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André-Marie-Jean-Jacques Dupin: Cenni storici sul diritto romano da Romolo ai nostri tempi (1).
(1) Titolo originario: "Précis historique du droit romain depuis Romulus jusqu'à nos jours" (Parigi, 1809)
Indice sommario
Cap. I. Il diritto romano sotto i re
Cap. II. Il diritto romano sino alle leggi delle XII tavole
Cap. III. Il diritto romano dalle leggi delle XII tavole ad Augusto
Cap. IV. Il diritto romano da Augusto a Costantino
Cap. V. Il diritto romano da Costantino a Giustiniano
Cap. VI. La formazione del corpo del diritto
Cap. VII. La sorte della legislazione di Giustiniano
Cap. VIII. Il diritto romano nel XIX secolo
Capitolo I
Il diritto romano sotto i re
Sorta, per così dire, per alluvione e composta in origine da un'orda di masnadieri, che ne facevano un asilo anzichè una città, in principio Roma non ebbe alcuna legge scritta.
I soli usi (1) regolavano gli affari; in difetto di essi si ricorreva al re la cui volontà era, in qualche modo, una legge viva ed animata (viva ac spirans lex).
Questa volontà si rendeva manifesta con gli editti.
Ma, sia che a causa di ciò questa forma di governo degenerasse in dispotismo, sia che fosse naturalmente insoddisfacente per quel popolo sempre avido di una libertà di cui non sapeva godere, quest'ultimo richiese le leggi.
Da quel momento i re cominciarono a consultare il popolo e costituiva la legge il risultato della volontà generale cui essi stessi erano obbligati a sottomettersi,
come Tacito osserva a proposito di Servio Tullio, qui praecipuus sanctor legum fuit, queis etiam reges obtemperarent (Annal., lib. 3, cap. 26).
Per primo Tarquinio il superbo osò sfidare questa costituzione; stese sulle leggi le sue sacrileghe mani, avvezze a violare ogni cosa:
ma se egli fu il primo tiranno dei romani, fu anche l'ultimo loro re, e così, riconquistando la sua libertà, il popolo dettò esso stesso le proprie leggi.
(1) Uso, il legislatore più ordinario delle nazioni, Beccaria, § 42.
Capitolo II
Il diritto romano sino alle leggi delle XII tavole
Espulsi i Tarquinii, la suprema potestà fu trasferita a due consoli (ne potestas vel mora vel solitudine corrumperetur, Tit. Liv., IV, 2), i quali del resto avevano la stessa autorità dei re, da cui non differivano
se non vocabulo, numero ac diuturnitate dignitatis.
Sotto questo nuovo governo, tuttavia, le leggi regie conservarono vigore, e Caio Papirio le riunì in un solo corpus cui dette il nome dell'autore, Jus papyrianum (L. 2, § 2, D. de orig. juris.).
Cionondimeno molte di queste leggi, ancorchè non abrogate formalmente, non avevano più alcuna applicazione, poichè non erano più conformi alla nuova forma di governo.
Divenne così necessario che i consoli, ad imitazione dei re, decidessero con cognizione di causa tutti gli aspetti non previsti dalle leggi (Dion. d'Alicar., lib. X, cap. 1).
Bruto aveva fatto giurare al popolo di conservare eternamente le sue libertà; ed era massima fondamentale della repubblica considerare la libertà come una cosa inseparabile dal nome romano.
Un popolo nutrito di questo spirito di indipendenza, e, per meglio dire, un popolo che si credeva nato per comandare gli altri popoli, e che per questa ragione Virgilio chiama nobilmente "popolo re", non voleva ricevere leggi che da se medesimo.
Perciò, sotto il governo dei consoli, proprio come avvenne sotto l'imperio dei re, i cittadini di Roma rivendicarono il potere legislativo;
e, dopo aver ottenuto i tribuni, i plebei, che si contrapponevano al senato, dettarono sotto la presidenza di quei magistrati le ordinanze chiamate plebiscita, diverse dalle leggi propriamente dette populiscita.
In quell'epoca nulla fu più frequente che vedere i plebisciti in contrasto con gli editti consolari. Ciascuno si arrogava il potere legislativo: i consoli se lo attribuivano, i tribuni lo reclamavano per il popolo,
ed uno di essi riuscì a far decidere che per l'avvenire i consoli avrebbero osservato la legge che il popolo si fosse data: quod populus in se jus dederit, eo consulem usurum (Tit. Liv. III, 9).
Onde porre fine ad un simile deplorevole conflitto, fu infine stabilito, nell'anno 300 di Roma, di inviare in Grecia una deputazione per raccoglierne le leggi ed adattarle ai costumi dei romani.
Al ritorno della deputazione furono creati i decemviri, presieduti da Appio Claudio, che furono incaricati di ordinare le leggi raccolte dai deputati.
I decemviri, aiutati da Ermodoro, illustre esule di Efeso, si dedicarono a questo lavoro con tanta assiduità che già nell'anno 303 di Roma sottoposero all'approvazione del popolo le loro leggi incise sopra dieci tavole di bronzo cui poco dopo ne aggiunsero altre due.
Ebbero così luce le leggi delle XII tavole, chiamate da Tito Livio fons universi publici privatisque juris, e che Cicerone eleva al di sopra della letteratura di tutti i filosofi (omnibus omnium philosophorum bibliothecis anteponendum opus).
Era il sunto ammirevole di quanto di più saggio avevano gli usi antichi, e di quanto di più adatto ai loro costumi era stato affidato loro dai greci: Tum ex Graecorum jure, tum ex patriis consuetudinibus (Dion. d'Alicar. X, 66).
Queste leggi furono ricevute con entusiasmo dai romani. Tutti coloro che attendevano allo studio della giurisprudenza dovevano apprenderne il testo, tamquam carmen necessarium (Cic., De legib., II, 23).
I più valenti giureconsulti si dedicarono ad interpretarle, e San Cipriano (2, epist. 2) attesta che ancora nella sua epoca si conservavano intatte. Tutto ciò non ne ha impedito la distruzione durante le invasioni barbariche;
ed oggi non ne restano che pochi frammenti sparsi nel Digesto ed in qualche libro antico, compilati dal Gotofredo con grande erudizione ed arricchiti da dotti commenti.
Vari autori consigliano di cominciare dallo studio di queste leggi, che indicano il principio e l'origine di molte istituzioni; ma altri, alla cui sensibilità ci affidiamo, avvisano invece che questo studio è utile solo a coloro che vogliano meditare profondamente sulla scienza, e che debba dirsi al volgo:
Procul, o procul este, profani! (1)
(1) "Lontani, state lontani, o profani!" (Virgilio, Eneide, VI, 258).
Capitolo III
Il diritto romano dalle leggi delle XII tavole ad Augusto
Finalmente i romani erano in possesso di quel codice che tanto avevano voluto; ma ormai si era rotto ogni argine: la lotta tra il popolo e il senato si rinnovava di continuo ed era impossibile che le leggi non risentissero del disordine della città.
Quanto più i legislatori di dedicavano ad emanare leggi, tanto meno queste erano applicate: così esse si moltiplicarono smodatamente e perciò potè dirsi: corruptissima republica, plurimae leges (Tacito, Annal. III, 27).
I magistrati plebei più volte mirarono a spogliare i patrizi non solo della loro dignità ma anche dei loro beni; per parte loro, questi ultimi sostennero che i plebisciti non erano per loro vincolanti.
Da ciò trassero origine quelle furiose gelosie tra il senato e il popolo, tra i patrizi e i plebei, gli uni allegando sempre che alla fine la libertà eccessiva cade da se medesima, gli altri temendo all'opposto che alla fine l'autorità, che per sua natura progredisce sempre, degenerasse in tirannia.
Quindi ebbe luogo la ritirata dei plebei sull'Aventino e sul Gianicolo, e quella transazione politica che sottopose i patrizi all'autorità dei plebisciti: ut plebiscita omnes Quites tenerent (Aulo Gellio, Noct. Att., lib. 5, c. 27).
Dal quel momento i plebisciti ebbero forza di legge e ne assunsero anche il nome.
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Nondimeno il senato aveva ancora in suo potere i mezzi per dominare il popolo.
Appena furono promulgate le leggi delle XII tavole, i patrizi elaborarono alcune formule senza cui non si poteva promuovere regolarmente alcuna azione (L. 2, § 6, D. de orig. juris.).
Ad esse aggiunsero la distinzione dei giorni fasti, in cui si poteva agire, e dei giorni nefasti, in cui non lo si poteva; e da questo complesso di sottigliezze e superstizioni essi composero quelle che chiamavano legis actiones.
In tal modo concentrarono nelle loro mani tutta la cognizione degli affari contenziosi,
e sotto la maschera del diritto di patronato, che si arrogavano quale attributo della loro condizione, acquistarono immensa autorità. Si comprende così quanto fossero interessati a celare al popolo gli aspetti di questi nuovi vincoli.
Tuttavia, nell'anno 449 di Roma questa preminenza fu loro sottratta da Gneo Flavio che carpì le formule suindicate ad Appio Claudio Cieco di cui era segretario e che le riunì in un solo codice rendendole quindi note al popolo, da cui ottenne in premio la nomina ad edile.
Questa raccolta di formule fu chiamata Jus flavianum.
Vanamente i patrizi si sforzarono di riconquistare la loro autorità, creando nuove formule: ancora una volta i loro segreti furono scoperti e divulgati grazie a S. Elio Catone, la cui compilazione assunse il nome di Jus aelianum.
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Restavano loro tuttavia due armi potenti: l'interpretatio e la disputatio fori.
Infatti le leggi delle XII tavole erano state scritte con molta concisione, eleganti atque absoluta brevitate verborum (Gellio, lib. 20, cap. 1). Esse esprimevano molto in pochi detti, ma non dicevano tutto.
Ora i patrizi, grazie all'interpretazione date da loro stessi, ne traevano per induzione nuove decisioni, che non sempre risultavano dal testo:
cosicchè accadde che non fossero chiamati semplicemente interpretes ma anche auctores e conditores juris (Cuiac., Obs. VII, 25).
Talvolta accadeva che i giureconsulti non fossero d'accordo su queste interpretazioni: allora si riunivano nel Foro o vicino al tempio di Apollo per dibattere le questioni tra loro controverse, e il risultato di queste conferenze formava una decisione che era chiamata recepta sententia.
Ed è appunto alle questioni così risolte che le leggi fanno cenno quando dicono post magnas varietates obtinuerat (L. ult., D. de leg. L 32, D. de obligat.) ex disputatione fori venit (Ascan. Paedian. in verrin. 3) jus consensu receptum (pr. Inst. de acq. per adrog.) jus commentitium (L. 20, D. de poenis, juncto Bynkersh, Obs. V, 16).
I patrizi, che, come si è detto, erano i soli ad esercitare la professione di giureconsulto, evitavano di iniziare i plebei ai misteri della loro arte: in latenti jus civile retinere cogitabant; solumque consultatoribus potiusquam discere volentibus se praestabant.
Ma Tiberio Carucanio, che non condivideva questo orientamento, professò pubblicamente questa scienza fino ad allora misteriosa e, grazie a lui, la giurisprudenza non fu più patrimonio esclusivo dei patrizi e ognuno potè diventare giureconsulto, e quindi fu vero il detto:
Tamen ima plebe quiritem facundum invenies; solet hic defendere causas nobilis indocti: veniet de plebe togata, qui juris nodos ed legum aenigmata solvat (Juv. VIII, 47).
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I consoli, sull'esempio dei re, decidevano tutti i casi non previsti dalle leggi. Quando i consoli, totalmente occupati dalle guerre, furono obbligati ad abbandonare la cura degli affari civili a diversi magistrati creati per supplirne l'opera, costoro, e specialmente i pretori, emanarono tanti editti quanti erano i rami amministrativi loro affidati.
La ragione era sempre la stessa. Tutto deve venir meno di fronte alla legge, senza dubbio, ma quando questa nulla disponga i magistrati debbono supplire al suo silenzio, e decidere con editti speciali le questioni peculiari che il legislatore non ha potuto comprendere nella regola generale da lui stabilita:
Oportet leges dominas esse, si sint recte scriptae; magistratus autem edicere debet de illis de quibus leges exquisite aliquid decernere nequeant, eo, quod non facile sit sermone generali singulos casus comprehendere (Arist. Polit., III, 11).
Gli editti dei pretori erano di varie specie. Alcuni, detti repentina, erano emanati nei casi sorti sul momento e all'improvviso; altri erano pubblicati ad perpetuam jurisdictionem, e si estendevano a tutto il tempo in cui doveva durare la magistratura (1). Tra questi ultimi erano chiamati tralatitia quelli fra gli editti del suo predecessore che il nuovo pretore conservava,
e nova gli altri che il medesimo aggiungeva de suo all'antico editto. Infatti, nel prendere possesso della carica, ogni pretore ascendeva alla tribuna e dichiarava (edicebat) quali erano le regole che avrebbe osservato rendendo giustizia. Questo editto era poi scritto in albo.
Normalmente l'unico scopo di tali editti era quello di integrare il testo delle leggi, di supplirvi o di rettificarle: fiebant adjuvandi, vel supplendi, vel corrigendi juris civilis gratia (L. 7, § 1, D. de justit. et jure).
Del resto era vietato ai pretori modificare direttamente la legge; tuttavia, continuamente la violavano almeno indirettamente, con mezzi diversi e con le loro finzioni; non solo alteravano le leggi dello stato ma nel corso dell'anno anche il loro stesso editto, e tanto più facilmente operavano in questo senso quanto più occorreva loro un mezzo sicuro per favorire gli amici:
hoc faciebant plerumque in gratiam odiumque certorum hominum (Dio. Cass., lib. 36). Onde porre fine a simili abusi si dovette invocare contro di loro quel celebre editto fatto da loro stessi: quod quisque juris in alterum statuerit, ut ipse eodem jure utatur (L. I, D. h.t.).
Ma siccome una siffatta barriera sembrava troppo debole, così nell'anno 585 fu pubblicato un senatoconsulto che l'anno dopo fu convertito in legge affinchè i pretori rendessero giustizia nel corso della loro magistratura a tenore degli editti da essi promulgati all'inizio delle loro funzioni:
ut praetores ex edictis suis perpetuis (id est, per totum annum mensuris) jus dicerent;
ovvero, come dice Dione Cassio (lib. 36), ut et statim Praetores edicerent quo iure essent usuri, et deinde nequamquam ad eo deflecterent.
Quindi il diritto pretorio, jus honorarium, divenne più stabile, e non ricevette alcuna modifica senza necessità; e gli editti degli antichi pretori, quasi sempre conservati dai loro successori, compilati e commentati dai più abili giureconsulti, formarono nel corso degli anni un corpo di decisioni tanto autorevole che all'epoca di Cicerone si era del parere che
la scienza del diritto dovesse essere attinta nell'editto del pretore e non già nelle XII tavole: a Praetoris edictio, non a XII Tabulis, hauriendam juris disciplinam (De Legib., lib. I, cap. 5).
In quei tempi, dunque, il diritto romano scritto comprendeva plebiscita, legis actiones, jus civile ex interpretatione prudentum et fori disputatione ortum e edicta magistratum.
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Lo studio di queste leggi produsse una quantità di illustri giureconsulti e, reciprocamente, le elaborazioni di costoro arricchirono le prime: poichè la scienza del diritto era allora coltivata comunemente,
e, per darne un'idea, prima di giungere al secolo di Augusto, indicheremo in poche parole con quali studi i romani si preparavano a quello della giurisprudenza.
Dopo le guerre puniche, allorchè in Roma cominciarono ad apprezzarsi le lettere e le belle arti, i giovani consacravano i loro primi anni allo studio della lingua greca, dei grammatici, dei retori, eccetera. Giunti all'età di indossare la toga virile, si preparavano alle dispute di tribunale, comparendo a fianco di qualche celebre personaggio.
Talvolta cominciavano anche a viaggiare recandosi ad Atene, Rodi, Mitilene, Marsiglia, onde perfezionarsi lontano dai vizi e dalla corruzione di Roma; ovvero entravano a far parte del partito delle armi, senza che però le esercitazioni militari impedissero loro di dedicarsi alle lettere e alle scienze (Vell. Pat. I, 13; Suet. in Caesar, 56, in Aug. 84).
Coloro che si consacravano allo studio della giurisprudenza si applicavano soprattutto nello studio approfondito dei principi della filosofia, di regola prediligendo quella degli stoici. Così preparati, seguivano qualche dotto giureconsulto che prendevano a modello: sotto la sua direzione imparavano a fare consulenze e discussioni giuridiche, osservando il modo in cui costui esercitava la professione legale; e,
quando dopo qualche tempo, si credevano abbastanza forti per far uso delle proprie armi, cum studiorum habebant fiduciam, essi potevano praticare da soli: è utile osservare che a quei tempi non occorreva alcuna autorizzazione per assumere il titolo di giureconsulto.
(1) Cioè un anno; per questo motivo Cicerone nella sua seconda Verrina, n. 42, chiama l'editto del pretore lex annua cui finem adferant kalendae januariae.
Capitolo IV
Il diritto romano da Augusto a Costantino
La repubblica romana degenerò in monarchia non già sotto la dittatura di Cesare, che durò poco, nè subito dopo la sua morte; ma soltanto nell'anno 722 di Roma, all'epoca del quarto consolato di Ottavio e Marco Licinio Crasso.
A quell'epoca Bruto e Cassio erano ormai stati disfatti; la repubblica non aveva più armate; il partito di Pompeo il giovane era stato distrutto in Sicilia; Lepido giaceva gravemente ferito; Antonio non esisteva più, e lo stesso partito di Cesare non conosceva altro capo che Ottavio.
Costui depose il titolo di triumviro, assumendo quello di console e accontentandosi di abbinarvi la potestà tribunizia che fingeva di conservare al solo fine di difendere la plebe. Quando rese a lui devoti i legionari con le elargizioni, rammollì Roma grazie all'abbondanza che vi fece regnare, addomesticò tutti gli ordini della repubblica grazie alle dolcezze dell'ozio,
e a poco a poco si elevò su tutti attribuendosi le funzioni del senato, la giurisdizione dei magistrati, il potere del legislatore, senza trovare alcun ostacolo: nullo adversante (1).
Questo nuovo ordine di cose, introducendo nuovi costumi, richiedeva altri statuti, perchè occorreva far sì che tutte le leggi dell'antico ordine fossero confacenti al nuovo. Quindi Augusto, il più politico fra tutti i monarchi, pose tutte le sue cure per adattare il diritto romano all'attuale costituzione e dare ai romani una legislazione vincolante.
In questo non fece che seguire il progetto di Cesare, il quale, secondo quanto narra Svetonio, volle anche dare nuova veste al diritto civile, e riunire in pochi libri tutto ciò che le leggi anteriori avevano di migliore e di necessario (2).
Una morte prematura gli aveva impedito di mandare ad effetto un simile disegno; invece Augusto ne fece la sua opera, dopo che le sue usurpazioni ripetute e la forza delle circostanze ebbero reso necessario il governo di uno solo: quando per partes evenerat, ut necesse esset Reipublicae per unum consuli (L. 2, § II, D. de orig. jur.).
Tuttavia, poichè Cesare si era mal posto nel tentativo di conquistare troppo repentinamente il potere supremo e poichè la sua fine terribile faceva ben capire al suo successore quanto fosse disagevole conservare a discapito di una città libera un potere usurpato con la forza delle armi,
Augusto, più astuto, usò prudenza servendosi del comando con tanta sagacia che il popolo, illuso da chimere che gli facevano credere alla sua antica libertà, non si avvide di averla perduta (3).
Infatti, per meglio nascondere i propri disegni, Augusto permise al senato di esercitare la sua tradizionale autorità; non cambiò i titoli dei magistrati e conservò loro i segni distintivi: i consoli erano preceduti dai littori come sotto la repubblica, e più di una volta egli si fregiò di questo titolo glorioso.
A Roma si continuavano a vedere i pretori, gli edili, i tribuni della plebe, i questori, e il popolo credeva ancora alla repubblica!
Intanto il nuovo monarca aveva saputo riunire nelle proprie mani i poteri annessi alle cariche più influenti, e quantunque i nomi fossero ancora i medesimi (eadem magistratuum vocabula), tuttavia era completamente distrutto l'antico spirito nazionale: nihil usquam prisci atque integri moris supererat (Tacito, Annal. lib. I, cap. 3 e 4).
I cittadini non si avvidero del rovesciamento della repubblica in quanto inizialmente Augusto ebbe cura di non ordinare nulla da solo ma di consultare il popolo quando si trattava di legiferare: veritus, ne si subito homines in alium deducere statum cuperet, res ea sibi parum esset successura (Dio. Cass., lib. 53).
La politica consigliava tali misure ad Augusto ma il senato ebbe cura di rimuovere ogni ostacolo, e così, progredendo a grandi passi verso quella schiavitù che Tiberio doveva rendere ben più gravosa, il popolo fu sottoposto facilmente al giogo del principe che finì di assoggettarlo compiutamente corrompendolo con la distribuzione di viveri e denaro e con i giochi del circo:
... panem et circenses.
In quell'epoca, soddifacendo tutta la sua ambizione, dette ai romani quelle leggi che assicuravano loro pace e schiavitù: jura quibus pace et principe uterentur.
Nella stessa epoca, il popolo gli trasferì tutto il suo petere: ei et in eum omne suum imperium potestatemque contulit ec. (L. 2, § 11, D. de orig. juris); ed il senato, sempre pronto a prevenire i desideri di Cesare, lo elevò al di sopra delle leggi coll'arbitrario potere di fare ciò che voleva:
in ejus acta juravit eumque solvit legibus (4), et decrevit, ut summo cum jure, omninoque et sui et legum potens, quae vellet faceret, et eorum quae nollet faceret nihil (Dio. Cass., lib. 53).
Ecco quel che gli autori del Digesto chiamano legem regiam (L. I, pr. D. de const. princ.) Augustum privilegium (L. un., § 14, D. de cad. toll.) legem Augusti (L. 14, D. de manum) legem imperii (L. 3, C. de testam.).
E questa legge altro non è se non un riassunto dei diversi senatoconsulti fatti e rifatti in onore di Augusto e nel suo interesse.
Vedendo ormai stabile il suo potere (adulto jam imperio), Augusto procurò di fare a meno del suffragio del popolo e a tal fine usò un duplice stratagemma.
In primo luogo, essendosi avveduto che il popolo si era assoggettato all'autorità del senato, che durante la repubblica emetteva senatoconsulti, fece pubblicare da questo corpo diverse ordinanze su materie che non avevano mai fatto parte delle sue attribuzioni.
In secondo luogo, fece emanare dai suoi partigiani vari editti con cui ordinava quanto gli aggradava, così da introdurre un nuovo diritto su tutto ciò che volle.
Se si cerca di capire come Augusto giustificò agli occhi del popolo questo modo di fare editti, ricorderemo che questo diritto apparteneva ai magistrati sin dai tempi più remoti. Ora, Augusto, che riuniva in sè le prerogative di tutte le cariche, sembrava emanare editti semplicemente facendo uso del diritto che tali cariche gli conferivano.
Se quindi ne faceva uno per le province, assumeva la qualità di proconsole;
a Roma agiva sempre in forza della potestà tribunizia; sul campo di battaglia, tamquam imperator; ed in materia di religione, tamquam pontifex maximus.
In tal modo tutto appariva regolare.
Ben presto egli istituì altre dignità il cui fasto doveva far scemare quello delle antiche, e moltiplicando le creature del suo potere ne formò altrettanti sostegni interessati alla sua causa.
Il governo delle province meritava tutta l'attenzione di Augusto, e nel dividerla col senato lasciò al medesimo la cura di governare i paesi tranquilli e sforniti di truppe e si riservò l'amministrazione delle contrade in cui la necessità di combattere aveva concentrato le legioni.
Insomma usurpò ogni autorità tanto da poter governare senza difficoltà da solo o per mezzo dei suoi ministri.
Augusto, che ben sapeva tutto ciò che poteva temere dai giureconsulti, si avvide anche che avrebbe potuto trarne grande utilità. Così pose in essere ogni mezzo per asservirli e così sia screditare l'autorità dei pretori sia dare alla legislazione l'ordine che riteneva conveniente.
Con queste mire consentì di esercitare la professione - che precedentemente era permessa a chiunque - soltanto a coloro che considerava degno dell'onore di essere giureconsulti; e nel contempo impose ai magistrati di uniformarsi ai loro responsi (L. 2, § 47, D. de orig. jur.).
Fin da allora i giureconsulti cominciarono a sottoscrivere i loro responsi o consulti, ed a mettere i loro nomi alle loro opere, cosa che non accadeva in precedenza (Seneca, De benef. VII, 16. L. 2, § 47, D. de orig. jur.).
Così Augusto giunse a rendere soggetti tutti i giureconsulti contemporanei, salvo il primo di essi, il dotto Labeone, che gli elogi del più severo degli storici hanno vendicato sufficientemente dei sarcasmi del più arrendevole dei poeti cortigiani. Questa indifferenza di Labeone per gli onori offertigli da Augusto, dette origine a due correnti di giureconsulti, i cui principi divergevano in molti punti.
Ateio Capitone, capo di una di esse, professava scrupolosamente quanto gli si era insegnato. Labeone, all'opposto, nullius assuetus jurare in verba magistri, libero per indole, pieno di fiducia nella sua dottrina, dallo spirito ricco di molte nobili nozioni, espose numerose opinioni innovative (L. 2, § 47, D. de orig. jur.).
Questo era lo stato della giurisprudenza sotto l'impero di Augusto.
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Tiberio, suo successore, il despota più diffidente, usò tutti gli artifici del suo predecessore e, reso accorto dalle invenzioni e dall'esperienza di Augusto, le rafforzò con tutti i nuovi mezzi che gli suggerì il suo ingegno.
In primo luogo si occupò di politica e arte, e, sino a che dovette temere Germanico e fu incerto del proprio potere (ambiguus imperandi), non fece alcuna legge, neanche un editto, senza consultare il senato o senza coprirsi col velo della potestà tribunizia.
Ma non appena si lordò le mani col sangue di quel giovane principe, che molto temeva a motivo delle sue virtù, delle sue rare qualità e dell'amore dei romani, allora si tolse la maschera e, soltanto preoccupandosi di rafforzarsi, punì severamente anche i discorsi più frivoli tenuti contro i suoi.
Il suo motto era: Oderint dum metuant (5).
Vero è che Tiberio tollerò che il popolo si riunisse in centurie o tribù sull'esempio di Augusto; ben presto, però, con il pretesto che il numero dei cittadini rendesse difficile la loro convocazione, trasferì al senato tutti i diritti dei comizi.
Da quel momento potè essere despota impunemente, perchè il senato gli si mostrava tanto vilmente devoto che ogni senatore temeva di contrariarne i voleri: a quell'epoca i suffragi non erano più espressi segretamente come invece accadeva nelle antiche assemblee del Campo Marzio o del Foro, ma ciascuno doveva pronunciare il suo voto ad alta voce alla presenza di Cesare, quale Giove dei suoi schiavi, cuncta supercilio movebat.
Il potere legislativo non risiedeva più nel popolo se non illusoriamente, poichè solitamente "quando gli imperatori volevano far ammettere una costituzione su una qualche materia, la facevano presentare al senato per suos quaestores candidatos, ed il senato, che era loro asservito, non mancava di emanare un senatoconsulto conforme" (6) (Pothier, Proprietà, n. 406, in nota).
Pertanto, per l'imperatore il senato era uno scudo con cui proteggersi nei momenti difficili, contro le trame dell'odio popolare; e gli stessi senatori (7), anzichè essere difensori e il sostegno della costituzione romana, non erano che traditori del popolo e vili adulatori di un tiranno sospettoso, che sembrava tollerare che indossassero la porpora solo per farne risaltare maggiormente il pallore dei volti.
Nulla deve la giurisprudenza al successore di Tiberio. Quel mostro che non aveva di umano che le fattezze arrivò alla stravaganza di far nominare console il proprio cavallo.
Pertanto non deve meravigliare se costui abbia meditato di distruggere l'ordine dei giureconsulti e di sostituire l'arbitrio alla legge (8).
Per pura avventura la sua tirannia fu di breve durata e non ebbe tempo di portare ad esecuzione questo odioso disegno.
Claudio (9), che gli successe, abolì tutto ciò che costui aveva potuto fare e per questo motivo non esiste nulla nel corpus del diritto che debba ascriversi a Caligola.
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Sotto Adriano la giurisprudenza si perfezionò. Emulo di Numa volle consegnare delle leggi al suo popolo e a tal fine ordinò la composizione dell'Editto perpetuo.
Quest'opera importante fu affidata alle cure del giureconsulto Salvio Giuliano, all'epoca pretore: avrebbe dovuto consistere nell'accorpamento di tutti gli editti annuali degli antichi pretori ma Giuliano non si limitò a compilarli e, quando lo reputò necessario, vi inserì nuove decisioni, ne escluse quelle abrogate dall'uso, o le adottò con qualche modificazione.
Fu tale l'autorità di questo editto che, dopo la sua promulgazione, costituì regola fissa ed invariabile del diritto, consentendogli di acquisire la denominazione di editto perpetuo (Aul. Gell. X, 15). Nelle province prendeva il nome di provinciale e solo a Roma di praetorium, urbanum, urbicum.
Dopo la sua pubblicazione non solo i magistrati si astennero dall'introdurre un diritto nuovo ma gli stessi imperatori si compiacquero di proclamare che a nessuno era permesso di derogarvi (L. 13, C. de testam.), che era assurdo discostarsi dalle sue disposizioni (L. 2, C. de condit. insert.), che era inutile reclamare contro di esso (L. 2, C. de success. edict.), che era tenerario chiedere di essere esentato dalle pene comminate da questo editto (L. 1, C. de in jus vocando), che nulla si poteva sperare dal principe quando gli si chiedessero cose contrarie al diritto (L. 1, C. Hermog. de calum.), da ultimo Paolo fa sapere che non c'era bisogno di appellare le sentenze che contenevano violazioni dell'editto (L. 7, § 1, D. de appel. recip. vel non).
Questo nuovo codice portò ad un cambiamento nello studio del diritto perchè invece di imparare la legge delle XII tavole ovvero l'editto annuo del pretore, i legisti cominciavano a studiare l'editto perpetuo che in breve tempo divenne anche oggetto dei commenti dei giureconsulti più celebri.
Adriano introdusse un altro notevole cambiamento, rendendo libera la professione di giureconsulto com'era prima di Augusto e concedendo in via generale il diritto di consultare chiunque fiduciam sui haberet (L. 2, § ult., D. de orig. jur.).
Infine, durante il suo impero, la legislazione prese decisamente un'altra forma perchè in precedenza gli imperatori avevano sempre cura di far confermare i loro editti da un senatoconsulto
mentre Adriano, il cui esempio fu seguito dai successori, ordinò quanto riteneva necessario prevalentemente motu proprio, senza consultare il senato,
talchè può dirsi effettivamente che durante il suo regno Roma est ubi imperator est (Erodiano, hist. lib. 1, c. 6).
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Dopo quest'epoca le costituzioni degli imperatori si sono chiamate indifferentemente constitutiones, edicta, decreta, interloqutiones, rescripta, ecc. (10).
Sotto tutti gli altri imperatori sino a Diocleziano, ad onta dei rivolgimenti dell'impero e delle catastrofi dei Cesari, vissero eccellenti giureconsulti;
tuttavia, da quell'epoca, a poco a poco il gusto della scienza si perdette e nessuno si curò di restituire alla giurisprudenza quel lustro che via via decresceva.
Sebbene alcuni professori insegnassero il diritto a Roma e a Costantinopoli, i loro sforzi non riuscirono a nulla, e Lattanzio si dolse con ragione dell'assoluta mancanza di eloquenza, di avvocati, di giureconsulti nell'epoca in questione.
Extinctam esse eloquentiam, causidicos sublatos, jurisconsultos aut necatos aut relegatos (Lact., De mort. persec., cap. 22).
(1) Tacito, Annal. I, 2.
(2) Jus civile ad certum modum redigere, atque ex immensa diffusaque legum copia, optima quaeque ac necessaria in paucissimos conferre libros voluit (Suet. in Jul. c. 44).
(3) Cum in aliis plerisque, tum in hoc quoque, cum romanis, tamquam cum hominibus liberis agebat (Dio. Cass., lib. 53).
(4) Si metta a confronto di tanta viltà questo bel passo di D'Aguesseau, t. 1, p. 7: "Le più nobili immagini della divinità, i re che la Scrittura chiama gli dei della terra, non sono mai tanto magnanimi se non quando sottomettono tutta la loro grandezza alla giustizia, ed al titolo di padroni del mondo accoppiano quello di servi della legge. V. i nostri Principia juris, not. 2, al n. 37, e not. 3, al n. 1328).
(5) "Mi odino purchè mi temano". Svetonio riferisce che sarebbe stato il motto preferito di Caligola.
(6) Id pro lege erat, et Senatus-consultum dicebatur (Tacit. Annal. VI, 12).
(7) Schiavi consolari (Silla).
(8) De juris quoque consultis, quasi scientiae eorum omnem usum aboliturus, saepe jactavit, se effecturum ne quid respondere possint, praeter aequum (Suet., in Calig., c. 34).
(9) Il più celebre decreto di Claudio era quello con cui permise allo zio di sposare la nipote (filiam fratis). Grazie a questo decreto, confermato da un senatoconsulto, sostituì l'adultera Messalina con l'incestuosa Agrippina. Talia enim conjugia ad id tempus incesta habebantur (Suet. in Claud. 26; Tacit., Annal. XII, 6).
(10) Macrino, competitore di Eliogabalo, concepì il seguente disegno: "Omnia rescripta veterum principum tollere, ut iure, non rescriptis ageretur, nefas esse dicens leges videri Commodi et Caracalli et hominium inperitorum voluntates, cum Traianus numquam libellis responderit, ne ad alias causas facta praeferrentur, quae viderentur ad gratiam composita" (Jul. Capit. in Macrin., cap. 13).
Capitolo V
Il diritto romano da Costantino a Giustiniano
L'introduzione del cristianesimo nell'impero romano e la conversione di Costantino produssero mari mutamenti nella giurisprudenza.
A questa causa si devono riferire le leggi di quest'imperatore concernenti:
- il permesso di donare alla chiesa (L. 1, C. de sacros ecclesiis);
- l'abolizione dei combattimenti dei gladiatori (L. 3, C. de gladiat.);
- l'obbligo di celebrare la domenica (L. 3, C. de fer.);
inoltre furono adattate al cristianesimo molte altre leggi che fecero dire di lui: Quod novas leges rengendis moribus, et frangendis vitiis constituerint, Veterum calumniosas ambages resciderit haeque captandae simplicitatis laqueos perdiderint (Nazario, in Panegyr., c. 38).
Sotto quest'imperatore la giurisprudenza riacquistò nuovo vigore, e vissero alcuni dotti giureconsulti come Ermogeniano, Carisio e Giulio Aquila.
Ma ciò che rese più pretigiosa questa illustre scienza fu l'istituzione delle scuole di diritto: le più famose furono quelle di Berito, Roma e Costantinopoli, che inoltre furono protette tanto da ottenere da Giustiniano, onde conservare tutto il loro splendore, il privilegio esclusivo di insegnare pubblicamente il diritto e la chiusura di alcune scuole rivali, da poco aperte ad Alessandria e a Cesarea.
La scuola di Berito era certamente la più antica e la più florida. Fin dal 248 Gregorio Taumaturgo definiva quella città urbem plane romanam, et legum romanarum schola ornatum. Diocleziano e Massimiano, che pure vissero nel III secolo, ne tessevano le lodi nella legge 1, C. qui aetate vel profess. excus. Nel IV secolo l'affluenza degli alunni era tanto copiosa che Libanio (Orat. 36) si doleva del fatto che i giovani abbandonavano lo studio dell'eloquenza per dedicarsi in via esclusiva a quello del diritto.
Pressappoco nella stessa epoca la città fu distrutta da un terremoto devastante ma ben presto risorse dalle sue rovine più bella e magnifica di prima, visto che Nonno (che scriveva nel V secolo), lodando lo zelo con cui si studiava diritto a Berito, la chiamava matrem legum, mentre nel VI secolo Giustiniano la definiva civitas legum veneranda et splendida metropolis, et legum matrix.
Altri scrittori encomiano la frequenza e l'assiduità degli studenti, e la profonda dottrina dei professori tra cui si annoveravano Doroteo e Teofilo della cui opera si servì Giustiniano per redigere il suo corpo di diritto.
Tuttavia tanto lustro non poteva perpetuarsi: la città, tanto illustre quanto disgraziata, fu nuovamente colpita da un terremoto, e un incendio ne completò poco dopo la distruzione, gettando nello sconforto gli sventurati abitanti che si sforzavano di ricostruirla.
Tornando a Costantino, può osservarsi ancora che le sue innovazioni della legislazione romana non riguardarono unicamente il diritto civile ma anche il diritto pubblico. Infatti, egli suddivise l'impero in quattro grandi governatorati o prefetture pretoriane; e, ciò che merita di essere rimarcato soprattutto, trasferì a Costantinopoli la capitale dell'impero, avvenimento che, da un lato, abbandonò Roma all'ambizione dei pontefici rendendo loro agevole l'affermazione del loro potere, e dall'altro aprì l'occidente ai barbari che già si preparavano a premere sulle più ricche province dell'impero romano.
Nulla era tanto sgradito ai giureconsulti dell'epoca quanto i molteplici cambiamenti introdotti da Costantino alle costituzioni dei suoi predecessori, e il progetto che sembrava annunciare la riforma dell'antico diritto cui si erano tutti abituati: così, temendo che le costituzioni dell'epoca di Adriano venissero meno o cadessero in disuso, si preoccuparono di riunirle in diversi codici, auspicando di avere ragione, in tal modo, del tempo e dell'oblio.
Gregorio, o Gregoriano, fu il primo a compilare le costituzioni emanate da Adtiano a Costantino, classificandole secondo diversi titoli. La sua compilazione, sebbene provenisse da un semplice privato, acquisì grande autorità.
Dopo poco Ermogeniano si occupò di compilare un codice che sembrava un estratto di quello precedente ed in cui riunì con molta precisione le costituzioni di Diocleziano e dei suoi colleghi.
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I figli di Costantino seguirono il disegno paterno e, ricorrendo a tutto il loro potere, attesero all'opera di semplificazione della giurisprudenza e di protezione della religione che avevano abbracciato.
Tuttavia Giuliano, che aveva altre prospettive, sovvertì quanto da loro stabilito nell'interesse della religione cristiana, ed avvilì la giurisprudenza a tal punto che gli uomini liberi desistettero dallo studiarla, abbandonando questa occupazione ai liberti (1).
Peraltro il suo regno non durò molto e i suoi successori sino a Teodosio il grande ripresero il sistema di Costantino e si preoccuparono di risolvere tutti i dubbi dell'antico diritto. Tuttavia, proprio la cura che misero per conseguire questo risultato non fece che aumentare l'imbarazzo e rendere la scienza più intricata e difficile. Difatti le loro costituzioni, che proliferarono e si aggiunsero all'opera dei giureconsulti che avevano autorità nel foro (2), trasformarono la giurisprudenza in un labirinto inestricabile.
Nel 426 Teodosio il giovane e Valentiniano ritennero provvedimento opportuno per risolvere questo problema l'introduzione del divieto di citare opere diverse da quelle di Papiniano, Paolo, Gaio, Ulpiano e Modestino, e, in caso di divergenza di opinioni, la preferenza per l'opinione maggioritaria e, in caso di parità, la preferenza per l'opinione di Papiniano; però è evidente che si sbagliavano perchè attribuivano minor rilievo a ciò che era giusto in sè piuttosto che a ciò che aveva autorità, e, in caso di pareri contrastanti, contavano i suffragi piuttosto che ponderarli.
Comunque sia, Teodosio non si perse d'animo e, determinato a ridurre le costituzioni degli imperatori, affidò l'esecuzione di questo disegno a otto giureconsulti, fra cui Antioco, e nel 438 promulgò un codice che dal suo nome fu detto Codice Teodosiano e che comprendeva tutte le ordinanze dei principi da Costantino il grande fino a lui.
Ciò però non impedì a lui e ai suoi successori di pubblicare successivamente un gran numero di leggi che assunsero il nome di Novelle e che col tempo crebbero al punto di far nuovamente sprofondare la giurisprudenza nello stesso caos da cui l'avevano tratta lunghi e faticosi lavori.
Questo era lo stato della giurisprudenza quando Giustiniano ascese al trono.
(1) Juris civilis scientia quae Manlios, Scaevola, Servios in amplissimos gradus dignitatis evexerat, liberti norum artificium dicebatur (Mamertin., Panegyr. XI, cap. 20).
(2) Al tempo di Giustiniano il numero di queste opere ascese a quasi duemila e, secondo l'espressione di Eunapio, avrebbe potuto essere il carico di molti cammelli (multorum camelorum onus).
Capitolo VI
La formazione del corpo del diritto
Eccoci pervenuti al tempo di Giustiniano. Questo principe venne al mondo nel 482; fu associato all'impero nel 527 da suo zio Giustino che morì pochi mesi dopo lasciandolo solo a governare il mondo.
Nel corso del suo regno, durato trentatre anni, Giustiniano si impegnò a far rispettare le frontiere dei suoi stati, a sedare gli scismi della chiesa, ad edificare ed abbellire le città e a rifondare interamente il diritto romano.
In effetti, di fronte al deplorevole stato in cui si trovava ridotta la giurisprudenza, concepì il progetto di riassumere il diritto in un quadro più limitato e pertanto più agevole a comprendersi.
Per dare esecuzione ad un'impresa tanto vasta, si preoccupò di associare agli uomini di stato più illustri e esperti, i più abili professori delle scuole di Berito e Costantinopoli e gli avvocati più rinomati per il loro sapere e più accreditati per la loro eloquenza.
Mise a capo di questi uomini scelti Triboniano, uno dei più grandi dignitari dell'impero;
ad essi prescrisse di scegliere le migliori costituzioni all'interno dei codici promulgati in passato e di riunirle in un solo corpo diviso in XII libri,
loro raccomandando soprattutto di eliminare ciò che vi era di inutile e di aggiornare ciò che vi era di datato.
Il risultato di questo primo lavoro produsse un codice cui Giustiniano dette il suo nome (1), come si osserva in una costituzione emanata nel 529 con cui abrogò tutti i codici anteriori ed ingiunse che solo il suo avesse forza di legge.
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Successivamente, riflettendo che i principii della giurisprudenza romana si trovavano riuniti più completamente e stabiliti più solidamente nelle opere ex professo degli antichi giureconsulti, che nelle ordinanze parziali dei suoi predecessori, Giustiniano incaricò nuovamente diciotto saggi, alla cui testa mise ancora una volta Triboniano, di prendere da queste opere tutto ciò che vi era di buono e applicabile ai costumi del suo tempo.
Questa operazione fu loro affidata nel 530; e sebbene Giustiniano avesse loro accordato dieci anni per portarla a compimento, costoro vi attesero con tanto ardore e con tanto zelo che terminarono in soli tre anni l'enorme lavoro che prese il nome di Digesto o Pandette perchè comprendeva nel suo complesso le decisioni su tutte le materie del diritto: quod omnes disputationes ed decisiones in se haberet legitimas, et, quod undique esset collectum, in sinus suos recepisset (L. 2, § 1, C. de vet. jure enucleando).
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Subito dopo la formazione delle Pandette Giustiniano associò a Triboniano Teofilo e Doroteo e ordinò loro di comporre dei compendi degli antichi giureconsulti e principalmente sulle istituzioni di Gaio, le Instituta imperiali, che dovevano contenere i primi elementi della giurisprudenza: ut illae essent totius legitimae scientiae prima elementa (Proem. inst., § 4).
Quest'opera, ancorchè posteriore alle Pandette, non fu pubblicata prima di esse perchè fu resa esecutiva con una costituzione del 21 novembre 533 mentre l'intero Corpo del diritto lo fu solo il 13 dicembre con un'altra costituzione che ordinò di custodirlo e osservarlo nel foro e di insegnarlo nelle scuole di Roma, Costantinopoli e Berito.
Peraltro, nonostante la direttiva di non includere nel suo codice alcuna delle contraddizioni presenti nelle opinioni opposte dei giureconsulti di diverse sette, Giustiniano si avvide ben presto che vi erano ancora molti punti controversi. Onde eliminare ogni traccia di queste antinomie promulgò, durante il consolato di Lampadio e Oreste, cinquanta decisioni (quinquaginta decisiones) che quindi collocò sotto i diversi titoli del suo codice, quando fu eseguita la revisione da lui disposta.
Questa revisione era diventata necessaria perchè dopo la formazione del suo codice Giustiniano aveva importato molte costituzioni che non ne facevano parte e del resto nel codice esistevano non poche decisioni che il tempo dimostrò viziate o abusive e che sembravano suscettibili di miglioramento. Queste considerazioni lo indussero ad incaricare nuovamente Triboniano ed altri quattro personaggi di rivedere il suo antico codice e accorpare in quello nuovo le cinquanta decisioni di cui si è detto, oltre alle costituzioni successive, e di farvi le modifiche opportune. Questo secondo codice si sostituì al primo e fu promulgato il 16 dicembre 534 sotto il titolo di Codex repetitae praelectionis.
Poichè Giustiniano regnò per molto tempo dopo la pubblicazione di quest'ultimo codice, non deve meravigliare che sia stato costretto a affrontare alcune nuove questioni che l'instabilità delle circostanze fa nascere ad ogni istante.
Videro quindi la luce le nuove costituzioni (Novellae constitutiones), scritte per la maggior parte in greco e di cui si proponeva di comprendere in una complilazione separata, come annunciò nella costituzione Cordi nobis, § 5, De emend. Cod. (2).
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Ecco ciò che compone l'intero corpo delle leggi romane, compilazione che da più di sette secoli è stata severamente censurata da alcuni e vivamente difesa da altri sul rilievo che non vi sarebbe nulla che non fosse buono ed utile (3).
Quanto a noi, se possiamo dare la nostra opinione, non possiamo non ammettere che il Corpo del diritto non sia esente da censure perchè avrebbe potuto avere una minore estensione e una migliore ripartizione; comunque aggiungiamo che si tratta di difetti scusabili in un'opera tanto rimarchevole, eseguita dalla mano dell'uomo e quindi destinata a restare imperfetta. Infatti, come diceva lo stesso Giustiniano, in nullo aberrare, seu in omnibus irreprehensibilem et inemendabilem esse, divinae utique solius, non autem mortalis est constantiae seu roboris (L. 3, § 13, C. de vet. jur. enucleando). Del resto, a dispetto di questi difetti, nel Corpo del diritto si deve riconoscere una fonte inesauribile di dottrina e di ragione, e di esso si deve dire come di tutte quelle opere in cui il buono sorpassa il cattivo:
Ubi plura nitent in carmine, non ego paucis
Offendar maculis, quas aut incuria fudit,
Aut humana parum cavit natura
Orazio, Art. poet., v. 351.
(1) Procopio nei suoi Annali censura Giustiniano per la mania di dare ad ogni cosa il proprio nome: quod omnia a suo nomine dici voluerit. Nam (inquit) statis magistratuum formis legumque et militorium ordinum abrogatis, alias invexit, non jure, non publico commodo adductus, sed ut omnia nova, et de suo nomine dicerentur. Rei cujus statim abolendae copia non fuisset, saltem suum indidit vocabulum.
(2) Pare anzi che Giustiniano avesse eseguito successivamente questo progetto, come attesta Agathias, lib. 5, p. 140, e Paol. Diac. Hist. Longob., lib. 1, c. 25. E infatti sembra che questa collezione di cui parla quest'ultimo autore non fosse altro che quella che fa parte del Corpo del diritto e che si trova divisa in nove parti sotto il titolo di Novelle.
(3) Vedasi Franc. Hotoman. in Antitriboniano; Balduinus in Justiniano; Autumnus in Censura gallica juris romani; Barthelot nella sua Apologie du droit romain.
Capitolo VII
La sorte della legislazione di Giustiniano
Occorre ora esaminare cosa avvenne della legislazione di Giustiniano dopo la sua morte sia in oriente sia in occidente.
Anzitutto è ben noto che il Corpo del diritto pubblicato da quell'imperatore fu accolto immediatamente in oriente sia dai tribunali sia dalle scuole di giurisprudenza. Tuttavia, poichè la maggior parte dei giudici e dei professori conoscevano solo mediocremente il latino, fu avvertita la necessità di tradurre in greco le leggi di Giustiniano promulgate in latino.
Prima ad avere luce fu la versione delle Instituta. Quando ancora era vivo l'imperatore, Teofilo, colui che lo stesso Giustiniano aveva incaricato della loro compilazione, ne fece una versione in greco che ci è pervenuta e le cui migliori edizioni sono state pubblicate da Fabrot e Denis Godefroy.
Un altro contemporaneo di Giustiniano, Taleleo, fece una versione in greco delle Pandette che era frequentemente citata nelle basiliche.
Peraltro, le Novelle di Giustiniano, prevalentemente compilate e promulgate in greco, furono tradotte in latino da Giuliano che nel 750 ne fece un compendio egregio, reperibile in appendice al commento al codice pubblicato dai fratelli Piteo (Parigi, 1689, in folio).
Queste versioni furono utilizzate nel foro e nelle scuole fino al IX secolo allorchè gli imperatori di Costantinopoli ritennero di farne comporre un compendio. Nel 838 Basilio Macedone fu il primo a pubblicare una raccolta ristretta con il titolo di Phrocheiron ton nomon. Il filosofo Leone proseguì l'impresa di suo padre, correggendone la traduzione e pubblicandola nel 886 con il titolo di Diataxeon Basilicon. Da ultimo Costantino Porfirogenito vi mise mano pubblicando i libri delle Basiliche all'inizio del X secolo.
Questi libri sono composti dalla versione greca delle Instituta, delle Pandette, del Codice, delle Novelle e degli Editti di Giustiniano, dei Paratitoli e dei Commenti di alcuni giureconsulti dell'impero di Oriente. Vi sono anche ricompresi svariati passi dei Padri della Chiesa e dei Concilii.
Tuttavia questa versione non è fedele alla lettera, differendo dal testo originale in molti punti. Alcune leggi vi sono omesse, altre vi sono aggiunte, alcune altre vi si trovano ristrette e incomplete.
Non è facile capire quest'opera, neanche per i greci, come sostiene Psellio (interpretatum difficile est et maxime obscurum). Dietro suggerimento del consigliere Séguier, Charles Annibal Fabrot, avvocato al parlamento di Aix, ne curò una versione latina che dette alla luce nel 1647 in sette volumi in folio.
Le Basiliche furono osservate in tutto l'oriente, come comprovano numerose opere di giurisprudenza scritte in greco dall'XI al XIV secolo in cui questa compilazione è citata e commentata.
La loro autorità venne meno nel 1453 quando la conquista di Costantinopoli da parte dei turchi pose fine all'impero d'Oriente.
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Nell'impero romano d'Occidente varie province erano cadute sotto il dominio dei barbari mentre altre erano rimaste sotto quello degli imperatori romani.
In queste ultime il diritto di Giustiniano fu certamente applicato poichè questi aveva ordinato di osservarlo in tutto l'impero e di insegnarlo in via esclusiva in tutte le scuole.
Nelle province invase dai barbari, questi ultimi si riservarono il potere militare, generalmente lasciando ai vinti l'uso delle leggi romane. Peraltro, queste leggi non erano quelle promulgate da Giustiniano ma i codici gregoriano, ermogeniano e teodosiano con le Instituta di Gaio, le sentenze di Paolo e gli scritti di altri giureconsulti di cui nel 576 Alarico, re dei visigoti, fece fare da un suo cancelliere, Aniano, un sunto chiamato dagli storici e dai giureconsulti, indifferentemente, Corpus theodosianum (Baluz., t. X, p. 474), Lex romana (idem, t. II, p. 995; Ducange, Glossar. hac voce), Breviarium Aniani (v. Jacques Godefroy, Proleg. Cod. Theod., cap. 5).
Ugualmente gli ostrogoti ne fecero uso: nella prefazione del suo editto il loro re, Teodorico, ordinò di darvi esecuzione salva juris publici reverentia, et legibus omnibus cunctorum devotione servandis.
Anche Cassiodoro attesta che il diritto romano continuò a regolare i paesi conquistati poichè l'umanità di quei conquistatori chiamati barbari era tale da lasciare ai vinti la scelta delle leggi.
Secondo i principi della loro politica tollerante i borgognoni permisero ai romani che vivevano nel loro regno di seguire la legge romana. "E' d'uopo giudicare i romani a norma delle leggi romane", dice Gundobaldo nel preambolo della legge dei borgognoni (Inter Romanos vero, sicuti a parentibus nostris statutum est, Romanis legibus praecipimus judicari. V. Lindenb., p. 267); ed ecco perchè Papiniano, sull'esempio di Aniano, compose un libro di responsi, Liber responsorum, tratto dal codice di Teodosio, dalle Novelle del medesimo imperatore e dei suoi successori, e dai libri di vari giureconsulti, affinchè fungessero da legge per quei cittadini che preferivano il sistema della legge romana a quello della legge gombette.
Anche i franchi che pure avevano leggi e consuetudini nazionali (1), accordarono ai vinti la facoltà di scegliere quelle leggi che sembrassero loro preferibili. Così Clotario ordinò che le controversie tra i romani fossero giudicate a norma delle leggi romane (causas inter Romanos controversas romanis terminari legibus, Baluz., t. 1, Capit., p. 7).
Le cose rimasero così fino ai tempi di Carlo Magno che nell'804, avvertendo il bisogno di provvedere di leggi le nazioni cui aveva dato un sovrano, ordinò di raccogliere le consuetudini di tutti i popoli a lui soggetti (2).
Così ebbero origine le leggi degli alemanni, dei bavari, dei longobardi, ecc., compilate con tanta erudizione da Eccardo, Lindenbroge, Dom Bouquet ed altri.
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Sebbene in quei primi tempi sembrasse che si fosse fatto uso in oriente del Codice e delle Novelle piuttosto che delle Pandette, non si deve però credere che le Pandette avessero cessato di esistere del tutto. L'opinione più accreditata al riguardo è che ne fu scoperta una copia nella città di Amalfi, che fu presa da Lotario III nel 1137. Quest'imperatore ne fece dono ai pisani che l'avevano aiutato con la loro flotta nella sua spedizione. Dai pisani questa copia passò ai fiorentini (3); ed Irnerio, che allora insegnava a Bologna, ne fece uso nelle sue lezioni avendone avuto bisogno. Lo stesso Lotario ne introdusse l'uso nelle scuole e nei tribunali. Si veda sul punto Sigonius (De Reg. Ital., lib. 7), Henri Brenkman (De Amalphi a Pisanis direpta, § 24, p. 65) e il cardinale d'Ostia (in cap. 1, pr. X, De test., n. 2).
Da allora il diritto romano fu effettivamente insegnato in tutte le università d'Europa e corredato di note e commenti da una folla di giuristi, le cui glosse tutte furono poi riunite in una sola da Accursio.
La glossa di Accursio ha goduto di una grandissima celebrità al punto che la sua autorità ha quasi superato quella del testo, come attestano vari autori, e specialmente Fulgose che in una nota sulla legge 6, C. de oblig. et act., non esita a dire che preferisce la glossa al testo (volo enim pro me potius glossatorem quam testum); tuttavia oggigiorno è caduto in un discredito totale.
I giureconsulti di quella scuola non si limitarono a commentare il testo del Corpo del diritto ma immaginarono di dargli una diversa divisione e crearono questa distinzione, che i moderno non hanno adottato: digestum vetus, infortiatum, et novum.
Inoltre compendiarono le Novelle e le trascrissero come postille a margine delle leggi che le Novelle miravano a cambiare o modificare. Finirono di inserire questi estratti nel codice sotto il titolo di Autentiche, benchè sia certo che in molti passi non è riprodotto fedelmente il senso del testo.
L'invasione dei barbari aveva portato al sistema feudale che, via via che diveniva più complesso, introdusse molte consuetudini nuove che tre senatori di Milano raccolsero per iscritto aggiungendole al Corpo del diritto con il titolo di Consuetudines feudorum.
Questa fu l'opera dei giureconsulti della prima scuola che fiorì nel XII e nel XIII secolo.
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Nel XIV secolo vissero Bartolo, Baldo, Tartagne, Salicet, Paul de Castres, Jason, ecc., che non si limitarono a fare note al Corpo del diritto ma lo commentarono in modo più ordinato ed esteso.
Sebbene gli scritti di questi giureconsulti dettero luogo a raffronti ammirevoli e decisioni di grande giustizia, non si può tuttavia esimersi dal notare che vi si trovano anche molte inezie, errori e puerilità.
Peraltro, occorre attribuirli ad un secolo in cui, per inclinazione e per lingua, gli uomini di studio erano privi delle risorse che buoni studi e una conoscenza più precisa della storia, della filosofia e della critica, avrebbero offerto nelle età successive.
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Soltanto nel XVI secolo la giurisprudenza uscì dal caos e raggiunse uno splendore che dovette ascriversi a Cuiacio (4), ai fratelli Pithou, a P. Faber, a Fr. Hotman, e a tanti altri saggi che produsse la Francia, e specialmente l'illustre scuola di Bourges (5).
Ma se questo secolo ebbe i suoi lati positivi, non mancò di inconvenienti. Il gusto per le lettere, che perfezionò lo spirito dei commentatori, conferì loro nel contempo eccessiva sottigliezza, al punto che, ad eccezione di pochi di loro, tutti gli autori che si dedicarono al diritto romano, impiegarono il loro tempo e le loro cure ad inseguire chimere, a creare mostri per il piacere di combatterli, e a ricercare antinomie sovente immaginarie, unicamente per mostrarsi fini e sottili, e per fare dire di loro stessi, che erano stati capaci di trovare ciò che ogni altro non aveva neppure supposto. Commentis veritatem obruunt - dice Duareno - quo aliquid paulo argutius nec ad aliis ante excogitatum in medium adduxisse videantur (6).
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Questo cattivo sistema ebbe fine, e i nuovi giureconsulti furono ben diversi dai precedenti.
Nel 1583 Denis Godefroy pubblicò un'edizione del Corpo del diritto che fece epoca tra i giureconsulti, ed il cui testo fu adottato come lezione comune nelle università e nei tribunali. Vi si rinvengono delle note che sono un capolavoro di scienza, di critica, di precisione e di eleganza, e che gli hanno conferito, secondo d'Aguesseau, la fama del più dotto e del più profondo di tutti gli interpreti delle leggi civili.
Dopo di lui, Pothier lavorò su un nuovo piano. Anzichè commentare servilmente il testo delle leggi romane, le sistemò secondo un nuovo ordine, assegnando loro partizioni più naturali e dimostrando che un metodo in cui tutto è esattamente collocato è il mezzo migliore per rendere chiaro ciò che è oscuro o confuso: Tantum series juncturaque pollet!
Eineccio spinse più lontano la sua audacia: forte della sua dottrina e maestro della materia, ricondusse ciascuna parte del diritto ai suoi elementi primi; e, procedendo alla maniera dei geometri, ridusse la giurisprudenza alla sua espressione più semplice, e formò con i suoi assiomi una catena in cui tutti gli anelli si legano con un'esattezza che ne costituisce la forza principale.
(1) La legge salica e quella dei ripuarii (Egin., in Vita Carol. Magn., cap. 2; Baluz., t. 1, p. 989).
(2) Nella Vita di Carlo Magno Eginardo attesta questo fatto (cap. 20): Eum nimirum, omnium nationum, quae sub ejus dominatu erant, jura, quae scripta non erant, describi ac litteris mandari fecisse; il che ha fatto dire ad un antico poeta:
Cunctorum sui regni leges populorum
Collegit, plures inde libros faciens
(3) Furono perciò chiamate Pandette fiorentine e sono generalmente ritenute come le più esatte che abbiamo: Cujacius persuaserat sibi Florentinas Pandectas essere omnium integerrimas; proindeque eas castiora digesta appellavit in comment. ad § ult. l. 3, D. de acqu. vel amitt. poss. lib. 54, Pauli ad edictum
(4) Cuiacio è senza dubbio il primo degli interpreti del diritto: introdusse un nuovo modo di trattare e di commentare le leggi romane. La giurisprudenza romana divenne elegantior; e Nettelbladt ci informa che questa giurisprudenza, meglio coltivata e più raffinata, fu chiamata jurisprudentia cujaciana.
(5) E' noto fino a che punto la scienza del diritto fu coltivata in questa città, che d'altronde ha dato alla luce tanti uomini celebri. Vi si rispetta particolarmente il ricordo di Cuiacio; chiunque ancora vi mostra ai forestieri la casa in cui egli abitò, e il suo ritratto è conservato in una sala del palazzo di Jacques Coeur. Ma ci si deve rammaricare che sia collocato in modo tanto sfavorevole che si distinguono a mala pena i tratti del volto di questo grand'uomo; ed è quindi con sentimento di viva sollecitudine che esprimiamo il desiderio di veder trasferita questa preziosa immagine nella sala della corte d'appello, i cui magistrati ne sarebbero i degni depositari.
(6) Si vedano le nostre Riflessioni sull'insegnamento e lo studio del diritto, pag. 17 e 18.
Capitolo VIII
Il diritto romano nel XIX secolo
Questo era lo stato della giurisprudenza alla fine del XVIII secolo.
Improvvisamente divampò una rivoluzione terribile. Il suo primo sforzo di esercitò sulle leggi.
Le antiche istituzioni furono distrutte; le scuole di diritto furono chiuse; l'avvocatura soppressa; le leggi romane ridotte al silenzio così come le vecchie leggi francesi, e tutto fu rimpiazzato da una quantità di leggi che si successero senza sosta, e si moltiplicarono senza ragione. Corruptissima republica, plurimae leges (Tacit., Annal. III, 27).
Tuttavia cominciò un secolo più onorevole: Magnus ab integro sectorum nascitur ordo.
L'ordine succede al caos, un governo fermo sorge dal seno dell'anarchia, fondamenta solide si elevano in mezzo alle rovine; tutto rinasce, e la Francia, divenuta guida dell'Europa grazie alla forza dei suoi eserciti, afferma il suo impero grazie alla saggezza delle suo leggi.
Le scuole di diritto sono riaperte, e una folla di studenti vi si precipita. Vi si insegna il Codice Napoleone; uno dei suoi redattori aveva preconizzato, però, che non ci sarebbe mai stato questo codice se non si fosse studiato che questo soltano; così si stabilì che le leggi romane fossero parte integrante dell'insegnamento.
"Leggi comprensibili e durevoli" (si può dire con il cancelliere d'Aguesseau) "sono ricercate ancora oggi da tutte le nazioni e ciascuna in cerca delle risposte di una verità eterna. Non importa che i giureconsulti romani abbiano interpretato la legge delle XII tavole e l'editto del pretore; essi sono i più sicuri interpreti delle nostre stesse leggi; essi estendono, per così dire, il loro spirito sui nostri usi, la loro ragione ai nostri costumi e per i principi che ci siamo dati ci servono da guida anche quando percorriamo un sentiero che era loro ignoto" (Tom. 1, p. 157).
"Del resto" (diciamo con Bossuet) "se le leggi romane sono parse così sacre che la loro maestà sopravvive ad onta della rovina dell'impero, ciò accade perchè il buon senso, che è l'arbitro della vita umana, vi regna dappertutto, e perchè, d'altronde, da nessun'altra parte si vede una migliore applicazione dei principi dell'equità naturale" (Hist. univ., p. 579).
Dunque, giovani allievi, industriatevi a studiare a fondo queste regole preziose. Fate servire lo studio delle leggi romane alla comprensione delle leggi nazionali. Lavorate, mostratevi abili e rendetevi capaci di essere utili alla vostra patria, ai vostri amici, a voi stessi. Pergite, ut facitis, adolescentes; atque in id studium, in quo estis, incumbite, ut et vobis et amicis utilitati, et reipublicae emolumento esse possitis (Cic. 1, De orat.).