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Risulterebbero
violati,
di
conseguenza,
anche
gli
artt.
13,
primo
comma,
e
27,
secondo
comma,
Cost.,
giacché,
ove
venga
a
cadere
la
«giustificazione
cautelare
della
detenzione»,
l’indagato
o
imputato
si
troverebbe
a
subire
una
immotivata
compressione
della
propria
libertà
personale
e
un
trattamento
riservato
al
colpevole,
prima
della
sentenza
di
condanna.
2.
–
Con
ordinanza
depositata
il
28
maggio
2009
(r.o.
n.
14
del
2010),
il
Tribunale
di
Torino,
sezione
per
il
riesame,
ha
sollevato,
in
riferimento
agli
artt.
3,
13,
27
e
117,
primo
comma,
Cost.,
questione
di
legittimità
costituzionale
del
medesimo
art.
275,
comma
3,
cod.
proc.
pen.,
nella
parte
in
cui
non
consente
di
applicare
gli
arresti
domiciliari
o,
comunque,
misure
cautelari
diverse
e
meno
afflittive
della
custodia
in
carcere
in
relazione
ai
delitti
previsti
dagli
artt.
600-‐bis
[primo
comma]
e
609-‐bis
cod.
pen.
Il
Tribunale
rimettente
è
investito
dell’appello
avverso
l’ordinanza
del
13
febbraio
2009,
con
la
quale
il
Giudice
per
le
indagini
preliminari
del
medesimo
Tribunale
ha
respinto
l’istanza
di
sostituzione
con
gli
arresti
domiciliari
della
misura
della
custodia
cautelare
in
carcere,
applicata
ad
una
persona
indagata,
tra
l’altro,
per
i
delitti
di
induzione
alla
prostituzione
minorile
(art.
600-‐bis,
primo
comma,
cod.
pen.)
e
di
violenza
sessuale
aggravata
dalle
condizioni
di
minorata
difesa
della
vittima
(artt.
609-‐bis
e
61,
numero
5,
cod.
pen.).
In
via
preliminare,
il
giudice
a
quo
esclude
che
possa
accogliersi
la
richiesta
di
revoca
della
misura
cautelare
formulata
dal
difensore
in
udienza,
giacché
–
a
prescindere
dalla
limitazione
dell’istanza
iniziale
alla
sola
sostituzione
della
misura
–
le
esigenze
cautelari,
legate
al
pericolo
di
reiterazione
delle
condotte
criminose,
non
sarebbero
comunque
venute
integralmente
meno.
Nondimeno,
l’assenza
di
elementi
circa
l’esistenza
di
altre
relazioni
con
ragazze
minorenni,
l’effetto
deterrente
connesso
al
tempo
trascorso
in
carcere
e
le
particolari
contingenze
in
cui
i
delitti
sarebbero
maturati
giustificherebbero
una
valutazione
di
idoneità
di
misure
meno
gravose
a
fronteggiare
il
pericolo
di
ricaduta
nel
reato:
onde
sussisterebbero
le
condizioni
per
sostituire,
in
accoglimento
dell’appello,
la
misura
in
atto
con
quella
degli
arresti
domiciliari.
Tale
operazione
risulterebbe,
tuttavia,
preclusa
dalla
norma
impugnata,
la
quale,
nel
testo
vigente,
stabilisce
–
a
fianco
di
una
presunzione
relativa
di
sussistenza
delle
esigenze
cautelari
(«salvo
che
siano
acquisiti
elementi
dai
quali
risulti
che
non
sussistono
esigenze
cautelari»),
non
rilevante
nella
specie
–
una
presunzione
assoluta
di
adeguatezza
della
sola
misura
cautelare
della
custodia
in
carcere,
applicabile
in
rapporto
ad
un’ampia
serie
di
reati,
tra
cui
quelli
che
interessano.
Ad
avviso
del
giudice
a
quo,
tale
disposizione
non
si
sottrarrebbe
a
dubbi
di
legittimità
costituzionale.
Quanto
alla
rilevanza
della
questione,
il
rimettente
osserva
che,
alla
luce
di
una
consolidata
interpretazione
giurisprudenziale,
la
disposizione
impugnata,
in
quanto
norma
processuale,
deve
ritenersi
applicabile
–
in
base
al
principio
tempus
regit
actum
–
anche
alle
misure
cautelari
da
adottare
per
fatti
delittuosi
commessi,
come
nel
caso
di
specie,
anteriormente
all’entrata
in
vigore
della
legge
novellatrice.
Con
riguardo,
poi,
alla
non
manifesta
infondatezza,
il
giudice
a
quo
rileva
come
la
disciplina
delle
misure
cautelari
personali
sia
ispirata
ai
principi
di
proporzione,
adeguatezza
e
graduazione,
espressamente
enunciati
dall’art.
2,
numero
59,
della
legge
di
delegazione
16
febbraio
1987,
n.
81
(Delega
legislativa
al
Governo
della
Repubblica
per
l’emanazione
del
nuovo
codice
di
procedura
penale),
la
quale
prevede,
altresì,
l’adeguamento
del
nuovo
codice
di
rito
ai
principi
della
Costituzione
e
alla
normativa
convenzionale
internazionale.
Nell’ambito
di
tale
normativa
verrebbe
in
particolare
rilievo
l’art.
5,
paragrafi
1,
lettera
c),
e
4,
della
Convenzione
per
la
salvaguardia
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