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pubblica
e
privata,
mira
ad
interferire
con
le
istituzioni
per
assicurarsi
«potere
e
stabilità».
Caratteristiche,
queste,
che
rendono
possibile,
per
i
reati
di
mafia,
enucleare
una
regola
di
esperienza
in
base
alla
quale
soltanto
la
custodia
cautelare
in
carcere
è
idonea
a
preservare
le
condizioni
di
base
della
convivenza
e
della
sicurezza
collettiva,
messe
a
rischio
da
simili
reati.
Analoga
generalizzazione
sarebbe,
per
converso,
impraticabile
in
rapporto
al
delitto
previsto
dall’art.
74
del
d.P.R.
n.
309
del
1990,
il
cui
paradigma
coprirebbe
situazioni
che
incidono
in
misura
sensibilmente
differenziata
sul
bene
protetto
(l’ordine
pubblico)
e
che,
sotto
il
profilo
cautelare,
potrebbero
essere
fronteggiate
anche
con
misure
diverse
dalla
custodia
in
carcere,
tenuto
conto
di
plurimi
elementi,
anche
sopravvenuti
rispetto
all’applicazione
della
misura:
quali,
ad
esempio,
l’allentarsi
dei
legami
tra
gli
associati
a
seguito
di
prolungate
detenzioni
o
il
superamento
dello
stato
personale
di
tossicodipendenza,
che
spesso
favorisce
la
creazione
di
gruppi
criminali
dediti
allo
spaccio.
Accadimenti,
questi,
viceversa
non
ipotizzabili
in
relazione
ai
delitti
di
mafia,
i
quali
presupporrebbero,
nella
generalità
dei
casi,
un
patto
inscindibile
tra
gli
associati
che
resiste
alle
vicende
giudiziarie,
traducendosi
in
una
«radicale
scelta
di
vita
alternativa
alla
legalità».
Una
regola
generalizzata
di
esperienza
che
giustifichi
la
presunzione
sancita
dall’art.
275,
comma
3,
cod.
proc.
pen.,
con
riferimento
al
delitto
che
interessa,
non
potrebbe
essere
ricavata
neppure
dal
suo
carattere
di
reato
associativo,
che
lo
accomuna
a
quello
previsto
dall’art.
416-‐bis
del
codice
penale.
Diversamente,
non
si
spiegherebbe
l’esclusione
dal
novero
dei
reati
soggetti
al
regime
cautelare
speciale,
in
base
alla
novella
legislativa
del
2009,
dei
reati
associativi
comuni
(fatta
eccezione
per
l’ipotesi
prevista
dal
sesto
comma
dell’art.
416
cod.
pen.).
La
presunzione
in
questione
non
potrebbe
trovare
fondamento,
da
ultimo,
neanche
nella
natura
dei
reati-‐scopo
dell’associazione
e
nella
tutela
particolarmente
rigorosa
accordata
dal
legislatore
al
bene
della
salute
pubblica
nei
confronti
del
fenomeno
dello
spaccio
di
stupefacenti.
Come
già
rimarcato,
infatti,
dalla
sentenza
n.
265
del
2010,
la
gravità
astratta
del
reato,
desunta
dalla
misura
della
pena
o
dalla
natura
dell’interesse
tutelato,
non
può
legittimare
una
preclusione
alla
verifica
giudiziale
del
grado
delle
esigenze
cautelari
e
all’individuazione
della
misura
più
idonea
a
fronteggiarle,
rilevando
solo
ai
fini
della
commisurazione
della
sanzione.
Alla
luce
di
tali
rilievi,
la
norma
censurata,
nella
parte
in
cui
estende
la
presunzione
di
adeguatezza
della
sola
custodia
cautelare
carceraria
al
delitto
di
cui
all’art.
74
del
d.P.R.
n.
309
del
1990,
violerebbe
l’art.
3
Cost.,
sottoponendo
ad
un
eguale
trattamento
situazioni
differenti
tra
loro,
senza
che
vi
siano
fondate
ragioni
per
impedire
la
«piena
individualizzazione»
della
coercizione
cautelare.
La
medesima
disposizione
si
porrebbe,
altresì,
in
contrasto
con
il
principio
di
inviolabilità
della
libertà
personale,
sancito
dall’art.
13,
primo
comma,
Cost.,
imponendo
il
massimo
sacrificio
di
tale
bene
primario
all’esito
di
un
giudizio
di
bilanciamento
non
corretto,
in
quanto
non
rispettoso
del
principio
di
ragionevolezza.
Essa
lederebbe,
infine,
la
presunzione
di
non
colpevolezza,
prevista
dall’art.
27,
secondo
comma,
Cost.,
affidando
al
regime
cautelare
funzioni
proprie
della
pena,
la
cui
applicazione
presuppone
un
giudizio
definitivo
di
responsabilità.
2.
–
È
intervenuto
nel
giudizio
di
legittimità
costituzionale
il
Presidente
del
Consiglio
dei
ministri,
rappresentato
e
difeso
dall’Avvocatura
generale
dello
Stato,
chiedendo
che
la
questione
sia
dichiarata
non
fondata.
La
difesa
dello
Stato
ricorda
come
questa
Corte
abbia
affermato
–
in
particolare,
con
l’ordinanza
n.
450
del
1995
–
che
mentre
l’apprezzamento
delle
esigenze
cautelari
deve
essere
lasciato
al
giudice,
la
scelta
della
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