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3,
cod.
proc.
pen.,
in
forza
della
quale
è
conferito
ordinariamente
al
giudice
della
cautela
il
potere-‐dovere
di
distinguere
i
diversi
fatti
riconducibili
alla
medesima
figura
di
reato
e
la
differente
intensità
delle
esigenze
di
tutela,
ai
fini
della
scelta
della
misura
meglio
rispondente
al
caso
concreto.
È
ben
vero
che
la
Corte
costituzionale
ha
reputato
ragionevoli,
e
dunque
costituzionalmente
compatibili,
interventi
normativi
che,
in
deroga
ai
suddetti
principi,
hanno
introdotto
presunzioni
del
tipo
considerato
nel
sistema
delle
misure
cautelari,
riconoscendo
che
«spetta
al
legislatore
individuare
il
punto
di
equilibrio
tra
le
diverse
esigenze
della
minore
restrizione
possibile
della
libertà
personale
e
della
effettiva
garanzia
degli
interessi
di
rilievo
costituzionale
tutelati
attraverso
la
previsione
degli
strumenti
cautelari
nel
processo
penale»
(ordinanza
n.
450
del
1995).
Ciò
è
avvenuto,
tuttavia,
con
riferimento
ad
iniziative
ben
delimitate,
volte
a
fronteggiare
«emergenze»
a
carattere
straordinario:
quali,
segnatamente,
quelle
di
contrasto
della
criminalità
di
tipo
mafioso,
la
quale,
per
la
complessità
della
sua
struttura
e
i
durevoli
vincoli
«di
appartenenza,
radicamento
e
progettuali»
che
la
connotano,
esprime
un
elevato
coefficiente
di
pericolosità
per
i
valori
fondamentali
della
convivenza
civile
e
dell’ordine
democratico.
Mai,
peraltro,
la
giurisprudenza
costituzionale
avrebbe
autorizzato
il
legislatore
a
trasformare
la
regola
dell’«adeguatezza»
e
della
«graduazione»
in
eccezione,
precludendo,
in
base
ad
ampie
generalizzazioni,
la
possibilità
di
un
trattamento
individualizzante
rispetto
al
grado
delle
esigenze
cautelari
e
sancendo,
in
via
astratta,
l’irrilevanza
di
qualsiasi
forma
di
evoluzione
migliorativa
delle
medesime.
L’estensione
della
presunzione
legale
assoluta
di
adeguatezza
della
sola
custodia
cautelare
in
carcere
al
«troppo
ampio
e
mutevole»
catalogo
di
delitti
oggi
richiamati
dalla
norma
censurata
sarebbe
avvenuta,
in
effetti,
secondo
logiche
diverse
e
del
tutto
incompatibili
rispetto
a
quelle
passate
positivamente
al
vaglio
del
Giudice
delle
leggi.
Con
particolare
riguardo
alla
tutela
penale
della
libertà
sessuale,
si
sarebbe
infatti
al
cospetto
di
fenomeni
di
devianza
individuale
che
si
manifestano
attraverso
condotte
della
più
diversa
gravità,
spesso
conseguenti
a
patologie,
le
quali
possono,
in
un
non
trascurabile
numero
di
casi,
risultare
contenibili,
sul
piano
cautelare,
con
misure
diverse
dalla
custodia
in
carcere:
donde
un
insopprimibile
bisogno
di
differenziare,
sulla
base
di
un
apprezzamento
in
concreto,
i
vari
fatti
riconducibili
al
paradigma
legale
astratto.
È
del
resto
costante,
nella
giurisprudenza
costituzionale,
l’affermazione
per
cui,
in
ossequio
al
favor
libertatis
che
ispira
l’art.
13
Cost.,
la
discrezionalità
legislativa
nella
disciplina
della
materia
considerata
deve
orientarsi
verso
scelte
che
implichino
il
«minore
sacrificio
necessario».
Con
la
conseguenza
che
ove
la
compressione
dei
principi
di
«adeguatezza»
e
«graduazione»
non
trovi
coerente
ragione
giustificatrice
nel
corretto
bilanciamento
dei
valori
costituzionali
coinvolti,
essa
costituirebbe
lesione
dell’art.
3
Cost.,
sotto
il
profilo
dell’irragionevolezza,
attraverso
un
uso
distorto
della
discrezionalità
legislativa.
È
quanto
si
sarebbe
appunto
verificato
con
la
norma
censurata,
la
quale,
tramite
la
ricordata
presunzione
assoluta,
avrebbe
ingiustamente
parificato
situazioni
uguali,
bensì,
quanto
a
requisiti
legali
di
fattispecie,
ma
diverse
quanto
a
specifici
connotati
di
fatto:
realizzando,
così,
un
inaccettabile
«eccesso
di
mezzi»
rispetto
al
fine
della
prevenzione
di
nuovi
delitti.
4.
–
È
intervenuto,
in
tutti
i
giudizi
di
costituzionalità,
il
Presidente
del
Consiglio
dei
ministri,
rappresentato
e
difeso
dall’Avvocatura
generale
dello
Stato,
chiedendo
che
le
questioni
siano
dichiarate
manifestamente
infondate.
La
difesa
dello
Stato
osserva
come
la
Corte
costituzionale,
proprio
nell’ordinanza
n.
450
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