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avevano,
infatti,
in
vario
modo
valorizzato
la
specificità
dei
predetti
delitti,
la
cui
connotazione
strutturale
astratta
(come
reati
associativi
entro
un
contesto
di
criminalità
organizzata
di
tipo
mafioso,
o
come
reati
a
questo
comunque
collegati)
valeva
a
rendere
«ragionevoli»
le
presunzioni
in
questione,
e
segnatamente
quella
di
adeguatezza
della
sola
custodia
carceraria:
trattandosi,
in
sostanza,
della
misura
più
idonea
a
neutralizzare
il
periculum
libertatis
connesso
al
verosimile
protrarsi
dei
contatti
tra
imputato
e
associazione.
Con
l’intervento
novellistico
del
2009
(art.
2,
comma
1,
lettere
a
e
a-‐bis,
del
decreto-‐legge
n.
11
del
2009,
convertito,
con
modificazioni,
dalla
legge
n.
38
del
2009),
il
legislatore
ha
compiuto
«un
“salto
di
qualità”
a
ritroso»,
riespandendo
l’ambito
di
applicazione
della
disciplina
eccezionale
a
numerose
altre
fattispecie
penali,
in
larga
misura
eterogenee
fra
loro
quanto
a
oggettività
giuridica
(fatta
eccezione
per
i
delitti
“a
sfondo
sessuale”),
struttura
e
trattamento
sanzionatorio.
3.2.
–
Ciò
posto,
questa
Corte,
nelle
citate
sentenze
n.
265
del
2010
e
n.
164
del
2011,
ha
ricordato
che
«le
presunzioni
assolute,
specie
quando
limitano
un
diritto
fondamentale
della
persona,
violano
il
principio
di
eguaglianza,
se
sono
arbitrarie
e
irrazionali,
cioè
se
non
rispondono
a
dati
di
esperienza
generalizzati,
riassunti
nella
formula
dell’id
quod
plerumque
accidit.
In
particolare,
l’irragionevolezza
della
presunzione
assoluta
si
coglie
tutte
le
volte
in
cui
sia
“agevole”
formulare
ipotesi
di
accadimenti
reali
contrari
alla
generalizzazione
posta
a
base
della
presunzione
stessa
(sentenza
n.
139
del
2010)».
Sotto
tale
profitto,
né
ai
delitti
a
sfondo
sessuale
dianzi
indicati
(sentenza
n.
265
del
2010)
né
al
delitto
di
omicidio
volontario
(sentenza
n.
164
del
2011)
poteva
estendersi
la
ratio
giustificativa
del
regime
derogatorio
già
ravvisata
in
rapporto
ai
delitti
di
mafia:
ossia
che
dalla
struttura
stessa
della
fattispecie
e
dalle
sue
connotazioni
criminologiche
–
legate
alla
circostanza
che
l’appartenenza
ad
associazioni
di
tipo
mafioso
implica
un’adesione
permanente
ad
un
sodalizio
criminoso
di
norma
fortemente
radicato
nel
territorio,
caratterizzato
da
una
fitta
rete
di
collegamenti
personali
e
dotato
di
particolare
forza
intimidatrice
–
deriva,
nella
generalità
dei
casi
e
secondo
una
regola
di
esperienza
sufficientemente
condivisa,
una
esigenza
cautelare
alla
cui
soddisfazione
sarebbe
adeguata
solo
la
custodia
in
carcere
(non
essendo
le
misure
“minori”
sufficienti
a
troncare
i
rapporti
tra
l’indiziato
e
l’ambito
delinquenziale
di
appartenenza,
neutralizzandone
la
pericolosità).
Pur
nella
loro
indubbia
gravità
e
riprovevolezza
–
la
quale
peserà
opportunamente
nella
determinazione
della
pena
inflitta
all’autore,
quando
ne
sia
riconosciuta
in
via
definitiva
la
colpevolezza
–
i
delitti
in
discorso
possono
essere,
e
spesso
sono,
fatti
meramente
individuali,
che
trovano
la
loro
matrice
in
pulsioni
occasionali
o
passionali,
ovvero
in
situazioni
maturate
nell’ambito
di
specifici
contesti
(familiare,
scolastico,
dei
rapporti
socio-‐economici,
e
così
via
dicendo).
Di
conseguenza,
in
un
numero
tutt’altro
che
marginale
di
casi,
le
esigenze
cautelari
–
pur
non
potendo
essere
completamente
escluse
–
sarebbero
suscettibili
di
trovare
idonea
risposta
anche
in
misure
diverse
da
quella
carceraria,
che
valgano
a
neutralizzare
il
“fattore
scatenante”
o
ad
impedirne
la
riproposizione.
E
così,
anzitutto,
quanto
ai
fatti
legati
a
particolari
contesti,
tramite
misure
che
valgano
comunque
ad
operare
una
forzosa
separazione
da
questi
dell’imputato
o
dell’indagato:
arresti
domiciliari
in
luogo
diverso
dall’abitazione
(art.
284
cod.
proc.
pen.),
eventualmente
accompagnati
da
particolari
strumenti
di
controllo
(quale
il
cosiddetto
braccialetto
elettronico:
art.
275-‐ bis);
obbligo
o
divieto
di
dimora
o
anche
solo
di
accesso
in
determinati
luoghi
(art.
283);
allontanamento
dalla
casa
familiare
(art.
282-‐ bis).
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