozioni di qualità, e quantità, relative a diverse specie del medesimo genere; come pure la nozione di grado, relativa a diversi individui della medesima specie; nascono dal non essere fra specie e specie congeneri, nè tra individuo e individuo, perfetta identità. E notammo pure in che consistesse astrattamente la diversificante che si denota col nome di qualità (§. 130): in che la diversificante che designa la quantità (§. 132): in che consista quella che designa il grado (§. 138). Familiarizzati ormai con questi termini e con queste idee, non rimane che ad esaminare i diversi criterii coi quali siffatte nozioni si applicano alle pene.
§. 654. L'importanza di queste tre indagini nel delitto nasceva dal principio di giustizia; il quale esige che quando due reati si unifichino nel criterio della qualità, della quantità, e del grado, debbano identificarsi nella loro imputazione (§. 145). La relativa importanza in ordine alle pene, nasce dallo stesso principio; il quale esige che, come alle diversità di qualità, di quantità, o di grado nel delitto risponde una diversità di imputazione; così risponda un'adeguata diversità nella pena. Ma il grado della pena richiama inoltre a considerazioni sue proprie, che sono indipendenti dalle diversificanti del delitto come tra poco mostreremo.

CAPITOLO VII
Criterio della qualità nelle pene.

§. 655. Anche nelle pene l'esame della qualità conduce alla loro classazione. Anche nelle pene, l'elemento particolare di rapporto (§. 147) che costituisce il criterio del loro ordinamento; e che fra loro determina la diversa qualità; deve cercarsi nella loro forza fisica; che è quanto dire nella diversità del bene che la società toglie al delinquente al fine di punirlo.
§. 656. Ora volendo ridurre a certe classi prominenti i beni del cui toglimento può la giustizia farsi strumento di punizione; apparisce completa la divisione delle pene in quattro classi, secondochè privano il delinquente o del bene delia vita; o della integrità e libertà delle membra; o dell'onore; o del patrimonio pecuniario. Dalle diversità essenziali di queste-quattro specie di beni goduti dall'uomo, nasce la diversa qualità delle pene; e così la loro distribuzione in quattro grandi classi - capitali - afflittive - infamanti - pecuniarie.
§. 657. Contro siffatta classazione si fece l'obietto di incompletezza, osservando che certe punizioni speciali, usate da alcuni legislatori, non vi trovavano sede: a medo di esempio l'interdizione di certi atti. Ma è facile riferire cotesti divieti alla classe delle umilianti, o delle pecuniarie, o delle afflittive; secondochè la negazione della facoltà porta solo un discredito al condannato; oppure gli arreca anche un detrimento patrimoniale; o un restringimento di libertà.
§. 658. Questa classazione nei rapporti della scienza non richiama, se non accessoriamente, all'esame dei modi pratici di irrogare coteste diverse pene. Il suo scopo è di definire le classi, ed esaminare di ciascuna o la legittimità, o la convenienza.

1.° Pene capitali.
§. 659. Pene capitali sono quelle che privano il delinquente della vita.
§. 660. L'indagine filosofica sul diritto nella società di spingere la punizione fino a dar morte al colpevole; non conducendo a guardare empiricamente l'utilità di tal pena, ma a trovare il principio questionato della sua legittimità; non può non dipendere dalla soluzione del problema preambulo sulla genesi razionale del diritto di punire.
§. 661. Accettando noi, sulle orme del Niccolini, come fondamento di questo diritto la legge di natura (§. 604), ci troviamo alla conseguenza di negare la potestà di uccidere; perchè la legge di natura è legge essenzialmente conservatrice. A questo sommo principio si ispira cotesta legge; e vi aderisce costantemente, tranne i casi in cui la conservazione di un essere sia attualmente incompatibile con la conservazione dì altri esseri uguali: nel qual caso la legge che permette la distruzione, non contraria, ma conferma il principio conservatore. Ora da cotesto sommo principio sembra a noi doversene dedurre che la legge conservatrice non permetta la distruzione di un uomo, quando la necessità presente della difesa degli altri uomini non esige cotesto sacrifizio. Condotta la disputa a questo punto, la legittimità della pena di morte non è più oggi sostenibile. Perchè le condizioni attuali dei popoli culti non fanno più (nelle delinquenze ordinarie, e nei tempi normali degli Stati) della Uccisione del nemico sociale una necessità materiale. E i termini di una necessità morale presente, fondata siill'idea di punir uno per intimorir gli altri, possono per il supplizio capitale, affermarsi, ma non mai dimostrarsi in modo da non lasciare possibilità in contrario. Nel caso del perduelle, la morte che gli s'infligga nella permanenza della guerra civile, non più si giustifica coi precetti del giure penale, ma con quelli dello jus belli. Ed anche in questo caso la uccisione del vinto non trova la sua ultima ragione che nei timori del vincitore, e nella coscienza della propria debolezza.
Dopo Beccaria la pena di morte è stata combattuta da Malajuma, Brissot, Lucas, Pastoret, Livingston, Carmignani, Ducpetiaux, Piccioni, Perez De Molina (1), Ellero, ed altri molti. La sua necessità si è sostenuta frai moderni da Ulloa, VanGhert, Bensa, Silvela, Trebutien, e in generale dai criminalisti francesi.

(1) Molto diffusamente nel libro intitolato - La sociedad y el patibulo - Madrid 1854. - Vedasi il recente scritto di Mittermaier su questo argomento.

§. 662. Ove sia ammessa la pena di morte; due regole dominano la sua applicazione
- 1.° che deve essere inflitta in quel modo che meno faccia soffrire il paziente: lo che richiama ad una questione fisiologica
- 2.° che non sia irrogata alla presenza del popolo; perchè l'aspetto del sangue inferocisce gli animi: al principio della pubblicità può supplirsi con la notorietà; senza chiamare il popolo allo spettacolo del macello umano. Gli antichi non si contentarono di uccidere il reo: vollero anche martirizzarlo. Non avrebbe fine la descrizione dei diversi modi (1) inventati per questo supplizio.

(1) In Francia per esempio si ebbero cinque modi diversi di uccidere il condannato
- 1.° Il fuoco per la lesa maestà divina
- 2.° Lo squarcio a quattro cavalli per certi casi di lesa maestà umana.
- 3.° La decollazione pei delitti comuni se il condannato era nobile.
- 4.° La forca se era plebeo.
- 5.° La ruota pei furti violenti alla strada pubblica.

Frutto dell'errato pensiero, che lo scopo della pena fosse l'intimidazione (1), e che i popoli si dovessero guidare col terrore.

(1) Taluno calcando le orme insidiose del Filangieri obiettò che come per legge naturale tutti i diritti originarii, o connati, sono inalienabili; così tanto urtava nella legge naturale la pena di morte, quanto tutte le pene afflittive. Ma fra caso, e caso vi è differenza. I diritti originarli dell'uomo sono inalienabili finchè la loro distrazione faccia venir meno la personalità umana. Quindi se non possono alienarsi in modo assoluto; può però distrarsene una parte ove il diritto ne sia suscettibile (Zeiller jus naturae §. 49. - Haus doctrina juris philosophica §. 71, 73). Così non può alienarsi la libertà perchè ciò ridurrebbe l'uomo a cessare di esser uomo, spogliandolo di un attributo indispensabile alla sua personalità. Ma può alienarsene una parte: e tutta la teoria dell'efficacia delle obbligazioni personali nel diritto naturale è fondata su questo principio; che appunto l'uomo vincolandosi con una obbligazione verso l'altro uomo trasferisce in questo la relativa porzione della sua libertà. Ora ciò che l'uomo può fare col patto, lo può fare col fatto: ciò che per la legge si ammette come conseguenza di una esplicita convenzione, può essere conseguenza di un fatto che per legge porti al medesimo effetto. Son validi per legge naturale i voti monastici, il matrimonio, e simili. Così non repugna alla legge naturale, che un uomo col violare la legge del diritto si astringa a perdere, anche per tutta la vita, una porzione della sua libertà; perchè non cessa di essere persona. Ma repugna alla legge naturale che volontariamente tolga a sè la vita; o si obblighi sì espressa mente che tacitamente a perderla; perchè con ciò distrugge ia sua personalità, non potendo la vita alienarsi in parte. Ecco perchè io dico (§. 661) che alla legge naturale repugna la pena di morte, e non repugnano le pene afflittive. Il rimprovero di controprovare che si è voluto fare al mio ragionamento, accusandolo di distruggere tutte le penalità, non ha base. Perchè colle pene afflittive, l'uomo non si fa cessare di esser persona, come avverrebbe se si rendesse schiavo, e così distruggale a talento del padrone. La pena afflittiva restringe la.libertà e impedisce certi atti. Ma la libertà resta nel condannato come diritto formale, quantunque limitata nell'obietto; e l'attua, salva la restrizione che ha incorso col violare la legge. Egli conserva la libertà di coscienza, la libera manifestazione dei suoi pensieri, la libertà dei suoi moti entro la cella. In una parola è sempre uomo, nè la sua personalità è cessata. Tanto è vero che può nuovamente delinquere. Tutta questa teoria dipende da un sommo principio. Decidere se l'uomo ha un fine nella vita e quale. Chi neghi questo fine; o, come Spinosa, trovi il fine della vita nella felicità materiale, condotto per tal guisa a materializzare il bene morale, cade nella perniciosa dottrina delVutilità. E facile allora nella conservazione della cosa pubblica fare il passo ulteriore: e stabilire che la felicità dei più debba preferirsi alla felicità dell'uno: donde scaturisce il fatale salus publica suprema lex esto. Ma è egualmente facile l'altro passo, che porta a concedere all'uomo infelice la facoltà di disporre della propria vita. Se però il fine dell'uomo si riconosce nel suo indefinito perfezionamento, questo fine assoluto, per il quate l'ordine particolare imposto all'uomo dalla legge di sua natura si concatena coir ordine universale, porta necessariamente a negare all'uomo la disponibilità di quei diritti che sono indispensabili alla sua personalità. Se la legge eterna ha detto all'uomo - tu non puoi volontariamente cessare di esser persona, -questa stessa legge, per essere logica, deve aver detto alla società (che altro non è se non uuo strumento coordinato alla tutela della legge giuridica) - tu non potrai, per qualunque suo fatto, sottoporre l'uomo ad una pena, che distrugga la sua personalità: tu non puoi ridurre l'uomo alla condizione di cosa. - 0 bisogna negare una legge morale, assoluta, immutabile, che dal momento della sua creazione sovrasti all'umanità; legge che non fu negata neppure dai pagani, sebbene la intendessero a modo loro; o ammessa una suprema legge morale, bisogna dedurne una suprema legge giuridica: e di qui

2.° Pene afflittive.
§. 663. Pene afflittive diconsi quelle, che affliggono fisicamente il colpevole, senza giungere a torgli la vita.
§. 664. Le pene afflittive possono essere o dirette (positive), o indirette (negative).
§. 665. Pene afflittive dirette, o positive, sono quelle nelle quali al paziente si reca un dolore con la mano dell'uomo. Sono indirette, o negative, quelle nelle quali al condannato è in una qualunque guisa impedito l'esercizio della naturale libertà del suo corpo.
§. 666. Le afflittive positive possono essere o indelebili, o delebili. Sono indelebili quelle che lasciano una traccia permanente sul corpo; come il marchio e la mutilazione. Sono delebili le altre che non lasciano tale risultato, come la fustifazione, le catene, ec.
§. 667. Le pene afflittive indelebili sono da riprovarsi come degradanti la dignità umana; e per la loro perpetuità, che le rende ostative alla emenda del reo.
§. 668. Le principali pene afflittive negative sono la detenzione, e l'esilio.
§. 669. La detenzione comprende qualunque modo di punizione con cui si priva il delinquente della sua libertà, col chiuderlo per un determinato tempo in un ricovero a ciò destinato.
§. 670. Col nome di detenzione si esprimono dunque tutte le forme congeneri di punizione, consistenti nel chiudere il reo in un luogo di pena: alle quali si dà il nome speciale dal nome dato al ricovero; che secondo le sue varietà dicesi prigione, carcere, casa di forza, casa di disciplina, casa di correzione, ergastolo, galera, e simili. Tali varietà di nome non hanno un senso determinato che possa offrirne una nozione costante. Quel nome che in alcune legislazioni esprime la detenzione più grave, in altre designa la detenzione più leggera. Ciò dipende dai gius costituiti, giacchè i nomi non possono rappresentare un principio assoluto.
§. 671. Circa la detenzione si revocò un tempo in questione il diritto nella società di irrogarla in perpetuo. Ma senza plausibile fondamento. La scuola correzionalista tenta oggi riprodurre cotesta opinione sotto forma diversa. Questa scuola però, malgrado le sue esagerazioni ha recato di grandi benefizii allargando il sistema penitenziario (1). E parimente da notarsi che gli arresti in casa, quantunque abbandonati da molte legislazioni, possono riuscire utilissimi come infima pena afflittiva. Non dovrebbe tralasciarsi mai nessuno degli strumenti che possono servire a proporzionare ai diversi gradi della imputazione un diverso grado di repressione. E poichè ad un infimo grado di responsabilità può adattarsi un infimo grado di restrizione della libertà personale; che, per quanto infimo, può essere sentito più della multa; non è razionale disprezzarlo.

(1) In ordine alla storia del sistema penitenziario vedasi l'opera di Marquet-Vasselot, e ciò che ne dice nel suo corso Ortolan a pag. 668. Sugl'inconvenienti della galera vedasi Alauzet - Essai sur les peines, chap. 4.

§. 672. L'esilio in senso generale comprende tanto l'esilio propriamente detto, quanto la relegazione, o confino.
§. 673. L'esilio in senso proprio è l'allontanamento del delinquente da un determinato luogo, che solo gli è interdetto; con piena libertà a lui di recarsi ovunque altrove gli piaccia. Alcuni moderni Codici hanno tolto l'equivoco nascente dai due sensi della parola esilio, chiamando l'esilio particolare interdizione di luoghi.
§. 674. La relegazione consiste nell'imporre al reo la dimora in un determinato territorio, con interdizione a lui di recarsi in qualunque altra parte del globo.
§. 675. Ambedue queste pene non ammettono costringimento fisico. Tutta la coazione sta nel precetto.
§. 676. Quando l'esìlio consiste nella espulsione da tutto il territorio dello Stato ditesi bando. Quando la relegazione è in un luogo oltre mare dicesi deportazione.
§. 677. Tutte le pene afflittive negativamente tali hanno a comune i seguenti caratteri di prestanza politica
1.° La graduabilità; che è immensa tanto nella durata, quanto nella intensità.
2.° La reparabilità.
§. 678. Ma la detenzione comparativamente all'esilio ha ulteriori caratteri di convenienza nei seguenti rapporti, che l'esilio non offre; e pei quali anzi è l'esilio difettosissimo.
§. 679. Prevale infatti la detenzione, e difetta l'esilio, sotto il rapporto:
1.° della forza fisica obiettiva, perchè l'esilio è disugualmente sentito, e forse niente sentito da certi delinquenti (1):

(1) è notevole una disposizione della Carolina: ove all'art. 161 invece di esiliare i rei di secondo furto, o relegarli altrove, si condannano a vivere in perpetuo nel luogo dove avevano rubato. Questa sanzione procede più che da una veduta di affliggere il colpevole, da una veduta di rendere più diffìcile ai ladri la ripetizione del maleficio. In questo aspetto vi era più filosofia che nell'esilio.

2.° della forza morale obiettiva; perchè l'esilio manca di esemplarità;
3.° della moralità pubblica; a cui la pena deve sempre guardarsi dall'avversare. L'esilio demoralizza. La carcere offre l'opportunità al buon governo, ed alle associazioni private, di esercitarsi alla emenda del reo. Scopo utilissimo e santo, al quale il giure penale de^e tenersi estraneo, ma non frapporre impedimenti, ed anzi prestargli favore, per quanto è compatibile con l'essenzialità della pena.
§. 680. Per tali motivi la detenzione con separazione cellulare dei condannati va oggi allargandosi in tutti i paesi civili: persuadendo la ragione, e mostrando l'esperienza, che la promiscuità dei detenuti è fomite di corruzione.
§. 681. Ugualmente per tali motivi le moderne legislazioni hanno moderato l'abuso che in addietro fecesi dell'esilio; e sono venute ad applicarlo soltanto a certe mancanze che non rivelano decisa proclività al male.
§. 682. Nel graduare la pena della detenzione è specialmente da esaminarsi la grave questione, se sotto il duplice rapporto della sensibilità del reo, e della opinione pubblica; e così sotto il rapporto della forza obiettiva, tanto fisica quanto morale, della pena; la considerazione dell'intensità superi l'efficienza della durata. Questo problema non è stato sciolto a dovere da certi codici moderni.

3.° Pene infamanti.
§. 683. Pene infamanti sono quelle che tolgono al delinquente il patrimonio dell'onore. Ma poichè la natura stessa della delinquenza o della punizione può operar l'effetto di macchiare la fama del reo, come conseguenza spontanea di sè medesima; così è da avvertirsi che pena infamante dicesi soltanto quella in cui l'infamia è irrogata per una formale dichiarazione della legge.
§. 684. Distinguesi infatti l'infamia di fatto (o dell'opinione) dalla infamia di diritto (o della legge): secondochè il disonore si infligge o ex judicio hominum, o ex legis sanctione. La prima fu da Ulpiano detta naturalis, la seconda civilis. La prima, come avverte Woltaer, comincia dal giorno del delitto; la seconda dal giorno della sentenza. In antico la infamia civile si irrogava con la espulsione da certe corporazioni. Poscia venne in uso si decretasse espressamente: e prevalsero due modi diversi d'irrogarla:
1.° con decreto di giudice che dichiarasse infame il reo
2.° accompagnando il decreto con una manifestazione materiale; p. e. la gogna, la mutazione delle vesti, l'equitazione sull'asino (1).

(1) Donello censurò la distinzione tra infamia di fatto, e di diritto. Ma bene lo confutò Amaya in Cod. de infam. thes. 41 - Bachov ad Treutler thes. 4.

§. 685. Ma fu bene avvertito che l'irrogare l'infamia per disposizione di legge è superfluità, se già il delitto trae seco l'infamia di fatto; od è un conato impotente della legge, che ricade a sua derisione, se l'opinione pubblica non vi risponde: perchè il patrimonio dell'onore non esiste che nelle menti dei nostri simili; e la legge può comandare ai corpi, non all'opinione.
§. 686. D'altronde fu osservato che le pene infamanti avevano il difetto di essere
1.° aberranti,
2.° disugualmente sentite,
3.° perpetue; checchè sognasse il Bentham di un'infamia graduabile a piacimento nell'intensità e nella durata, col suo singolare paragone delle macchie in un panno. In fatto vi è certamente una indefinita gradazione nella perdita dell'onore, a causa del maggiore, o minore aborrimento che spiega la pubblica opinione contro i diversi fatti disonoranti. Ma questa gradazione non si può comandare dalla legge, nè delimitarsi in modo esatto ed efficace:
4.° distruttive della dignità umana, e così ostative all'emenda.
§. 687. Per queste ragioni, malgrado le declamazioni di Filangieri, prevalse nella scienza moderna l'idea che rigetta l'infamia, come dannosa od inutile, dall'armamentario penale.
Salvo a conservare come appendice di certe pene quella umiliazione che è redimibile, e che lungi dall'essere offensiva alla dignità umana, esprime anzi l'obbedienza ad un dovere per parte di chi ha mancato: e salvo il disonore consequenziale, che porta seco la perdita di certe dignità, o di certi uffici.
Sicchè questa terza classe di pene, benchè per ossequio al metodo universale dei criminalisti, continui a designarsi sotto il nome di pene infamanti, male conserva questo nome: essendo antilogico che si crei una classe speciale di pene, che poi si conclude non dovervi essere.
Pure una classe speciale di quelle pene che non affliggono nè il corpo, nè la crumena, o sotto il nome di pene umilianti, o sotto altro nome, è necessità mantenerla, lo volentieri avrei dato a questa classe il nome di pene morali, se non avessi temuto di apparir novatore; e se non avessi ravvisato poco esatta la denominazion di morali, tranne per figura di antonomasia; dovendo essere comune a tutte le pene un effetto morale anche sul delinquente.
In questa classe dovrebbero trovar sede
- l'ammonizione (la storia, e l'utilità della qual pena fu testè rilevata dal Consiglier Bonneville in un eccellente scritto)
- la nota censoria
- il biasimo
- l'interdizione di certi onori;
ed altre simili.
Ma ciò che non ho osato di far io, lo farà altri per certo; poichè lo esige lo svolgimento rapidissimo che ha preso nei tempi nostri la scienza.
La classe delle pene infamanti apparterrà tra breve alla storia.

4.° Pene pecuniarie.
§. 688. Dicesi pena pecuniaria qualunque diminuzione del nostro patrimonio sancita dalla legge come punizione di un delitto. è nell'indole di questa pena che la parte di patrimonio ritolta al colpevole si addica allo Stato. Ove fosse altrimenti si avrebbe una ragione di indennità, piuttostochè di castigo. Ma è morale che lo Stato destini il prodotto delle ammende ad opere pie. La legge in pena del delitto può togliere al delinquente o tutto il patrimonio; e la pena prende il nome di confisca: o soltanto una parte; e prende il nome di ammenda o multa secondo i casi. Questa forma di penalità vuol essere studiata storicamente, giuridicamente, politicamente.
§. 689. Nel rapporto storico troviamo che la pena pecuniaria ha sofferto notevoli tramutamenti. Troviamo le pene pecuniarie anche nelle leggi mosaiche, inflitte con la condanna al pagamento di denaro presso quel popolo che fu il primo inventore della pecunia numerata. Le troviamo nelle tradizioni di altri popoli anche nei secoli posteriori mantenute colla condanna al pagamento di pecore e buoi, o di altri oggetti; e in qualche luogo persino di mattoni: sotto la prima forma per la non anco invalsa costumanza della moneta; sotto la seconda per lo speciale bisogno che sentivano certe città di circondarsi di mura. E in cotesti popoli scorgiamo che coteste condanne ebbero il vero carattere di pena. Ma con ben differente carattere le troviamo nelle tradizioni dei popoli germanici, e nelle loro consuetudini: le quali, prevalse fino al secolo sesto dell'era cristiana, continuarono presso alcune di quelle genti, e si protrassero fino al secolo decimoterzo, ed anche oltre. Mentre apparisce che codesti popoli per un lungo periodo tutti i reati punissero di pene pecuniarie, è un fatto però che non conobbero mai questa pena come pena. Perchè quelle somme che un delinquente pagava all'offeso erano il prezzo della pace; ossia della renunzia, che il leso, o la sua famiglia facevano del preteso diritto di vendicarsi. E la somma che i delinquenti pagavano ai capi della tribù, sotto il nome di fredum, era una retribuzione che il delinquente dava al capo (qualunque si fosse) della nazione, per la protezione che gli aveva accordato contro la vendetta dell'offeso. Avvegnachè (come bene osservò Henke) sia singolare che appo codesti popoli per molti e molti secoli l'autorità non difese i privati contro i delinquenti, ma i delinquenti contro i privati offesi, affinchè non esercitassero esorbitanti vendette. Laonde tutti cotesti pagamenti non s'infliggevano nel vero concetto di pena. Il weregeld dato agli offesi era un'indennità: il fredum una sportula. Quando poscia lo studio risorto delle leggi romane rendette viva energia alle tradizioni di quell'impero, si condussero in voga altre idee: e i capi delle nazioni cercarono nelle costituzioni imperiali il testo di una supremazia più potente. Si sentì allora il bisogno di un riordinamento delle leggi criminali. Così avvenne che le ordinanze di Francesco in Francia, e la costituzione di Carlo V in Germania, che fu detta la nemesi Carolina, non menochè altri Statuti nel secolo decimosesto (con vicenda uguale a quella che si è veduta nel presente) fecero sorgere una codicizzazione penale per tutta Europa. Questi nuovi ordini, mentre dileguarono gli antichi errori, e le confusioni che, regnavano nel diritto penale, costituirono un sistema crudelissimo (1) di punizioni. La ragione di ciò si trova evidente nell'aver tolto la maestà a fondamento del giure punitivo. La Carolina nettamente pone come sua base il principio che i sovrani debbono punire i delitti perchè Dio ha dato loro la missione di vendicare le offese a lui fatte. Con tali premesse dovevano bene scomparire le pene pecuniarie. E di fatto noi le troviamo ristrette soltanto ai piccoli furti, o a lievi mancanze. Non così però la confisca; la quale si tenne cara in certi delitti, e specialmente nei politici, come mezzo di dar forza e ricchezza ad un partito, e di opprimere ed indebolire l'altro. Dopochè i progressi dei lumi ebbero nella materia punitiva eccitato quella universale commozione che dette origine ad una nuova scienza; mentre vennero gradatamente a cessare i modi atroci delle precedenti punizioni, che avevano fatto così trista prova della loro insufficienza; si ripresero in esame dai pensatori le pene pecuniarie sotto il loro rapporto giurìdico, e politico.

(1) Fra questi il più crudele di tutti fu quello di Francia.

§. 690. Sotto il punto di vista giuridico cercasi se la pena pecuniaria sia giusta. E qui non può cader dubbio circa l'ammenda, o multa: bensì circa la confisca. La confisca totale del patrimonio del condannato fu oggetto delle invettive di Beccaria. E malgrado la sofistica difesa che tentò farne il Cremani, (nè pur troppo fu solo ed ultimo) venne generalmente riprovata. Non si accordarono però i suoi avversarii sulla ragione (1) per cui dovesse respingersi. Kleinschrod pretese di sostenerla giusta; ma la riprovò come inumana. De Broglie la riprovò come impolitica, perchè alletta l'avidità dei partiti, e perpetua gli sdegni cittadini. Ma può bene farsi omaggio a tutte queste ulteriori ragioni; e dirsi con Carmignani e con Rossi, che la confisca dei beni del condannato non solo è impolitica, ed inumana, ma eziandio è ingiusta; perchè pecca di aberrazione, in quanto colpisce i figli innocenti, più che il colpevole. La legge che l'ammette, mentre in caso di prodigalità interdice il padre per serbare i beni alla famiglia, è contradittoria seco medesima. Si volle conservare in Francia nel Codice del 1810, che Napoleone dettò, senza avere il coraggio di dargli il suo nome. Ma la Carta del 1814 l'abolì là, come in Olanda, ed altrove; ed è stata reietta da tutti i migliori Codici contemporanei delle culte nazioni.

(1) La diversità del modo di ragionare le accuse contro la confisca dipende dal diverso principio che si assume a base del diritto di proprietà, del diritto di sucsione, e della società di famiglia. Se si nega la proprietà in diritto naturale, lo Stato che l'ha data non ha scrupoli nel ritorla: se si nega il diritto di successione, limitandolo ai soli bisogni; e se negasi ogni condominio nella società di famiglia; niente avvi che impedisca di spogliare i figliuoli. Nelle dottrine giuridiche i principii formano tra loro una perpetua catena.

§. 691. Sotto il punto di vista politico si osservò che le pene pecuniarie sono inefficaci rimpetto a delitti che muovono da impetuose passioni; solo può utilmente farsene uso nei reati che provengono da avarizia (1), purchè si proporzionino all'utile sperato dal delitto; ed abbiasi la cautela di congiungerle alle pene afflittive. Ciò per evitare il caso che non siano sentite; lo che avviene o per la grande ricchezza, o per la estrema povertà del colpevole.
Caterina II ordinò nel suo Codice che le pene pecuniarie si mutassero ogni trenta anni; per la probabile variazione della pubblica ricchezza. Ma cotesti dettati sono inutili oggi, poichè fare un Codice penale destinato a durare è una presunzione che" da nessuno si ostenta. Solo deve avvertirsi che le multe non possono dettarsi uguali nelle varie provincie, tra le quali interceda diversità notabile nello stato economico. Per tali riguardi ella è cosa piena di difficoltà determinare il criterio della distribuzione delle multe in una legge: e d'altronde non può ammettersi che se ne rilasci la quantità all'arbitrio del giudice.

(1) Nel furto è peraltro problematica la loro convenienza. Raramente chi ruba ha sostanze donde possa recuperarsi la multa. E quando abbia qualche assegnamento, fa osservato, che la legge col privarlo anche di questo in pena del furto lo rende sempre più povero. Cosicchè se prima rubava per bisogno, dopo ruba per necessità. Ottime in proposito della pena pecuniaria sono le restrizioni dettate dal Codice Austriaco.

§. 692. Filangieri, risuscitando un pensiero di Platone (de legibus 11, 12) riprodotto da Paolo (sentent. recept.), suggerì che la pena pecuniaria, onde renderla uguale per tutti gli uomini collocati in diversa fortuna, si determinasse in una quota del patrimonio del reo. Ma cotesto concetto non raggiungerebbe mai la sperata eguaglianza relativa della pena; come bene rilevarono Oersted, Rossi, ed altri. Di più siffatto metodo (d'altronde ineseguibile) sarebbe ingiusto nel suo principio. Bensì deve accettarsi la dottrina del Tittman, che la pena pecuniaria debba surrogarsi da altra quando lo applicarla condurrebbe alla miseria il colpevole: perchè allora sarebbe una confisca indiretta.
§. 693. Del resto giova tener presente che la pena pecuniaria deve essere nella legge criminale Spogliata sempre da ogni idea d'indennità, e distinta da questa. Tal distinzione non è soltanto tecnologica. Essa influisce sulle conseguenze giuridiche del passaggio contro gli eredi; della solidarietà; e della responsabilità dei terzi. Cose tutte che se possono ammettersi quando un'ammenda, impropriamente chiamata pena, non sia in sostanza che una refusione di danno; repugnano alla multa che s'irroghi veramente come pena; poichè, sebbene pecuniaria, non però deve cessare di essere personale. Circa la solidarietà dei condelinquenti vengono in urto due considerazioni diverse. Il pericolo di rendere elusoria la pena, col frazionarla a cagione del numero dei rei: e il pericolo di moltiplicarla, e crescerla a dismisura, per il cresciuto numero dei correi: lochè avverrebbe senza fallo se si ammettesse la solidarietà nella multa. Anche per la considerazione di questi due opposti pericoli vai dunque meglio rigettarla; e tenere ciascuno dei rei responsabile soltanto della multa che da lui individualmente si deve. Il principio opposto prevale quando l'ammenda sta come refusione d'indennità, perchè questa non si aumenta pel numero dei contravventori, e tutti per giustizia debbono esserne solidalmente responsabili. L'idea di pena che accompagna anche la multa riproduce nella medesima la condizione della personalità. Laonde, come sostennero virilmente Rauter, Backer, Nypels, ed altri, non potrebbesi per principio scientifico ammettere su ciò distinzione tra pena corporale e pecuniaria.

CAPITOLO VIII
Criterii della quantità delle pene.

§. 694. Dall'esame della qualità delle pene si rileva la loro respettiva quantità naturale; cioè il rapporto di gravità del patimento che le diverse punizioni arrecano al colpevole. Ciò abilita il legislatore, dopo avere sciolto il problema del maximum, a formare la scala penale: che così dicesi la distribuzione delle pene, ordinata secondo la loro gravità relativa. Ma il criminalista deve nelle pene esaminare ancora la quantità politica: cercare cioè le regole secondo le quali la diversa quantità naturale delle pene deve essere distribuita ai diversi delinquenti: avvegnachè la giusta adequazione delle varie pene alle diverse delinquenze sia principio assoluto e supremo nel magistero punitivo.
§. 695. Primo oggetto di tale ricerca è quello di determinare la regola astratta di proporzione (1) da seguitarsi in cotesta misura. E qui è ormai massima pacifica (almeno nella scienza) che, reietto il sistema armonico, e geometrico, la misura delle pene debba ,ordinarsi sul solo sistema aritmetico: quello cioè che prende per criterio di proporzione la sola quantità del delitto. La proporzione geometrica; che nella misura della pena vorrebbe tenere a calcolo la condizione personale del delinquente; fu per lunga stagione dominante. Ma è singolare che lo fu con vicenda contradittoria. Perchè della elevata condizione del reo si tenne conto in alcuni luoghi al fine di aggravare la pena, per la ragione dell'aumentato danno morale del delitto (2); e in altri luoghi se ne trasse ragione di diminuire certe pene per la maggiore sensibilità relativa del delinquente. Ma ammesso che le due osservazioni abbiano un fondo di verità, la conseguenza è che tra loro si elidano; e niente debba aversi riguardo alla condizione del reo, se non in quanto questa operi per se stessa come qualificante il delitto.

(1) I popoli primitivi concepirono l'idea della proporzione della pena al delitto in un senso tutto materiale: e vennero al taglione. Non è in questo senso che la s'intende oggidì. Qual è la proporzione fra l'ingiuria e la multa; fra l'omicidio e la casa di forza? La proporzione della pena al delitto non vuole essere intesa come un rapporto materiale; ma in un senso tutto psicologico. Non si cerca già una proporzione tra fatto materiale e fatto materiale; ma tra effetto morale e effetto morale. L'effetto morale subirà sempre, egli è vero, una certa influenza dall'effetto materiale; e come il danno è il criterio della quantità intrinseca dei delitti; così il patimento materiale sarà il criterio della quantità intrinseca della pena. Ma quando vuoisi istituire il rapporto fra quantità e quantità, non è la materialità quella che deve prendersi di mira, per dire vi è giusta proporzione. Deve considerarsi la forza morale oggettiva del delitto, e irrogare una pena che abbia sugli animi forza morale bastante per ristabilir l'ordine, conflittando il disordine morale cagionato dal malefizio. Se la proporzione della pena al delitto dovesse desumersi dal criterio materiale, la sua misura sarebbe costante in tutti i tempi e per tutti i popoli. Mentre invece è indubitato che più si moralizza un popolo, più può senza pericolo ammollirsi il rigore delle pene, appunto perchè il calcolo del loro rapporto è tutto morale. è in questo senso, che bene disse Niccolini, il codice penale essere il termometro della civiltà dei popoli.

(2) Questo ne accerta, a modo di esempio Beaumonoir in ordine alla costumanza di Beauvoisis.

§. 696. La proporzione aritmetica risponde all'etimologia della parola pena, derivata da pendere. La pena non è che un cambio di valori. E la moneta di cui si paga il delitto. Poena, disse Papiniano (leg. 41 ff. de poenis) est aestimatio delicti. Ma questa formula astrattamente vera si rese falsa troppo sovente nell'applicazione per l'errato criterio della stima. E questo non potrà mai desumersi da condizioni estrinseche al delitto, che non ne accrescano nè la forza fisica, nè la forza morale.
§. 697. Posto tale principio, le regole successive intorno al metodo di trovare cotesta proporzione sono le seguenti:
1.° Nell'adattare la scala delle pene alla scala dei delitti, ordinata pur essa secondo la loro quantità relativa, deve procedersi con moto discendente: incominciare cioè dalle più atroci delinquenze, e a queste contrapporre le più gravi punizioni; e di qui passare di grado in grado alle applicazioni inferiori.
2.° Nello scegliere la qualità del male da infliggersi al reo deve cercarsi di agire per quanto è possibile sulla passione che lo spinse al delitto, onde privarlo del bene cui col suo stesso delitto ha mostrato di maggiormente appetire. Notisi che questa regola non ha niente di comune con la formula della proporzione così detta qualitativa; con cui un filosofo contemporaneo ha col velame di nuove espressioni, tentato di riprodurre nè più nè meno la dottrina del taglione. Il rapporto tra pena e passione è ben diverso dal rapporto di qualità tra male materiale della pena, e male materiale del delitto.
3.° Cotesta difficilissima operazione deve sempre esser guidata dal puro criterio della quantità del delitto; senza lasciarsi punto influenzare dalla difficoltà della prova di certi delitti. Accrescere la pena per la difficoltà di provare il delitto altro non è che vendicarsi sul reo della impotenza nostra. E nel tempo stesso, siccome la difficoltà della prova rende più facile un error giudiciario, ciò varrebbe quanto render maggiore il male che s'infligge quanto più cresce il pericolo di infliggerlo all'innocente. E se obiettasi che la difficoltà della prova fa restare molte delinquenze impunite, viene ad ammettersi che io soffra un male maggiore per conseguenza del fatto altrui (1).

(1) Osservo ancora che accettato questo criterio dovrebbe seguirsi in tutte le sue logiche conseguenze. P. e. dovrebbe punirsi più il furto di danaro, che di oggetti riconoscibili: il veneficio con veleno vegetabile, di quello con minerale; e cosi via discorrendo.

4.° Non deve parimente accattarsi una ragione giuridica di aumentare la pena dalla accidentale frequenza di alcuni fatti criminosi.
§. 698. Quest'ultima proposizione ha formato argomento di divergenti opinioni, specialmente dopochè Bentham ebbe insegnato che lo infittirsi di certe delinquenze portava a dovere aumentare il rigore delle punizioni. Tale pensiero aveva già dominato nella mente di troppi legislatori, e n'era derivato il crescente progresso nell'atrocità dei supplizi. Siffatta teoria era logica, tinche si procedeva coll'idea che il fine della pena fosse quello d'impedire i delitti. In quest'ordine d'idee ragionava Vouglans quando diceva che la continuazione del delitto malgrado la minaccia della pena, era la prova apodittica, che le pene fin qui adottate erano insufficienti; e che però bisognava accrescerle. Su quest'ordine d'idee correva Jenull quando osservava che la pena rimpetto a colui che aveva delinquito era sempre mite, perchè non avea bastato a frenarlo. Se ci ostiniamo a trovare il fine della pena nella cessazion dei delitti non ci arresteremo mai nella crescente severità. è vero che per colui che ha delinquito la minaccia della pena fu insufficiente, poichè egli l'ha sprezzata. Ma essa fu però sufficiente per tutti gli altri. E il delinquente non la sprezzò perchè calcolasse di andare in carcere piuttosto che in galera, ma perchè o nell'impeto non vi pensò, o perchè calcolò di non essere scoperto. Onde col calcolo dell'impunità avrebbe sprezzato ugualmente un'altra pena, benchè più terribile. Non pareva dunque che la fallace dottrina dell'aumento della pena per l'aumentarsi di certi delitti potesse trovare accoglienza presso quei criminalisti, i quali, meglio edotti, avevano reietto il principio dell'utilità, e il fantasma dell'intimidazione: come p. e. Trebutien (1, 32).
Puffendorf (8, 3, 22) aveva insegnato all'opposto che la frequenza dei delitti valesse come ragione per alleggerire le punizioni, dovendosi indulgenza a colui qui fuit abreptus a torrente similia patrantium. E ciò che egli ragionava sul principio morale, si è riprodotto recentemente dal Professor Veratti anche per ragioni politiche: e perchè la moltitudine dei gravemente puniti è di danno alla società; e perchè la soverchia pena contro un delitto frequente si rende sempre più intollerabile, che non la soverchia pena contro un reato insolito, e raro: e perchè l'eccessivo rigore contro un delitto frequente più facilmente si risolve nell'impunità generale.
Altri sulle orme di Grozio (de j. b. 2, 20, 35) distinse tra l'ufficio del magistrato, che nella frequenza di certi delitti, conforme al debito che gli corre di calcolare la moralità speciale del fatto, deve trovare una scusa a chi si lasciò trascinare dal mal esempio: - e l'ufficio del legislatore, il quale ei volle dovesse per la frequenza accrescere la difesa in ragione del cresciuto pericolo.
Carmignani saldamente si oppose alla feroce regola sì per le considerazioni politiche, come per le considerazioni di giustizia; la quale non tollera s'irroghi ad un delinquente una pena aggravata per i delitti commessi da altri. Se la frequenza accresciuta in certi delitti tenesse dietro ad una correzione legislativa che ne avesse modificato la pena, potrebbe allora l'insolito spesseggiare dell'infrazione ravvisarsi come un fatto rivelatore di uno sbaglio legislativo; e consigliarne la emenda. Ma tranne questo caso l'aumento occasionale di certe delinquenze deve l'autorità studiarlo e correggerlo nelle sue cause. Queste debbono esservi; o in genere nella trascurata vigilanza della pulizia; o in specie in certe condizioni eccezionali, quali sono, a modo d'esempio, le carestie nei furti, le agitazioni politiche nelle resistenze, e simili. Trovata la piaga, deve curarla con mezzi preventivi, e non ricorrere al facile, ma tristo espediente di accrescere le pene; col quale moltiplica il male senza portarvi rimedio.

CAPITOLO IX
Criterii del grado nella pena.

§. 699. La degradazione della quantità speciale di un fatto delittuoso operata dall'eccezionale deficienza o diminuzione di alcuna delle sue forze; che costituisce una causa minorante l'imputazione (§. 207 e segg.); porta seco per dovere di giùstizia una diminuzione anche nella pena. In cotesti casi per altro la degradazione non nasce dagli elementi della pena, ma dagli elementi della delinquenza, considerata nelle sue individuali condizioni.
§. 700. La teoria del grado in ordine alla pena, porta invece ad esaminare quelle cause di modificare il castigo che derivano puramente dalle condizioni e dal fine della pena. Cosicchè questa teoria presuppone che rimanga nel caso speciale inalterata la quantità del delitto; e debba ciò non ostante alterarsi la misura ordinaria del male destinato per regola a quella specie. Presuppone, in una parola, (o almeno lo ammette) che il fatto criminoso esaurisca in se tutti i momenti morali e fisici per meritare la pena ordinaria.
§. 701. Tali cause possono discendere dai due caratteri della pena; di essere essa uno strumento di bene politico, e di dovere rappresentare quella adequata quantità di male da patirsi dal delinquente, che il legislatore credette congruo a giustizia lo infliggere. Le prime si dicono cause estrinseche, o politiche. Le seconde possono dirsi intrinseche alla pena; o giuridiche.
Alcune di queste cause portano ad una semplice modificazione, o commutazione di pena. Altre possono spingere l'efficacia loro fino al punto di far cessare ogni penalità benchè meritata.
§. 702. La differenza fra il grado del delitto, e il grado della pena non è sempre bene avvertita da molti criminalisti, in special modo oltremonte; dove, o siasi data la cognizione delle circostanze attenuanti all'indefinito arbitrio del giudice, come in Francia (1); o siasi subordinato codesto arbitrio alle definizioni della legge come in Spagna e nel progetto portoghese; sempre però nel fascio delle circostanze attenuanti si è confuso ciò che modifica l'imputazione con ciò che modifica la pena. Di qui ne nacque un'apparente divergenza tra scuola e scuola; e ne nacque poi una inesatta ed inadeguata valutazione delle scuse speciali; ora ingiustamente reiette; ora ingiustamente aecettate senza debite limitazioni. A tacer d'altro basti osservare che se le cause di scusa si ammettono senza tenere dinanzi agli occhi questa importantissima distinzione, ne consegue che una data causa che ha la sua ragione soltanto nella qualità della pena si ammetterà, o si negherà in faccia a qualunque specie di pena, e ciò condurrà sì nell'uno come nell'altro caso all'ingiustizia. Laddove osservata con scrupolosa esattezza la distinzione della scuola italiana, si dovrà dire quando la delinquenza non è diminuita nelle sue forze, che l'imputazione resta nella sua pienezza: e passando poscia a considerare la pena destinata per quella delinquenza nel suo relativo colla persona del delinquente, o con certe politiche considerazioni, trovarsi una ragione o di giustizia o di convenienza per modificare il male che rappresenta la pena ordinaria. Spiegherò l'idea di questa distinzione con un confronto. Ordinato un lavoro ad un operaio si calcola il valore dell'opera in sè, e gli si dà il prezzo che merita in sè stessa: ecco un calcolo analogo al calcolo della quantità nei delitti. Ma se l'operaio adoperò nel lavoro intelligenza minore o lasciò il lavoro imperfetto, gli si valuta al di sotto della quantità ordinaria del valore di quell'opera; ecco l'analogia col grado nel delitto. Ma se all'operaio si dà qualche cosa di più del valore ordinario perchè è povero, perchè ha famiglia, per benemerenza di altri servigi, per il calcolo di potere avvantaggiarci altrimenti colla sua benevolenza: ecco l'analogia col grado nella pena. L'opera è l'istessa: ha l'istesso intrinseco valore di ogni altra simile. Se per quei riguardi alla persona, o per quelle vedute nostre, si dà all'operaio di più: se gli si dà invece di meno perchè abbiamo a lui fatto precedenti servigi, o per altra qualsiasi considerazione personale, che non influisca sul valore intrinseco dell'opera; si procede precisamente come procede la legge quando aumenta o diminuisce la pena in due fatti che intrinsecamente avrebbero uguale valore. Il grado nella pena non cambia nè il titolo, nè la quantità, nè il grado del delitto. Fa sì che la pena, la quale è il prezzo con cui la società paga il delitto, debba modificarsi per ragioni di mero rapporto coll'individuo delinquente, sebbene il valore del delitto non si modifichi.

(1) Ciò riconduce la quantità politica della pena alla proporzione armonica; la quale appunto consiste nel rilasciare del tutto all'illimitato arbitrio del giudice il porre in armonia la quantità della pena con ciascuno malefizio.

CAPITOLO X
Cause politiche o estrinseche di modificare la pena.

§. 703. L'ultimo fine del punire è il bene sociale. Quando pertanto circostanze speciali dimostrino che l'applicare l'ordinario rigore della pena in un dato caso, quantunque consentaneo a giustizia, produce alla società un danno maggiore di quello non le derivi dal lasciare impunito, o dal punir meno, quel reo; nasce un conflitto fra la esigenza della rigorosa giustizia, e le esigenze dell'ordine esterno. Sarebbe giusto applicare la pena ordinaria; ma ciò recherebbe un disordine maggiore di quello che nascerà dall'omettere o moderare la punizione.
§. 704. Se la ragion di punire avesse a suo fondamento la giustizia assoluta, questa dovrebbe farsi, perisse il mondo: se il fine della pena fosse l'espiazione, questa dovrebbe essere impreteribile. Ma la giustizia non è che un criterio limitativo del giure penale (§. 612). Il suo fondamento è la tutela del diritto: e in ogni opera di difesa entra sempre il calcolo comparativo del male maggiore e del male minore. Il suo fine immediato è il ristabilimento dell'ordine: e quando l'ordine completo non può per ragioni umane ottenersi; l'ordine sta nel disordine minore. Dunque il bene maggiore dei consociati può esser causa di deflettere dal rigore della giustizia: e da questo fonte medesimo può nascere una serie di cause che si dicono estrinseche alla pena; le quali impongono la cessazione, o la modificazione della medesima per ragioni che sono inerenti piuttosto al suo ultimo fine, ed al suo fine immediato nel tempo stesso, anzichè alla sua natura.
§. 705. La giustizia sarebbe ferita quando sotto il pretesto di pubblico bene si aumentasse, oltre il suo prescritto, la pena; perchè in quella sta il limite del diritto di punire. Ma non si offende nel caso inverso, appunto perchè essa non è che un limite: essa cioè interviene nel magistero penale onde impedire che si punisca dove essa lo vieta; ma non per imporre che si punisca sempre ove essa lo comandasse al suo comando non risponde il bisogno della tutela giuridica; o l'obbedirvi espone a pericoli maggiori il diritto che si vuole proteggere.
§. 706. Da ciò è chiaro che possono esservi cause politiche (o estrinseche) di diminuire la pena; ma non possono ammettersi cause politiche di aumentarla.
§. 707. Queste cause politiche si dividono naturalmente in due categorie: e fu a mio credere una disavvertenza del Carmignani il farne una sola classe. Siffatta suddivisione deriva dalla potenza o impotenza in cui versa la legge di prevederle a priori. Fermo nel principio che la legge deve, per quanto può, regolare in antecedenza tutti i casi che essa può prevedere; penso che a questo grande dovere la legge si uniformi anche in ordine a quelle cause politiche che, per la condizione loro, possono prevedersi, delinearsi, e definirsi a caratteri pronunciati: e così consegnarsi la loro cognizione ed applicazione al giudizio prudente del magistrato, diretto dalle prestabilite disposizioni della legge. Ma per quanto possa desiderarsi in questa materia la esclusione dell'arbitrio dell'uomo, non sempre può ottenersi. Perciò vi sono delle cause politiche la cognizione delle quali, nè può dalla legge prestabilirsi con regole certe, nè può affidarsi al giudizio del magistrato; perchè dipendono da condizioni variabilissime, e da condizioni attenenti all'alta politica.
§. 708. Di qui la necessità di formare due distinte categorie di codeste cause.
L'una che io chiamo - serie delle cause indeterminabili dalla legge.
- Queste inevitabilmente ricadono sotto il diritto di grazia. Diritto sovrano, in ordine al quale la scienza può dare dei suggerimenti generali; ma che non può limitarsi a priori dalla legge. è il potere esecutivo quello che deve in ogni singolo caso verificare, e valutare la convenienza del suo esercizio.
L'altra che chiamo - serie delle cause determinabili dalla legge.
- In questa serie non cade l'esercizio del diritto di grazia: non cade arbitrio nè di principe, nè di magistrato: tutto è preordinato dalla legge: la quale si è determinata ad accoglierle, non per ragioni di giustizia, ma per ragioni di pubblica utilità. Essendo così ordinate dalla legge parrebbe che venissero sotto cotesto rapporto ad avere il carattere di cause giuridiche. Pure le mantengo col Carmignani nella classe delle estrinseche o politiche; perchè tale è la loro genesi razionale.
Prima serie
Cause politiche indeterminabili dalla leggi.

§. 709. Perchè la cognizione di certe circostanze, che rendono conveniente modificare od anche toglier del tutto la pena meritata da un colpevole, si riserbi al potere esecutivo esercente il diritto di grazia, le medesime debbono avere un carattere straordinario; tutto accidentale e proprio di quella specialità, e delle condizioni del paese, dei suoi bisogni, o di cento altre considerazioni; alle quali non può permettersi che il magistrato levi lo sguardo; e non è possibile che il legislatore con un dettato generale spinga antecedentemente le sue previsioni. Enumerarle dunque è impossile per la stessa ragione dell'esser loro. Si ammettono, a modo di esempio, dai dottori; e si enunciano come ragioni possibili di trovare conveniente l'esercizio del diritto di grazia, i meriti del delinquente (1), il timore di tumulti, la moltitudine dei colpevoli, il bisogno che abbia del delinquente la patria, o i servigi a lei prestati, ed altre consimili.

(1) Sui meriti del delinquente dissertò elegantemente Puttmann opusc. crim., opusc. 11.

§. 710. Molto fu scritto contro il diritto di grazia da Beccaria, Pastoret, Bernardi, Filangieri, Bentham, Kant, ed altri moderni. Ma i loro obietti furono combattuti: e il diritto di grazia si è mantenuto ovunque, malgrado la mossagli guerra; e può riuscire utilissimo quando sia razionalmente esercitato.
§. 711. La grazia appartiene al potere esecutivo. Essa è ben diversa dall'amnistia (1) o indulto, che appartiene al potere legislativo. Questa, più generale nelle sue cause, e più pingue nei suoi effetti, non estingue soltanto la pena, ma cancella il delitto. Questo concetto è nella stessa etimologìa della parola amnistia - oblivio.

(1) Sulle differenze fra la grazia e amnistia vedasi Steck De amnistia - Bertauld leçon 21.

Seconda serie
Cause politiche determinabili dalla legge.

§. 712. Appartengono a questa serie tutte quelle circostanze che procedono da certe condizioni uniformi del rapporto della pena col pubblico bene; e perciò sono definibili a priori. Queste debbono prendersi in esame dal potere legislativo; e quando si credono ammissibili, sanzionate come regola costante dalla legge generale, debbono rimettersi ai magistrati per la loro applicazione. Tale è la quietanza dell'offeso nei delitti di azione privata (1). Tale è, per la dottrina dei pratici, la confessione del reo, tempestiva e utile alla giustizia. Tale è la prescrizione della pena.

(1) La quietanza del leso si novera fra i modi politici, perchè se in certi casi (come nell'adulterio) si concede alla remissione dell'offeso l'autorità di far cessare la pena, non è per un principio di giustizia, ma per riguardi di pubblico ordine.

§. 713. Carmignani attribuì indistintamente al potere esecutivo tutte le cause estrinseche. Per lui non ve n'era alcuna fra queste, che potesse formare oggetto di misure legislative generali. E con quest'ordine d'idee, enumerò fra le cause di grazia anche la prescrizione della pena, e la confessione del reo. Ma negando che la prescrizione della pena dovesse ammettersi per legge generale, andò contro la opinione di molti autorevoli criminalisti, e seguitò la dottrina prevalente in Toscana.
Negando poi che ai magistrati si potesse dalla legge affidare la diminuente della confessione, non solo andò contro la dottrina dei pratici; ma contrariò eziandio la pratica universale accolta ai suoi tempi in Toscana. Fino al 1853 fu regola inconcussa delle nostre osservanze giudiciali, che il giudice dovesse ad un condannato valutare a disgravio la spontanea confessione che fosse stata utile alla giustizia. A diritto costituendo vi è molto da dire in ambedue i sensi su tale argomento. Da un lato repugna che la legge dica in precedenza che quando un accusato confesserà a danno proprio, o dei complici, avrà uno sgravio di pena. Questo dettato apparisce ad alcuni immorale: apparisce una transazione col delitto: il senso morale di alcuni se ne offende, e ne teme un incentivo alle scelleraggini.
Dall'altro lato è un fatto che se l'utilità politica può tenersi come giusta ragione per ammollire a riguardo di lei alcun poco il rigor della pena, questa utilità derivante dalla confessione di un accusato, non può nè raggiungersi nè congruamente valutarsi, ove la cognizione della spontaneità e della importanza di una confessione giudiciale non si deferisca ai magistrati, in faccia ai quali si agita il processo. Essi soli, consultando la loro coscienza, sono in grado di dire se, dove fosse loro mancata quella confessione, si sarebbero o nò trovati nella necessità di assolvere. Cosicchè riportando questa causa diminuente fra le cause di grazia sovrana, essa si denatura, e si rende meno proficua, perchè l'incertezza della sua valutazione affievolisce l'allettamento alla confessione spontanea. L'utilità politica di tale diminuente sta in questo: data la certezza che per difetto di prova si sarebbe dovuto assolvere, è meglio che si punisca, quantunque si punisca meno, di quello non punir niente, e dovere assolvere un colpevole (1). Ammettendo sotto questo punto di vista la diminuente della

(1) Questa ragione che domina il Codice Austriaco (art. 46 lett. h) non è stata valutata in altri codici confessione, noi aderiamo strettamente al nostro principio della tutela giuridica. La formula utilità politica che quì adoperiamo non è altro che l'utilità di mantenere la protezione del diritto. La quale in ultima analisi è meglio ottenuta col punir meno, che col punir niente. D'altronde l'apparente immoralità di questo allettamento politico alla denuncia non è così flagrante come nel caso dei decreti d'impunità, che giustamente oggidì si riprovano da tutti: e viene temperata dalla condanna che va a colpire, benchè più mite, il colpevole confitente. La pubblica morale si adatta con simpatia a veder trattato con più benignità il confitente; sì perchè la confessione stessa quando è a proprio pericolo è arra di resipiscenza; sì perchè il pubblico calcola che senza la confessione la giustizia sarebbe stata delusa; sì perchè questa idea si connette col sommo principio religioso della redenzione del peccatore. In queste ultime considerazioni i seguaci della moderna scuola correzionalista trovano la ragione determinante di ammettere questa scusa. Io non valuto queste ragioni come fondamento della sua ammissione: ma solo come valida repulsa all'obietto della immoralità di ammetterla. Il principio fondamentale della sua ammissione lo trovo bastante nel servigio che presta alla tutela giuridica. Io non posso approvare il progetto portoghese che avrebbe posto fra le circostanze aggravanti della pena la negativa del reo. Aggravamento vuol dire quantità maggiore di punizione. Quantità maggiore di punizione non può aversi senza supporre una quantità maggiore di colpa. Ora supporre nella negativa del reo una colpa speciale è una crudeltà che va a ritroso dei comandi della umana natura. Non mi soscriverei dunque a chi volesse dire, si aggravi la pena al reo negativo: ma non troverei difficoltà a soscrivermi a chi dice, si attenui la pena al reo che utilmente confessa. Queste divergenze di ragioni e di modi non sono mere sottigliezze, od inutili tenacità di formule. Risalgono ai grandi principii dominatori della scienza; e ne discendono poi nella pratica svariatissime ed importanti conseguenze.

§. 714. La prescrizione della pena ha dato agli scrittori argomento di grave disputa: diversamente risoluta dai diversi legislatori. A molti scrittori dei quali fu antesignano il Bentham (divenuto ad un tratto moralista) pare brutta cosa che un codice prometta dopo un numero di anni la impunità ad un colpevole, riconosciuto tale per condanna di tribunale: e quasi prometta un premio alla inobbedienza, alla scaltra latitanza, o alla fuga dal carcere.
§. 715. La prescrizione dell'azione è, secondo questa dottrina, tollerabile perchè si è incerti della reità, mancando la giudiciale pronunzia. I cittadini dubitano se quell'uomo sia un colpevole fortunato, o una vittima infelice d'un ingiusto sospetto: e conviene estinguere un azione che si tenne così a lungo inoperosa; e che vorrebbe ripristinarsi quando il tempo ha reso più ardua la cognizione del vero. Ma prescriver la pena dopochè il delitto fu reso certo per decreto di magistrato, è (dicono) un confessare la debolezza della legge; è un insulto alla morale; è un trionfo scandaloso della scelleraggine.
§. 716. Altri invece (Puffendorf, Dunop, Trebutien, Mesnard, Haus, Villeret) non hanno guardato che al fine della pena. Quando il delitto e la condanna sono dimenticati (hanno essi detto) il disordine è cessato; la pena che si irroghi è senza scopo: essa non ha altro effetto morale che quello di eccitar la pietà. Volete voi mandare a morte un uomo di 60 anni per un delitto che commise all'età di 20? Il dramma della pena si svolge agli occhi di una generazione per la quale il dramma del delitto non è più che un fatto storico. Questa è la ragione più solida a cui si appoggi la prescrizione della pena. La formula della prescrizione derivata dal possesso d'impunità è empirica. Il possesso di uno stato contrario alla legge non può avere efficacia giuridica.
§. 717. Altri (Le Sellier, Rodière, Zillebeecke, Helie, Boitard, Hoorebecke ec.) aggiungono ancora che la giustizia deve chiamarsi paga delle angosce che il condannato ha sofferto nella lunga sua latitanza. Osservazione che non mi sembra nè positiva, nè coerente ai principii. Essa si fonda sopra una astrazione filosofica; sopra una presunzione che può fallire: e non dà ragione giuridica di sè stessa, tranne appo chi nella pena cerchi l'espiazione morale. Pure è forse la ragione più popolare: e forse è il suo stesso vizio, di essere una ragione morale, quello che la rende popolare. Avvegnachè sia un fatto notevole che in diritto penale tutti si credono autorizzati a sedere a scranna, e pronunciare opinione. Poeti, filosofi, giornalisti, teologi, romanzieri, medici, tutti ragionano ex professo in giure penale. Ma perchè ciò? Appunto perchè ne falsano il concetto; o compenetrandolo con la legge morale pura, che è a portata di tutti; o coordinandolo al tornaconto politico, che ciascuno si crede in grado di misurare. è questa forse la ragione per cui spesso acquistano popolarità certe massime che trasportate dal campo della morale o della politica, sotto la severa critica del diritto, si veggono a colpo d'occhio o giuridicamente erronee o fallaci (1). Sotto il punto di vista giuridico le ragioni del possesso d'impunità, e della presunta espiazione morale non sono che parole: la ragione della difficoltà della prova non ha valore in faccia ad una rejudicata. Sicchè il solido argomento sul quale può assidersi la prescrizione della pena, è solo questo, che decorso un lasso di anni dopo la condanna la sua esecuzione manca di esemplarità.

(1) La prescrizione della pena veniva in Roma ad essere inclusa nella generale prescrizione della actio ex judicato che si consumava in trenta anni - Hoorebecke pag. 8: Villeret §. 21. - Fra le leggi dette barbare non pare si trovi traccia di prescrizione di pena. è certo che i Visigoti ammisero la prescrizione dell'azione; si contrasta fra Bertauld e Villeret se la fosse ammessa nei capitolari di Carlo Magno. Risorto l'impero del diritto romano si ammise generalmente la prescrizione dell'azione col lasso di 20 anni, ridotto a meno pei delitti minori. Solo l'ordinanza di Luigi XIV del 1670 dichiarò imprescrittibile il duello, e lo zelo di alcuni dottori pretese di estendere l'imprescrittibilità anche alla lesa maestà. Così Jousse, e Vouglans. - Ma in proposito di prescrizione di pena non si trovano disposizioni speciali neppur nella Carolina.
Fra i codici moderni la prescrizione della pena si ammette dal Codice di Sassonia, di Wurtemberg, di Francia, di Napoli; dal Codice Sardo, dal Codice di Modena, e dal progetto portoghese art. 174. Non si ammette dal Codice di Prussia, e del Brasile, nè dal Codice Toscano.

§. 718. Gli argomenti sono gravi per una parie e per l'altra; e forse la disputa vuol essere risoluta con distinzioni prudenti. Ma in genere una prescrizione della pena si deve ammettere, come dai più si ammette. Osservo poi che nelle condanne contumaciali, quando non hanno fatto passaggio in cosa giudicata, esige la logica; se si ammette la prescrizione dell'azione; e per tutte le ragioni per cui la prescrizione dell'azione si ammette; che si ammetta anche la prescrizione della pena. Infatti se si vuol essere coerenti alle ragioni supreme di giustizia per cui si accetta la prescrizione dell'azione, non si può a parer mio ammettere la teoria della interruzione di cotesta prescrizione, la quale rende cotesto provvedimento puramente facoltativo nel pubblico accusatore. Perlochè la prescrizione dell'azione non dovendo a parer mio cessare per la sentenza contumaciale; e questa cadendo per la costituzione del condannato in contumacia, la prescrizione dell'azione osta al nuovo giudizio che ex integro dovrebbe farsi; come insegna Niccolini proc. pen. p. 5 n. 1257. Lo che deve condurre ad ammettere più facilmente anche la prescrizione della pena irrogata per sentenza contradittoria. La massima che fa cessare la prescrizione dell'azione per la sentenza contumaciale, rende elusorio quel modo di prescrizione, e conduce a tutti gl'inconvenienti pregiudicevoli all'innocenza, pei quali si ammette da tutti, che l'azione penale debba avere un termine prescrittivo.

CAPITOLO XI
Cause giuridiche o intrinseche di modificare la pena.

§. 719. La pena deve essere un male pel delinquente: e deve essere quella data quantità di male che il legislatore ravvisa sufficiente a proteggere il diritto, senza eccedere la proporzione colla quantità delle respettive delinquenze. I calcoli del legislatore sono istituiti su questo rapporto. Ma il rapporto può variare; ed allora deve modificarsi, od anco cessare la pena.
§. 720. Può variare il rapporto, o per circostanze individuali, o per mutata volontà del legislatore. In ambo i casi si ha una causa giuridica che modifica la pena incorsa mediante il delitto.
§. 721. Perciò queste cause giuridiche possono nascere o da accidentalità individuali, o. da accidentalità legislative.
Articolo I.
Accidentalità individuali
.
§. 722. Nei casi ordinarii, e per la comune dei delinquenti, il rapporto di proporzione fra il male della pena e il male del delitto è quello stabilito dalla legge. Ma sorgono dei casi straordinarii, che alterano cotesto rapporto per eccezionali condizioni in cui trovisi quel tale individuo che deve punirsi. Allora vuole giustizia che in obbedienza al principio se ne modifichi l'applicazione. In tali casi si ha un aumento o decremento relativo della pena sotto il rapporto della sensibilità del reo. II male che patirebbe l'individuo per l'irrogazione della pena ordinaria, non sarebbe quello stesso dolore che soffrono gli altri; cioè non avrebbe quel grado di forza fisica obiettiva, che nelle previsioni della legge, esso ha su tutti gli altri delinquenti. Quel male per le condizioni individuali del reo sarebbe o maggiore o minore: onde la pena avrebbe nella specialità una forza fisica oggettiva che in rapporto a quell'individuo sarebbe o maggiore o minore dell'ordinaria. Allora mantenere l'uguaglianza delle pene sarebbe un punire disegualmente: e perciò sarebbe ingiusto quando le condizioni speciali del giudicabile, le dassero una forza oggettiva maggiore; sarebbe insufficiente quando le dassero una forza oggettiva minore.
§. 723. Tali cause che si dicono ititrinseche alla pena, devono dunque ammettersi per principio di giustizia, o di bisogno della tutela giuridica: e ne deve conoscere il magistrato, secondo le regole segnate dalla legge a priori.
§. 724. Or se questa varietà presunta di sensibilità può essere o in più o in meno, è chiaro che ne devono emanare cause che portano a diminuire la pena, e cause che portano ad aumentarla. Diminuzione od aumento che può farsi o col passare da specie a specie di pena; o col togliere o eoli aggiungere alla pena ordinaria dolori accessorii; o col diminuire od aumentare la durata della punizione, mantenendone la specie (1).

(1) Non perdasi mai di vista che il grado nella pena non risponde esattamente all'idea del grado nel delitto. Nella pena siamo nella teoria del grado anche quando si muta specie di pena. Nel delitto, tostochè avviene mutazione di titolo non siamo più nella teoria del grado, ma della quantità. Perciò dissi a suo luogo che nel delitto non vi sono circostanze aggravanti l'imputazione. Le circostanze aggravanti un fatto criminoso ne mutano la specie, ne aumentano la quantità. Laonde l'imputazione che si deve a quel fatto in tal guisa circostanziato, è l'imputazione ordinaria attribuita a quella specie considerata nelle sue condizioni materiali, senza veruna influenza delle circostanze individuali. Chiariscesi con esempi questa dottrina. Quando l'accusa sostiene che un furto è qualificato da domesticità, un omicidio da premeditazione, non eleva questione di grado o di aumento di imputazione oltre la misura ordinaria del fatto. Eleva questione di titolo: vuol che il fatto si riferisca ai famulati o agli omicidj premeditati, anzichè ai furti o omicidj semplici. Se ella ottiene, ha fatto mutar titolo (ossia specie) al fatto: e il fatto cosi trasportato in altra sede presenta una quantità maggiore; e incontra l'imputazione relativamente dovuta. Ma se poscia il difensore del reo deduce alla sua volta la minoretà, o l'ubriachezza ec.; ecco egli eleva una questione di grado. Il delitto non si modifica di qualità o di quantità: non si muta l'ente giuridico (che consiste in un rapporto di contradizione tra il falto e la legge) perchè non muta l'articolo che definisce il fatto. è sempre un famulato: e come famulato dovrebbe incontrare quella imputazione che risponde ad un delitto di cotesta qualità, e di cotesta quantità. L'accusato per altro era minore; ebro; era complice e non autore principale: ecco: l'imputazione ordinaria attribuita dalla legge a quel titolo di reato si degrada per ragioni individuali. Quando pertanto si parla di circostanze aggravanti il delitto, si parla di circostanze che modificando la qualità del delitto ne aumentano la quantità. Quando si dice che non si conosce grado in aumento, si suppone che il titolo stia inalterato; e ciò presupposto si nega a ragione potervi essere circostanze individuali che aumentino l'imputazione senza alterare il titolo del delitto. Ma se per ultimo venite a considerare che quell'accusato è gravemente infermo; e perciò alla galera che avrebbe, per esempio, incorso, sostituite il carcere; ecco, non solo non è, per questa circostanza, mutata la qualità o quantità del delitto; ma neppure si è degradato il delitto. Bensì si degrada la pena. Il criterio differenziale è pronunciatissimo; e non è di parole, poichè tiene ad un ordine differentissimo nelle idee radicali o principii che diligono la misura.
Alcuni criminalisti che hanno riunito nella teoria del grado del delitto le minoranti colle aggravanti, hanno confuso il grado con la quantità del delitto. Carmignani nelle prime edizioni dei suoi elementa era egli stesso qui caduto in equivoco. Bene lo corresse nelle ultime edizioni. La dottrina delle aggravanti il delitto spetta alla parte speciale, e solo alla materia della quantità del delitto se ne possono stabilire i criterii normali, come facemmo ai §§. 201 a 206.

Prima serie. Cause diminuenti.
§. 725. Appartengono a questa serie le circostanze che portano a presumere una eccezionale sensibilità fisica nel reo; per cui la forza fisica oggettiva della pena ordinaria si renderebbe di troppo più grave a lui che non agli altri.
§. 726. Così l'età senile, il sesso, la sopraggiunta pazzia, le infermità sono cause nelle pene afflittive di applicare una diversa pena ai vecchi, alle donne, agli infermi, benchè non siavi causa di minorarne l'imputazione. Ciò si fa pel fine che certi patimenti, i quali come pena ordinaria si sopportano senza danno dagli altri, non divengano a costoro cagione forse di morte; e per conseguenza esorbitanti e crudeli. La quantità del delitto, e l'imputazione rimangono immote: la proporzione della pena non diviene geometrica. Ma si ottiene la giustizia concreta senza alterare le regole di giustizia astratta.
§. 727. A questa serie di cause appella il carcere preventivo sofferto dal reo prima della sentenza: il quale quando ecceda una certa misura deve essere portato in diminuzione della penalità meritata; perchè il dolore di questa penalità si renderebbe più grave sopraggiungendo dopo i patimenti di una lunga prigionia. Tale è la formula conciliativa con cui si è risoluta la disputa fra coloro che tutta la carcere preventiva volevano si detraesse dalla pena; e coloro che niente volevano le si avesse riguardo: e questa soluzione ha la sua base nel responso di Modestino alla leg. 25 dig. de poenis - Dico risoluta dalla scienza nei suoi ultimi pronunciati: imperocchè fra le legislazioni contemporanee molte serbino tuttora l'antico rigore, come per esempio quella di Francia, e quelle foggiate sulla medesima (1).

(1) In Francia non si valuta neppure la carcerazione sofferta pendente un appetto, o un ricorso quantunque ammesso. L'art. 24 del codice d'istruzione inesorabile. Vedi Chauveau (theorie 1, 233). Bertauld (leçons de code penal, leçon XIII pag. 280). Sulla storia della custodia preventiva, e della libertà provvisoria in Francia vedasi Pastoret les lois penales. Sulla doverosità di scomputare il carcere sofferto anche pendenti i termini del ricorso in cassazione, e pendente il giudizio del ricorso, sebbene infelice, vedasi la dissertazione del senatore Puccioni nell'appendice al vol. 2, del suo dottissimo commentario sul Codice Penale.

In Francia non solo si ha la maggior latitudine nello arrestare i prevenuti anche di lievi delitti (del che non è qui il luogo a parlare), ma di più non vige provvedimento nessuno perchè nella condanna di un reo tengasi conto della carcerazione preventiva, per quanto oltre ogni misura di umanità siasi prolungata. Il dilemma su cui si sostenne questa rigida dottrina fu il seguente. O il reo si assolve, e non vi è modo di risarcirlo della carcere patita per un ingiusto sospetto. O si condanna, e deve imputare a sè stesso se subì anche questa conseguenza del proprio delitto. Ma la seconda parte di questo dilemma è vera soltanto nei casi in cui il processo siasi compiuto con la necessaria rapidità. E falsa quando o le assenze dei testimoni, o l'incuria del giudice, od altre accidentalità delle quali non ha colpa il giudicabile, l'abbiano prolungata. Così la teoria che distingue fra carcerazion necessaria, e carcerazione indebita, è la sola vera, e la sola giusta (1).

(1) M. De Rauschenberg (De l'independance civile, Paris 1862) impiega molla forza di argomentazione per dimostrare la doverosità di scomputare ai rei la carcere preventiva nella condanna. Ma questo, scrittore in mezzo a tutta la espansione umanitaria del suo cuore generoso, è rimasto trepidante ed esitante. Egli (§. 113) propone che sia facoltativo nei giudici di detrarre dalla pena che infliggono il tempo passato in carcere dal condannato prima della sentenza, in tutto o in parte. Poi quasi tema di aver troppo allargato la mano, si affretta a soggiungere, purchè mai la pena possa essere elisa nella totalità! Il che vuol dire che se il reo che soffrì sei mesi di carcerazione preventiva fu autore di un delitto che ineriti otto mesi di prigionia, il giudice può dctrargli tutta la sofferta. Ma se è un colpevole che risulti meritevole di un mese di carcere, non dovrà godere questo benefizio. Sembra impossibile che in mezzo a tanta magnanimità e filantropia di che si onora il popolo francese, le tradizioni delle ordinanze, e le dure massime di Jousse e Vouglans (che obliarono i precetti di Tiraquello) abbiano lasciato tracce cosi profonde, da far temere come benignità soverchia verso i malfattori l'obbedienza a quei debiti di umanità e di giustizia, che altre nazioni riconoscono da lungo tempo. Sembra impossibile come in Francia si conosca sì poco, che la Toscana già da ottanta anni scomputa dalla pena la carcere preventiva prolungata oltre il bisogno; e che la scomputa, non per arbitrio di giudici, ma per obbligo imposto loro dalla legge: e che la sottrae anche quando assorbisce tutta la pena da infliggersi; o col decretale che la carcere sofferta tenga luogo di pena (formula antica); o col decretare che la pena s'intenda espiata con la sofferta (formula moderna). Un dotto Magistrato francese (Bertrand De la detention preventive, Paris 4862) si è sforzato di persuadere che le leggi francesi sono più umane delle inglesi in questo argomento. Perchè non si istituisce invece il confronto con le leggi toscane? Io penso che ove ciò si facesse; e si esaminasse il modo con cui si esercita appo noi la custodia preventiva, e se ne mitigano i mali; e si avvertisse che una lunga esperienza ha dimostrato la convenienza del nostro metodo; non si ripeterebbe più con M. Bertrand - essere dimostrato che la legge non può determinare a priori i casi nei quali la custodia preventiva deve adoperarsi!
Queste ed altre note che ho creduto bene di aggiungere, non appariscano agli studenti o superflue o tediose. Esse hanno lo scopo di avvertirli a tenersi guardinghi ora contro certe sottigliezze, ora contro certi arbitrii, ora contro certe durezze: e a persuaderli che la più pura, e sana fra le dottrine criminali è quella della scuola genuina italiana.- Nè soltanto le leggi toscane hanno per massima l'abbuono del carcere indebito al condannato. Queste leggi fino dal 30 novembre 1786 sanzionarono il diritto all'indennità sullo stato a favore dello assoluto, in ragione del carcere sofferto. Vedasi l'art. 46 da me trascritto alla nota a §. 553. Queste idee che a taluno pajono nuove contano quasi un secolo di vita reale fra noi; e mentre ad altri piace farne elogio alla scuola germanica, in Germania si ricorda bene il loro fonte, e si rende il dovuto encomio alla legge toscana: come ha fatto il Van Leuwen nella dissertazione de damno reo absoluto illato publice resarciendo. Trajecti 1842.

§. 728. A questa serie si riferisce pure il concorso dì più pene; che nei congrui casi è pur esso Una diminuente; ed ecco in qual guisa. Affermammo (§. 167) che quando un uomo abbia commesso più violazioni di legge, le quali, nè si legano l'una all'altra come mezzo a fine (nel qual caso si unificano per aggravare l'imputazione aumentando la quantità del delitto); nè costituiscono un delitto continuato (lo che porterebbe ad una minorante dell'imputazione rispetto a quella che dovrebbesi ai due delitti, §. 520); deve l'autore di quelle violazioni tenersi come responsabile di altrettanti diversi delitti: lo che porta ch'ei debba incorrere tutte le singole pene prescritte a ciascuno di loro.
§. 729. Tale è la regola. Ma ciò condurrebbe a dover recare il dolore della seconda pena ad un reo già affranto dalla prima; i dolori per la loro aggregazione moltiplicano di intensità, sino al punto di rendersi intollerabili: e le più durate possono, nella breve vita dell'uomo, render perpetua la pena, che nel concetto della legge doveva essere temporaria. Queste osservazioni condussero a far riguardare quella regola coma contraria ai precetti di umanità.
§. 730. Pure i proseliti del rigorismo, facendosi base del frammento di Ulpiano (leg. 2 ff. De privatis delictis) insistettero su la regola del cumulo delle più pene; teoria che dovrebbe prevalere se il fondamento della pena fosse la sola giustizia, o il suo fine la espiazione. Ma al contrario gli umanitarii proclamarono l'opposta teoria dell'assorbimento, consistente nel prescrivere che la pena maggiore assorbisca la minore; e sola si applichi, come equivalente a tutte per la difesa sociale.
§. 731. In cotesto conflitto nacque una dottrina eclettica; che suggerì si distinguesse: ammettendo sino ad un certo punto la teoria del cumulo; ed oltre esso la teoria dell'assorbimento. Così la teoria del cumulo, nel suo senso assoluto, venne ad essere comunemente reietta. Per tal guisa nella concorrenza di più pene bisogna riconoscere una circostanza diminuente; che si svolge a benefizio dell'accusato quando la somma delle pene meritate eccederebbe, se tutte si irrogassero, una certa misura. Questo è un temperamento di espediente, accettabile in mancanza di meglio. Non può per altro sfuggire alle osservazioni del pratico il grave inconveniente di questo metodo; che tratta meglio i maggiori scellerati. Ma forse la scienza non ha ancora emesso l'ultimo suo pronunciato su questo argomento (1).

(1) La teoria dell'assorbimento è svolta con grande dottrina da Bertauld (l. c. leçon XIV) ed è sostenuta da Raffaelli nomotesia penale, 5, 50 - Ortolan (1153 et suiv.) disapprova entrambo i sistemi, con molta esattezza di ragionamento: e propone (§. 1157) una combinazione delle due teorie. Altra combinazione ha ideato il Cons. Bonneville nella monografia intitolata - du concours des crimes; che si inserì, tradotta dal sig. Augusto Bosellini, nel n. 85 della Temi.

§. 732. La povertà del delinquente può sotto un punto di vista referirsi a questa serie. Ma dico sotto un punto di vista; perchè questa causa è di un'indole anomala e proteiforme, secondo la diversa ragione per cui si valuta.
Infatti
- 1.° se l'estrema povertà si valuta come scusa in certi delitti contro la proprietà, per la pressione che la miseria esercitò sull'animo del delinquente; siamo alla teoria degli affetti; siamo nel grado del delitto: la forza morale di quel delitto speciale è in quell'individuo minorata per la miseria che limitò il suo arbitrio nella determinazione. In questo senso non si parla di grado nella pena. Si minora l'imputazione; e (solo come conseguenza) si ha il resultato della minorazione, non di una od altre specie di pena soltanto; ma di qualsiasi penalità.
- 2.° Se la povertà si guarda come causa che renda politicamente pericolosa l'irrogazione di una certa pena; ecco non più si parla di grado nel delitto, non più di minorata imputazione: siamo nel grado della pena. E siamo nelle cause estrinseche o politiche; perchè mutando la penalità, la legge non ha riguardo al reo, ma al bene generale. Così in proposito delle pene pecuniarie applicate ai ladri poveri, fu osservato che erano impolitiche; fu detto che se colui prima della pena rubava per bisogno, dopo la pena rubava per necessità. In questo senso si calcola la povertà nel codice austriaco, come causa che deve valutarsi nelle pene pecuniarie. Tanto è vero che la ragione della commutazione non è un riguardo al colpevole, che se gli commuta la pena in altra più grave. Evidentemente questa sfera di idee è tutta politica.
- 3.° Se infine la povertà del condannato si considera per un riguardo alla famiglia; ecco non siamo più nè nel grado del delitto, ne nelle cause politiche di modificare la pena: siamo nelle cause giuridiche: poichè la ragione della mitezza trovasi in un principio di giustizia; cioè in quello che la pena non divenga aberrante, e non ne soffra più l'innocente che il colpevole. Così nel codice austriaco si ordina ai giudici di mitigare certe pene afflittive nella loro durata, aggravandole nell'intensità, se l'accusato ha una famiglia povera da sostenere. Qui certamente non può dirsi che il delitto, p. e. di ferimento, sia degradato per cotesta cagione: neppure prevale una considerazione politica, o se vi entra la considerazione di non empire la città di miseràbili, questa è accessoria. La ragione principale e movente è l'ingiustizia a cui vuolsi ovviare che l'innocente soffra per il colpevole. è dunque una causa giuridica determinata a priori dalla legge, e della quale pei giudici non è facoltativa, ma obbligatoria la valutazione e l'applicazione.
Questi cenni bastino per mostrare che simili distinzioni (in loro esattissime) non sono sofisticherie della scuola: ma verità razionali, che svolgono poi nella pratica conseguenze importanti, se sono osservate; confusione, arbitrio, ingiustizia, se sono dimenticate.

Seconda serie. Cause di aumento.
§. 733. A questa serie non spettano quelle circostanze che aggravano il titolo del delitto; come p. e. lo scasso nel furto, l'arme vietata nelle lesioni ec. La dottrina del grado non avrebbe limite se così si intendesse. Coteste circostanze portano ad aumentare la quantità della pena per l'aumentata quantità del delitto. Esse aderiscono ai fatti generici, e ne determinano una modificazione di titolo e di quantità: le cause del grado nella pena devono essere aderenti alla persona del delinquente.
§. 734. Per trovare gli esempj di questa seconda serie, bisogna dunque supporre che il delitto rimanga nella sua quantità normale; e pure si debba aumentare la quantità della pena per ragioni intrinseche a questa. Cause estrinseche di aumento (già lo notai) non se ne possono ammettere; poichè non può esservi ragione di politica utilità che permetta di esacerbare contro un individuo la pena, oltre il grado che la legge, in faccia alla quale tutti gli uomini sono eguali, assegna al malefizio.
§. 735. Io non credo che possa referirsi a questa serie la forensità: poichè la pena del bando che suole aggiungersi alla pena ordinaria contro il delinquente straniero, non la considero come vera pena; ma piuttosto come difesa diretta; o come un rifiuto di ulteriore ospitalità a colui che si mostrò ingrato ed immeritevole della ospitalità ricevuta.
§. 736. Le cause di aumentare la pena si riducono pertanto alla recidiva. La circostanza cioè che si delinqua da uno che già era stato precedentemente condannato per altro delitto.
§. 737. Non può asserirsi che per la recidivanza si accresca la quantità del secondo delitto: essa non è niente affatto una ragion di aumento d'imputazione. Supporre ciò fu l'errore che cagionò tante gravi obiezioni contro la punizione della recidiva. Il reo (si disse) ha già saldato la prima partita; e sarebbe ingiusto porgliela a conto una seconda volta. E invano i moralisti declamano contro la maggiore perversità del recidivista: perchè il giure penale, giudice competente della malvagità dell'atto, non può guardare alla malvagità dell uomo, senza trascendere oltre i suoi confini. Ora queste censure, sostenute da valenti criminalisti (Carnot, Tissot ec), non avrebbero replica, se il rincaro di rigore contro i recidivisti si volesse ravvisare corrispondente ad un aumento di imputazione (1).

(1) Gesterling, uno dei più caldi oppositori della recidiva, fa questo dilemma. Al recidivo o voi volete tenere a calcolo il primo delitto, o la prima pena. Se il primo delitto; siete ingiusti, perchè già glielo avete imputato la prima volta. Se la prima pena; siete ingiusti, perchè questa è fatto vostro, non fatto suo. Ma chi trova la ragione di aggravio contro il recidivo, non nei calcoli dell'imputazione, ma nei calcoli della forza oggettiva della pena; che deve, per quanto si può, mantenersi in una proporzione reale con la forza oggettiva del delitto; si sbarazza presto da cotesto dilemma. Osservò inoltre molto bene il Nypels (de recidivis 4828 pag. 11) che in realtà chi ha già sofferto altra volta una pena, soffre la seconda volta un patimento meno intenso di quello che soffre il neofita delle carceri. Laonde irrogandogli la pena ordinaria, si affliggerebbe meno del primo delinquente.

§. 738. Sicchè l'unica ragione accettabile per accrescere la pena al recidivista, è nella insufficienza relativa della pena ordinaria: insufficienza dimostrata dallo stesso reo col suo proprio fatto; cioè con la prova positiva che emerge dal suo disprezzare la prima pena.
§. 739. Il legislatore prevede che ad un dato delitto possa essere pena bastevole una data quantità di male. E lo è di fatti per i più. Che se qualcuno delinque malgrado quella minaccia, si ritiene averlo fatto per non avere sperimentato la pena; e si calcola che l'esperienza del male che lo colpisca pel primo suo fallo, siagli lezione bastante per l'avvenire. E questo secondo calcolo riesce confermato dalla esperienza per il maggiore numero dei delinquenti, che non ricadono.
Ma quando, dopo avere esperimentato il patimento effettivo, un condannato torna a delinquere, ei dà chiaro segno di disprezzare quel male: mostra che per lui non è freno sufficiente quella somma di patimenti. Rinnovare contro di lui la medesima pena diviene in tal caso futile; perchè la presunzione di sufficienza relativa della forza oggettiva di quella penalità è contradetta dal fatto.
§. 740. Vi è presunta insufficienza relativa della forza fisica oggettiva della pena a cagione della insensibilità che costui mostra al male patito. Laonde a cagione di quella natura dell'individuo, eccezionalmente più insensibile, bisogna aumentare il castigo; se vuolsene ragionatamente sperare un utile effetto. Quando pertanto il colpevole, niente erudito dalla riportata condanna, torna ad insultare la maestà della legge, e ad attaccare la sicurezza dei cittadini, è egli stesso che dice essere stato troppo mite per lui quel primo patimento, che per la generalità dei caduti è pur sufficiente. Egli non può in conseguenza tacciare di ingiusta la società se ricorre contro di lui ad un castigo più gravo.
§. 741. Vi è insufficienza relativa delta forza morale oggettiva della pena; perchè quello spavento che il primo delitto avea cagionato; e che fu sopito con la punizione del delinquente; in certa guisa torna a risorgere quando questi dopo la pena torna a delinquere. La pena ordinaria non è più farmaco bastante a tranquillizzare i consociati; poiché la esperienza l'ha mostrata inetta a frenare quell'individuo (1). è questo l'ordine d'idee secondo il quale si giustifica il rincaro di pena contro i recidivi, malgrado il saldo della vecchia partita, e malgrado la permanenza della loro imputazione nello stato normale. E una modificazione nel calcolo della quantità relativa della pena: e nulla più. Tutt'altro modo di ragionare l'aggravante della recidiva, è arbitrario, e fallace.

(1) Da tutte queste dispute si sbarazzano i seguaci della scuola correzionalista: i quali trovando il fine della pena nella emenda dei colpevole, hanno sufficiente ragione di infierire contro il recidivo nella di lui provata incorigibilità.

§. 742. La recidiva dicesi vera quando il colpevole torna a delinquere dopo avere espiato la pena: dicesi finta quando esso torna a delinquere dopo la condanna, quantunque non abbia sofferto di fatto l'inflittagli punizione. Nel primo sistema la recidiva nasce dell'aver subito la pena: nel secondo dell'avere incontrato la condanna.
La recidiva si dice propria, quando il condannato ricada in un delitto dello stesso genere: dicesi impropria quando ricada in un delitto di genere diverso. La valutazione di questa distinzione presuppone che la recidiva si desuma più dal delitto, che dalla pena.
Nelle contingenze pratiche possono dunque verificarsi quattro diverse combinazioni
- 1.° recidiva vera e propria
- 2.° recidiva finta e impropria
- 3.° recidiva propria e finta
- 4.° recidiva vera ma impropria.
§. 743. Tale aumento di pena può poi variare immensamente nella sua pratica attuazione: e varia di fatto secondo le diverse scuole; e nelle legislazioni. Varianti che cadono o sulle condizioni, o sugli effetti, o sulla durata (1) della recidiva.

(1) Vedasi lo scritto da me pubblicato sotto il titolo di Cenni tutta recidiva.

Articolo II.
Modificazioni legislative
.
§. 744. Frequenti sono (specialmente nel movimento del nostro secolo) le mutazioni legislative: e spesso tali mutamenti cadono sulla materia penale.
§. 745. Questi mutamenti di legge derivano naturalmente dal progresso dell'umanità; non dal progresso del diritto. Perchè il diritto, come dicemmo (pag. 21 e §. 10) è assoluto e immutabile. E se l'umanità scopre un vero dopo quaranta secoli; non è già che soltanto oggi sia nato quel vero; non è la verità che progredisce. è l'umanità che progredendo nel suo viaggio perviene a raggiungerne la conoscenza. Ciò che è contro il diritto oggi, era contro il diritto anche un secolo addietro, quantunque la legge scritta in allora lo proclamasse, per cagione di un errore, conforme al diritto. è questa la ragione per cui oggi, a modo di esempio, non più si abbruciano i maghi, e gli stregoni; dei quali si fece così orrenda carnificina in passato. Oltre a ciò il mutamento può avvenire per altri lati. Perchè o le mutate condizioni politiche di una nazione hanno reso meno importanti certi reati: o perchè la sua cresciuta civiltà, purificandone il senso morale, ha fatto divenire sufficienti alla repressione certi minori castighi, che nella precedente rozzezza, o ferità di quella, non bastavano alla tutela giuridica. Così ne avviene identico resultato per diversa cagione. Ora si muta la penalità perchè si è riconosciuto che è sempre stata ingiusta: ora si modifica perchè le mutate condizioni l'hanno fatta divenire ingiusta. L'assoluto nel giure sta nei principii: non nei modi della loro applicazione, che debbono naturalmente variare.
§. 746. La progressività umana porta dunque di necessità a cotesti mutamenti anche nel giure penale. E per quanto in fatto possa accadere (e troppo spesso accada) che una legge nuova invece di progredire e raggiungere un vero, retroceda invece, e devii da un vero già conosciuto (come avvenne in Francia quando nel 1824 si vollero ristabilire le pene contro i peccati); pure cotesta aberrazione, se può deplorarsi dalla scienza e lamentarsi dal popolo, non può ammettersi dal magistrato, pel quale la legge vigente) suprema interprete del diritto, è incriticabile. In faccia al magistrato, che deve qualificare l'indole del fatto addebitato al giudicabile, la legge attuale è sempre conforme al vero diritto, e ne era difforme la legge abrogata.
§. 747. Ciò posto, è evidente che siffatta condizione di presunta giustizia della legge attuale rende interessantissima la indagine relativa agli effetti che le variazioni nelle leggi penali possono esercitare sui fatti consumati sotto la legge modificata.
§. 748. Certamente simile indagine non cade sui fatti compiuti: e tali si considerano rispetto alla penalità i delitti già giudicati irrevocabilmente dai tribunali. Se questi furono colpiti con la pena vigente al giorno della sentenza, la legge diversa, sopravvenuta anche prima della totale espiazione della pena, non può retroagire, nè rinnovarne l'esame giudiziale: e solo l'autorità governativa, quando la legge nuova sia più mite, potrà provvedere per via di grazia; la quale in cotesti casi può divenire talvolta un vero dovere.
§. 749. Ma l'indagine è interessante per quei delitti già consumati, che al venire della nuova legge o non erano ancor giudicati, o lo erano revocabilmente. Quando di quei fatti viene a conoscersi ex integro, o perchè non mai giudicati, o giudicati in modo revocabile per l'appello, o per la purgata contumacia del reo; dovrà loro applicarsi la legge che vigeva al dì del reato; o quella che vige al giorno della sentenza? Ecco una questione transitoria (1).

(1) Vedasi Roberti 2, pag. 33.

§. 750. In quanto il delitto si considera come fatto, esso è consumato inalterabilmente. Esso è tale quale nacque; e gli eventi posteriori non hanno potenza di cangiarne un atomo.
§. 751. Anche in quanto il delitto si considera come ente giuridico, costituito dal rapporto di contradizione tra il fatto e la legge (§. 35), potrìa dirsi che egli ebbe, eziandio sotto questo aspetto, il suo compimento nel giorno in cui nacque. Ma l'ente giuridico ha bisogno di continuar la sua vita fino al momento in cui opera il suo ultimo effetto. E se a cotesto momento quella vita si è modificata perchè il rapporto tra il fatto e la legge è cambiato, la vita dell'ente giuridico o cessata o modificata non si trova più in quelle condizioni che le occorrono per operare quel dato effetto: e più non deve produrlo.
§. 752. Bisogna dunque riconoscere che la nuova legge penale può esercitare una influenza anche sul delitto anteriore. Ma cotesta influenza non può determinarsi senza ricorrere a distinzioni importanti.
§. 753. Qui devesi innanzi tutto avvertire che se la nuova legge modifica i rapporti di competenza, ella è sempre retroattiva; perchè legge procedurale; e perchè l'apposto sistema genererebbe immense difficoltà nella pratica. Deve pure avvertirsi che se la legge nuova ha proceduto con l'abolizione di un modo di penalità; applicare l'antica pena incorsa al momento del delitto, è divenuto un impossibile. 0 sia dunque più grave, o più leggero il nuovo modo di punizione; ella è una necessità per il giudice applicar questo: salvo al legislatore di provvedere alla equità della proporzione con adatte disposizioni transitorie. In questi due casi la legge posteriore è, per una necessità materiale, sempre retroattiva.
§. 754. Ma quando il modo di penalità (p. e. la casa di forza, la galera) è conservato; e per conseguenza materialmente applicabile anche ai delitti anteriori; e la legge nuova ne varia o nella specie o nella quantità l'irrogazione relativa a certi delitti, dovrà egli ai delitti anteriori applicarsi la pena antica o la nuova?
§. 755. Il principio della non retroattività della legge non è assoluto in materia penale. E perciò la mutazione di legge, sebbene trascurata dai vecchi istitutisti, deve nella scienza figurare tra le cause giuridiche (o intrinseche alla pena) di modificare la misura di punizione che sarebbesi incorsa dal delinquente ove si fosse giudicato al momento del suo malefizio (1).

(1) Non impugno poter talvolta la legge nuova con la sua modificazione esprimere un giudizio sull'imputazione del delitto, anzichè un giudizio sulla penalità. Lo esame di questi casi avrebbe dovuto pertanto cadere in altro luogo; e precisamente là dove si parlò delle modificazioni, non delle pene, ma della imputazione. Ciò avrebbe portato a ripetere la teoria in due luoghi. E perciò ho preferito di ometterla alla materia della imputazione, e riservarla intera a questo luogo; si perchè la verità dei principii non ne soffre; si perchè il caso più ordinario è quello che la nuova legge modifichi soltanto la penalità; si perchè sempre la modificazione della penalità è la conseguenza sensibile della innovazione. Sarebbe una modificazione non di pena ma di quantità di delitto, quando la legge nuova, a modo di esempio, dicesse, che il famulato non si consideri più come furto qualificato; ecco: in questa ipotesi la penalità dei furti qualificati è inalterata: si è modificata la nozione di un delitto. Al contrario modifica soltanto la penalità la leggo nuova che dica, a modo d'esempio, i danni dati non si puniscano più col carcere, ma con la multa: ecco; in questa ipotesi non si altera la nozione del delitto, ma puramente la penalità. Ma nell'ordinale un corso teoretico se si ponesse mente a tutte queste possibili varietà, si cadrebbe in infinite ripetizioni. è necessità raggruppare i principii generali, che regolano certe questioni, in un dato luogo, sebbene in qualche caso speciale siffatta collocazione possa sembrare meno esatta. non può esistere contradizione tra ciò che si fa e una legge che ancora non è.

§. 756. Nessuno osa asserire che il principio della non retroattività debba tacere in odio del delinquente. Se la nuova legge dichiara delitto ciò che non lo era; o infligge ad un reato più gravi pene di quelle che comminava l'antecedente; il fatto che nacque sotto l'antica legge ha ormai quesito al delinquente il diritto di non vedere deteriorata la sua sorte per le nuove idee del legislatore. Il delitto è un ente giuridico costituito dal rapporto di contradizione tra un fatto e la legge.
§. 757. Ma nel caso rovescio il principio della non retroattività deve cedere in faccia a riguardi non solo di umanità o di politica (che in tal senso la causa non sarebbe giuridica), ma bensì a precetti di stretta giustizia.
§. 758. Cosa dice la nuova legge che modifica la penalità di un delitto? Essa proclama che a quel delitto era ingiusto lo irrogare quella pena, che l'antica legge incautamente gli comminava. Ora sotto l'impero di questa nuova legge il magistrato applicherebbe il rigore della legge abolita, adagiandosi sul pretesto che al giorno del delitto, per l'errore oggidì corretto dal legislatore, si credeva giusta l'antica pena. Sarebbe secundum jus scriptum, ma non secundum justitiam (1).

(1) Lo stesso ragionamento procede quando la nuova legge abbia reso arbitraria nel giudice una pena che prima era assolutamente determinata. Così il nuovo Codice di Baviera del 1801 si elogia generalmente perchè ha restituito all'arbitrio del giudice una larghezza maggiore nella determinazione delle pene: e si ripete che questo è un progresso perchè le idee del giorno, e lo stato attuale della scienza, esigono codesto arbitrio. Non è qui luogo a discutere se questo ritorno alle idee di un secolo addietro, e questo ravvicinamento alla proporzione armonica, sia veramente un progresso. Chiunque confronti ciò che oggi si scrive per mostrare che è un progresso accordare larghezza all'arbitrio del giudice; e ciò che si scriveva 60 anni addietro onde persuadere che era un progresso togliere ai giudicanti ogni arbitrio, comprenderà facilmente che l'una o l'altra volta si è abusato della parola progresso. Ma sia che vuoisi di ciò, certo egli è che quando la legge nuova accordi tale arbitrio, la medesima influisce sui delitti anteriori, sebbene roon parli tassativamente, purchè il giudice usi dell'arbitrio novellamente concesso a favore soltanto dell'accusato.

§. 759. Di qui la regola che la legge penale posteriore più mite si applica anche ai delitti anteriori non ancora definitivamente giudicati.
§. 760. Questa regola inconcussa si estende anche al caso di ripetute variazioni di legge. Se alla legge antica più severa fu sostituita una legge più mite; e poscia tornossi alla pristina severità; il delitto commesso sotto la prima legge deve, malgrado la terza, profittare della mitezza intermedia; perchè al pubblicare della seconda legge aveva il delinquente quesito il diritto alla di lei mitezza; nè il ritardo nel giudicarlo deve tornare a suo danno; nè questo diritto può essere a lui per la terza legge ritolto. Vedasi Raffaelli nomotesia penale vol. 5, pag 63.
§. 761. Tali sono i principii generali su questo argomento: essi in sostanza si ispirano alla regola della prevalenza della mitezza; la quale può dirsi assoluta. Questi principii per altro sono gravidi di difficoltà nella loro pratica applicazione.
§. 762. Finchè trattasi di mutazione di specie di pena, o di mutazione nel solo più o nel solo meno della quantità, siamo nel caso semplice, e la soluzione del quesito pratico è facilissima. Ma la difficoltà sorge nel caso complesso. Cioè quando la legge nuova presenta non una mutazione del solo maximum o del solo minimum della durata della pena; ma una mutazione di ambedue. Suppongasi che la legge del 1852 punisse un fatto col carcere da un mese a quattro anni: e la legge del 1853 lo punisca col carcere da uno a tre anni: o viceversa. Deve giudicarsi oggi un fatto avvenuto sotto la vecchia legge. Ammessa la regola astratta che debbasi applicare la più mite, resta a decidere qual è di quelle due la più mite.
§. 763. Alcuni (Chaveau, Morin, Haus §. 87, ec.) insegnarono che debba aversi come più mite la legge che abbassa il maximum. Ma se contemporaneamente eleva il minimum, non si viene egli alla conseguenza che un fatto, a cui per la sua levità, quando fu commesso, si sarebbe irrogato un mese di carcere, non possa più per la legge nuova (giudicata più mite per l'abbassamento del maximum) applicarsi meno di un anno?!
§. 764. Altri (Bertaud, Trebutien ec.) pensarono doversi dire sempre più mite la legge che abbassa il minimum. Ma se contemporaneamente eleva il maximum, non ne viene egli la conseguenza che a quel reato, a cui per la legge vegliante al giorno della sua consumazione non poteva irrogarsi più di tre anni di carcere, se ne infliggano quattro in virtù della legge posteriore, sotto lo specioso pretesto che la nuova legge è più mite?!
§. 765. Altri (Le Sellier) immaginò un calcolo di proporzione; e fece dipendere la soluzione del quesito dal vedere se è maggiore l'aumento del maximum, o l'abbassamento del minimum. Ma questa formula; sebbene forse matematicamente sia vera; giuridicamente è in sostanza arbitraria, e non ripara a nessuno inconveniente. E poi se per avventura le differenziali si eguagliano, non scioglie il problema.
§. 766. Altri opinò doversi lasciare al reo la scelta, e dargli facoltà di dichiarare quale delle due leggi egli considera come più mite. Sistema repugnante al principio che non ammette convenzioni in materia penale. Altri pensò di riunire le due leggi, e applicarle ambedue in ciò che avevano di più mite. Ma questo sistema fu censurato dalla Corte di Cassazione di Firenze: la quale riconobbe assurdo che un fatto unico si giudicasse contemporaneamente con due leggi.
§. 767. A me pare che la questione non possa risolversi con una proposizione assoluta: perchè quando nella comparazione di due leggi vi sono due lati difformi, nell'uno dei quali prevale il rigore, nell'altro la mitezza, è impossibile trovare l'assoluto in cosa che è in sè stessa variabile: e dare un'unica definizione ad una cosa che ha due modi di essere affatto difformi.
§. 768. Dovrebbe dunque, a mio credere, decidersi innanzi tutto la questione della quantità, e del grado d'imputazione del fatto. E con questa ricerca stabilire preliminarmente se al fatto criminoso del giudicabile nelle sue speciali condizioni risponde il grado massimo o il grado minimo della imputazione.
§. 769. Risoluto in ciaschedun caso questo primo problema con una formula speciale, si rende tutto facile allora il decidere se la mitezza maggiore stia nella legge che abbassa il maximum o nella legge che abbassa il minimum. Niente esige che si sciolga il problema con una proposizione assoluta dove l'assoluto è impossibile; niente repugna che la prevalente mitezza non si determini per una formula astratta e costante, destinata a colpire tutti i giudicabili; quando questa può riescire in un numero di casi fallace, e contradittoria al suo stesso principio. Niente repugna che la si determini invece per un calcolo concreto, che mai non inganna.
§. 770. Analoga è la questione transitoria che sorge circa la mutazione di legge sulla prescrizione. Se il delitto fu commesso sotto una legge che stabiliva la prescrizione, p. e., a 10 anni, e poscia (p. e., nell'anno successivo) la legge variata ha portato il termine a 5, o a 15 anni; i colpevoli che incoarono la prescrizione sotto la prima legge, ove siano arrestati nel primo caso dopo 6 anni, o nel secondo caso dopo 11, potranno essi invocare la prescrizione?
§. 771. La questione si complica in questo argomento per la natura proteiforme della prescrizione: la quale sotto un aspetto sembra legge di forma, e sotto un altro legge di sostanza.
§. 772. Se la prescrizione si considera come legge di forma o procedurale, la regola è che coteste leggi sono di natura loro retroattive. Se si considera come legge di sostanza vince la regola opposta. Quindi il conflitto dei sistemi.
§. 773. Alcuni la considerarono come legge di forma: e dissero doversi applicare sempre la legge nuova. Questo sistema trovò obiezione nel principio che le leggi sopravvenute non possono mai deteriorare la sorte del delinquente.
§. 774. Altri la considerarono come legge di sostanza; e dissero doversi applicare sempre la legge antica.
Questo sistema, benchè più logico; perchè il reo subisce sempre la posizione che si è fatta; trova pur esso ostacolo
- 1.° nelle considerazioni di ordine pubblico che dominano la prescrizione
- 2.° nell'assurdo che possa vedersi coperto da prescrizione un delitto commesso p. e. sei anni addietro; mentre si perseguita, perchè non prescritto, un reato uguale commesso nove anni addietro.
§. 775. Merlin, che troppo spesso portò nelle materie penali il criterio del civilista, immaginò un sistema di ratizzo istituito sopra una ragione composta del tempo richiesto dalla legge antica; del tempo richiesto dalla legge nuova; e del tem po decorso tra la consumazione del delitto e la pubblicazione della nuova legge. La differenza fra la risultante di cotesta proporzione e il termine nuovo, rappresenta il tempo che occorre al colpevole per compire la prescrizione (1). Ma questo sistema è, come ognun vede, arbitrario; e non applica nè la legge vecchia nè la legge nuova, ma una legge creata da Merlin. Pure anche quì l'autorità di tanto uomo fu soverchiale, e riuscì per un momento a fare adottare cotesto suo sistema dalla pratica dei tribunali francesi.
§. 776. Ma lo stesso Merlin dovette poscia ricredersi, e richiamare la stessa pratica dall'errore in cui l'aveva sospinta. Sicchè può dirsi ormai abbracciato generalmente, e nella teoria, e nella pratica, un quarto sistema sostenuto con più razionalità da valenti criminalisti. Sistema che proclama doversi delle due leggi applicare sempre quella che era pia favorevole all'accusato, o fosse tale la vecchia o fosse la più recente che immutò il termine della prescrizione, sia dell'azione, sia della pena.
§. 777. Cotesto sistema guarda la prescrizione come legge di sostanza: esso, quando la legge più favorevole è l'antica, è dominato dal principio inconcusso di giustizia, che la legge nuova non può deteriorare le sorti del reo: mentre, quando la più favorevole è la nuova, si appoggia al principio che la prescrizione in materia penale è di ordine pubblico.

(1) Sia p. e. 10 anni il tempo antico; sia 6 il tempo consumato; sia 20 il termine nuovo - 10:6::20:12 - occorrono al reo, non 14 come nel primo sistema, nè soli 4 come nel secondo; ma altri 8 anni per prescrivere. Sia invece 12 il termine antico; sia 4 il tempo consumato; sia 6 il termine nuovo - 12:4::6:2. - Il colpevole non prescrive con altri due anni come nel primo sistema; nè gliene occorrono altri otto come nel secondo sistema; ma gliene abbisognano altri quattro; differenza tra la risultante della proporzione e il termine nuovo.

§. 778. Sicchè tutta questa dottrina della influenza giuridica che la legge nuova può esercitare sulle pene applicabili ai fatti anteriori, si riassume in una sola formula, che offre la soluzione di tutti i problemi e di tutte le combinazioni possibili. In tale argomento prevale sempre ciò che più torna in favore dell'accusato. - Ecco l'ultima verità alla quale deve condursi cotesta teoria.