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come
quello
in
cui
il
vincolo
associativo
esprime
una
forza
di
intimidazione
e
condizioni
di
assoggettamento
e
di
omertà,
che
da
quella
derivano,
per
conseguire
determinati
fini
illeciti.
Caratteristica
essenziale
è
proprio
tale
specificità
del
vincolo,
che,
sul
piano
concreto,
implica
ed
è
suscettibile
di
produrre,
da
un
lato,
una
solida
e
permanente
adesione
tra
gli
associati,
una
rigida
organizzazione
gerarchica,
una
rete
di
collegamenti
e
un
radicamento
territoriale
e,
dall’altro,
una
diffusività
dei
risultati
illeciti,
a
sua
volta
produttiva
di
accrescimento
della
forza
intimidatrice
del
sodalizio
criminoso.
Sono
tali
peculiari
connotazioni
a
fornire
una
congrua
“base
statistica”
alla
presunzione
considerata,
rendendo
ragionevole
la
convinzione
che,
nella
generalità
dei
casi,
le
esigenze
cautelari
derivanti
dal
delitto
in
questione
non
possano
venire
adeguatamente
fronteggiate
se
non
con
la
misura
carceraria,
in
quanto
idonea
–
per
valersi
delle
parole
della
Corte
europea
dei
diritti
dell’uomo
–
«a
tagliare
i
legami
esistenti
tra
le
persone
interessate
e
il
loro
ambito
criminale
di
origine»,
minimizzando
«il
rischio
che
esse
mantengano
contatti
personali
con
le
strutture
delle
organizzazioni
criminali
e
possano
commettere
nel
frattempo
delitti»
(sentenza
6
novembre
2003,
Pantano
contro
Italia).
Altrettanto
non
può
dirsi
per
il
delitto
di
associazione
finalizzata
al
traffico
illecito
di
sostanze
stupefacenti
o
psicotrope.
Quest’ultimo
si
concreta,
infatti,
in
una
forma
speciale
del
delitto
di
associazione
per
delinquere,
qualificata
unicamente
dalla
natura
dei
reati-‐fine
(i
delitti
previsti
dall’art.
73
del
d.P.R.
n.
309
del
1990).
Per
consolidata
giurisprudenza,
essa
non
postula
necessariamente
la
creazione
di
una
struttura
complessa
e
gerarchicamente
ordinata,
essendo
viceversa
sufficiente
una
qualunque
organizzazione,
anche
rudimentale,
di
attività
personali
e
di
mezzi
economici,
benché
semplici
ed
elementari,
per
il
perseguimento
del
fine
comune.
Il
delitto
in
questione
prescinde,
altresì,
da
radicamenti
sul
territorio,
da
particolari
collegamenti
personali
e
soprattutto
da
qualsivoglia
specifica
connotazione
del
vincolo
associativo,
tanto
che,
ove
questo
in
concreto
si
presentasse
con
le
caratteristiche
del
vincolo
mafioso,
il
reato
ben
potrebbe
concorrere
con
quello
dell’art.
416-‐bis
cod.
pen.
(come
già
ritenuto
dalle
Sezioni
unite
della
Corte
di
cassazione:
sentenza
25
settembre
2008-‐13
gennaio
2009,
n.
1149).
Si
tratta,
dunque,
di
fattispecie,
per
così
dire,
“aperta”,
che,
descrivendo
in
definitiva
solo
lo
scopo
dell’associazione
e
non
anche
specifiche
qualità
di
essa,
si
presta
a
qualificare
penalmente
fatti
e
situazioni
in
concreto
i
più
diversi
ed
eterogenei:
da
un
sodalizio
transnazionale,
forte
di
una
articolata
organizzazione,
di
ingenti
risorse
finanziarie
e
rigidamente
strutturato,
al
piccolo
gruppo,
talora
persino
ristretto
ad
un
ambito
familiare
–
come
nel
caso
oggetto
del
giudizio
a
quo
–
operante
in
un’area
limitata
e
con
i
più
modesti
e
semplici
mezzi.
Proprio
per
l’eterogeneità
delle
fattispecie
concrete
riferibili
al
paradigma
punitivo
astratto,
ricomprendenti
ipotesi
nettamente
differenti
quanto
a
contesto,
modalità
lesive
del
bene
protetto
e
intensità
del
legame
tra
gli
associati,
non
è
dunque
possibile
enucleare
una
regola
di
esperienza,
ricollegabile
ragionevolmente
a
tutte
le
«connotazioni
criminologiche»
del
fenomeno,
secondo
la
quale
la
custodia
carceraria
sarebbe
l’unico
strumento
idoneo
a
fronteggiare
le
esigenze
cautelari.
In
un
significativo
numero
di
casi,
al
contrario,
queste
ultime
potrebbero
trovare
risposta
in
misure
diverse
e
meno
afflittive,
che
valgano
comunque
ad
assicurare
–
nei
termini
in
precedenza
evidenziati
–
la
separazione
dell’indiziato
dal
contesto
delinquenziale
e
ad
impedire
la
reiterazione
del
reato.
4.2.
–
Né
può
considerarsi
significativa,
in
senso
contrario,
la
circostanza
che
la
fattispecie
associativa
prevista
dall’art.
74
del
d.P.R.
n.
309
del
1990
risulti
accomunata
all’associazione
di
tipo
mafioso
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