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più ricorrenti” (Danovi, Commentario del codice deontologico forense, Milano 2004, 19 ss.). La giurisprudenza del Consiglio Nazionale Forense ha poi avuto modo di osservare che “i canoni” contenuti nel codice deontologico “adempiono alla funzione di tipizzare, solo nella misura del possibile, comportamenti deontologicamente rilevanti desunti dall’esperienza di settore e dalla stessa giurisprudenza disciplinare e sono comunque esplicitazioni delle regole generali, inidonei quindi ad esaurire la tipologia delle condotte punibili” (C.N.F. 28.04.2004 n. 121; C.N.F. 10.11.2005 n. 132).
A fronte delle regole generali di comportamento, espresse dalle previsioni di cui agli artt. 12 e 38 del R.D.L. n. 1578/1933, il codice deontologico varato il 17 aprile 1997 veniva già a costituire quindi una forma di tipizzazione di regole di comportamento attraverso l’enunciazione di principi generali seguiti dalla indicazione di condotte che si ritenevano lesive di questi stessi principi generali.
Il “solo nella misura del possibile” espresso dalla richiamata giurisprudenza del C.N.F. trova oggi rispondenza “nel sintagma” ‘per quanto possibile’ adottato dall’art. 3 della legge n. 247/2012 e che “deve essere inteso nel senso che ‘di regola’ l’illecito è tipico o tipizzato – secondo l’interpretazione giurisprudenziale – ma può essere ricostruito anche sulla base della norma di chiusura, che è contenuta nella legge forense medesima (articolo 3,comma 2)” (cfr. Alpa, Un modello “misto” di regole deontologiche per comportamenti corretti degli avvocati, in Guida al Diritto, 31/2013, 25 ss.).
Anche nel nuovo contesto, quindi, voluto dalla legge n. 247/2012, che sposta l’asse della prescrizione deontologica in prossimità della sfera della sanzione penale cui il principio di legalità è connaturato, il temperamento voluto da quell’inciso “per quanto possibile” assolve alla funzione di poter preservare, pur curvandolo allo ius novum, un assetto di codice che, già sufficientemente tipizzato, grazie anche alla giurisprudenza su di esso formatasi in questi anni, non meritava di essere mandato inutilmente disperso.
In questo quadro soccorre anche l’orientamento delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (SS.UU.3.05.2005 n. 9097) che ritiene applicabili alla materia i principi validi in tema di norme penali incriminatrici “a forma libera” per le quali la predeterminazione e la certezza dell’incolpazione sono validamente affidate a concetti diffusi e generalmente compresi dalla collettività in cui il giudice opera (“In tema di giudizi disciplinari, le deliberazioni con le quali il Consiglio Nazionale Forense procede alla determinazione dei principi di deontologia professionale e delle ipotesi di violazione degli stessi costituiscono regolamenti adottati da un’autorità non statuale in forza di autonomo potere in materia che ripete la sua disciplina da leggi speciali, in conformità dell’art. 3, secondo comma, delle disposizioni sulla legge in generale, onde, trattandosi di legittima fonte secondaria di produzione giuridica, va esclusa qualsiasi lesione del principio di legalità, considerando altresì come tanto la tipologia delle pene disciplinari quanto l’entità delle stesse tra un minimo ed un massimo, ove graduabili, siano prestabilite dalla normativa statuale...Né incide sulla legittimità costituzionale delle norme con le quali l’Ordine individua i comportamenti suscettibili di sanzione la mancata, specifica
	
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