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il
che
non
può
essere
ritenuto
contrario
alla
Convenzione.
Il
Governo
sottolinea
anche
che
il
ricorrente
avrebbe
dovuto
sapere
che,
a
causa
della
sua
assenza
alle
udienze,
nessun
atto
processuale
gli
sarebbe
stato
comunicato
personalmente.
Del
resto,
egli
avrebbe
potuto
ragionevolmente
aspettarsi
che
il
suo
processo
si
concludesse
con
una
condanna.
Pertanto,
era
lui
a
doversi
tenere
informato
sullo
svolgimento
del
procedimento,
contattando
i
suoi
avvocati
d'ufficio.
Avendo
omesso
di
agire
in
tal
senso,
egli
ha
rinunciato
in
maniera
non
equivoca
al
proprio
diritto
di
comparire
e
di
difendersi
personalmente.
La
Corte
osserva
che
questo
motivo
è
legato
a
quello
sopra
esaminato
e
deve
pertanto
essere
dichiarato
ammissibile.
Alla
luce
della
conclusione
di
cui
al
paragrafo
52
supra,
essa
non
ritiene
necessario
esaminare
anche
la
questione
di
stabilire
se
vi
è
stata
violazione
dell'articolo
2
del
Protocollo
n.
7
(R.
R.
c.
Italia,
n.
42191/02,
§
64,
9
giugno
2005).
III
-‐
SULL'APPLICAZIONE
DELL'ARTICOLO
41
DELLA
CONVENZIONE
Ai
sensi
dell'articolo
41
della
Convenzione,
"
Se
la
Corte
dichiara
che
vi
è
stata
violazione
della
Convenzione
o
dei
suoi
Protocolli
e
se
il
diritto
interno
dell'Alta
Parte
contraente
non
permette
se
non
in
modo
imperfetto
di
rimuovere
le
conseguenze
di
tale
violazione,
la
Corte
accorda,
se
del
caso,
un'equa
soddisfazione
alla
parte
lesa.
Danno
Il
ricorrente
sostiene
che
nel
suo
caso
la
riapertura
del
procedimento
non
costituirebbe
la
misura
più
appropriata
per
porre
rimedio
alla
violazione
della
Convenzione.
Si
tratterebbe,
infatti,
di
un
rimedio
eccezionale
da
accordare
quando
ogni
altro
tipo
di
compensazione
sarebbe
insufficiente.
Inoltre,
il
sistema
giuridico
italiano
non
prevede,
allo
stato
attuale,
la
possibilità
di
disporre
la
revisione
di
un
processo
a
seguito
di
una
sentenza
della
Corte.
Nella
fattispecie,
il
Governo
dovrebbe
essere
invitato
a
cancellare
la
condanna
del
ricorrente
dal
suo
casellario
giudiziale
e
a
ordinare
la
sospensione
dell'esecuzione
della
pena
che
gli
è
stata
inflitta.
Il
ricorrente
chiede
anche
la
somma
di
474.000
euro
(EUR)
-‐
ai
quali
si
dovrebbe
aggiungere
una
somma
a
titolo
di
interessi
legali
e
di
svalutazione
della
moneta
-‐
per
il
danno
materiale.
Egli
osserva
che
a
seguito
dell'iscrizione
della
condanna
nel
suo
casellario
giudiziale,
la
SIAE
(Società
Italiana
Autori
ed
Editori),
che
gli
aveva
proposto
un
impiego
a
durata
indeterminata,
ha
ritirato
la
sua
offerta.
Se
nel
suo
processo
i
diritti
della
difesa
fossero
stati
rispettati,
e
se
egli
avesse
avuto
la
possibilità
di
interporre
appello
e
di
presentare
ricorso
per
cassazione,
il
procedimento
sarebbe
stato
probabilmente
ancora
pendente
all'epoca
della
proposta
della
SIAE,
o
si
sarebbe
concluso
con
un'assoluzione
nel
merito
o
con
l'estinzione
dei
reati
per
prescrizione.
Pertanto,
nessuna
condanna
definitiva
sarebbe
stata
iscritta
nel
casellario
giudiziale
del
ricorrente,
e
la
SIAE
non
avrebbe
rifiutato
di
assumerlo.
Se
avesse
lavorato
per
la
SIAE,
il
ricorrente
avrebbe
percepito
un
salari
di
circa
19.500
EUR
l'anno.
Dopo
quattordici
anni
di
servizio,
sarebbe
potuto
andare
in
pensione,
accumulando
in
tal
modo
dei
salari
per
un
totale
di
273.000
EUR.
A
ciò
si
dovrebbe
aggiungere
un
assegno
di
circa
12.000
EUR
l'anno,
che
egli
avrebbe
percepito
per
circa
quattordici
anni,
ossia
180.000
EUR.
Inoltre,
egli
avrebbe
diritto
ad
un
trattamento
di
fine
rapporto
di
circa
21.000
EUR.
Il
ricorrente
sostiene
di
aver
subito
anche
un
danno
morale,
dovuto
alle
ansie
legate
alle
sue
vicissitudini
giudiziarie,
che
egli
valuta
nella
misura
di
400.000
EUR.
Dopo
che
è
venuto
a
sapere
della
sua
condanna,
il
suo
stato
di
salute
si
è
deteriorato,
al
punto
che
egli
è
stato
dichiarato
invalido
totale
e
persona
con
handicap
grave.
Inoltre,
se
la
sua
condanna
fosse
eseguita,
anche
sotto
forma
di
affidamento
in
prova
al
servizio
sociale,
il
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