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collegamenti
e
un
radicamento
territoriale
e,
dall’altro,
una
diffusività
dei
risultati
illeciti,
a
sua
volta
produttiva
di
accrescimento
della
forza
intimidatrice
del
sodalizio
criminoso»
(sentenza
n.
231
del
2011).
Connotazioni
analoghe
non
caratterizzano
le
figure
criminose
che
hanno
formato
oggetto
delle
diverse
pronunce
di
illegittimità
costituzionale
già
ricordate
e
che
abbracciano
fatti
marcatamente
eterogenei
tra
loro
e
suscettibili
di
proporre,
in
un
numero
non
marginale
di
casi,
esigenze
cautelari
adeguatamente
fronteggiabili
con
misure
diverse
e
meno
afflittive
di
quella
carceraria.
È
per
questa
ragione
che
l’art.
275,
comma
3,
cod.
proc.
pen.
(così
come
l’art.
12,
comma
4-‐ bis,
del
d.lgs.
n.
286
del
1998),
nella
parte
in
cui
si
riferiva
a
tali
figure,
è
stato
ritenuto
in
contrasto
con
gli
artt.
3,
13,
primo
comma,
e
27,
secondo
comma,
Cost.
Il
contrasto
però
non
è
risultato
tale
da
far
cadere
completamente
la
presunzione
di
adeguatezza
della
custodia
in
carcere,
ma
ne
ha
determinato
la
trasformazione
da
assoluta
in
relativa,
rendendola
superabile
attraverso
l’acquisizione
di
«elementi
specifici,
in
relazione
al
caso
concreto,
dai
quali
risulti
che
le
esigenze
cautelari
possono
essere
soddisfatte
con
altre
misure»
(sentenze
n.
110
del
2012;
n.
331,
n.
231
e
n.
164
del
2011;
n.
265
del
2010).
5.–
Alle
indicazioni
offerte
dalle
parziali
declaratorie
di
illegittimità
costituzionale
dell’art.
275,
comma
3,
cod.
proc.
pen.
si
sono
ricollegati
i
giudici
rimettenti
nel
censurare
il
regime
di
presunzione
assoluta
relativo
ai
delitti
commessi
avvalendosi
del
cosiddetto
“metodo
mafioso”
e
ai
delitti
commessi
al
fine
di
agevolare
le
attività
delle
associazioni
previste
dall’art.
416-‐bis
cod.
pen.
La
prospettazione
delle
censure
è,
inoltre,
argomentata
sulla
base
degli
indirizzi
formatisi
nella
giurisprudenza
comune
a
proposito
dell’art.
7
del
decreto-‐legge
n.
152
del
1991,
convertito,
con
modificazioni,
dalla
legge
n.
203
del
1991,
che
configura
come
circostanze
aggravanti
le
medesime
fattispecie
cui
l’art.
5
dello
stesso
decreto-‐ legge
n.
152
del
1991
ha
ricollegato
la
presunzione
di
adeguatezza
della
sola
custodia
cautelare
in
carcere.
In
linea
con
questa
impostazione,
particolarmente
significative,
ai
fini
dello
scrutinio
delle
questioni
in
esame,
risultano
due
indicazioni
offerte
dagli
orientamenti
della
giurisprudenza
comune.
Per
un
verso,
infatti,
la
giurisprudenza
di
legittimità
ha
fatto
riferimento,
nell’individuazione
della
ratio
dell’art.
7,
a
un
intento
legislativo
«teso
a
colpire
qualsiasi
manifestazione
di
attività
mafiosa,
dalla
partecipazione
all’associazione,
al
favoreggiamento
ed
al
semplice
impiego
di
metodo
mafioso
o
di
isolata
e
minima
agevolazione»
(sentenza
della
Corte
di
cassazione,
sezioni
unite
penali,
28
marzo
2001,
n.
10);
per
altro
verso,
è
consolidato
l’indirizzo
secondo
cui
la
circostanza
aggravante
in
esame,
in
entrambe
le
forme
in
cui
può
atteggiarsi,
«è
applicabile
a
tutti
coloro
che,
in
concreto,
ne
realizzano
gli
estremi»,
sia
che
essi
siano
«partecipi
di
un
sodalizio
di
stampo
mafioso
sia
che
risultino
ad
esso
estranei»
(sentenza
della
Corte
di
cassazione,
sezione
prima
penale,
2
aprile
2012,
n.
17532).
6.–
Le
indicazioni
della
giurisprudenza
comune
appena
richiamate
mettono
in
luce
come
la
presunzione
assoluta
sulla
quale
fa
leva
il
regime
cautelare
speciale
non
risponda,
con
riferimento
ai
delitti
commessi
avvalendosi
delle
condizioni
previste
dall’art.
416-‐bis
cod.
pen.
o
al
fine
di
agevolare
le
attività
delle
associazioni
previste
dallo
stesso
articolo,
a
dati
di
esperienza
generalizzati,
essendo
“agevole”
formulare
ipotesi
di
accadimenti
reali
contrari
alla
generalizzazione
posta
a
base
della
presunzione
stessa.
Infatti,
la
possibile
estraneità
dell’autore
di
tali
delitti
a
un’associazione
di
tipo
mafioso
fa
escludere
che
si
sia
sempre
in
presenza
di
un
«reato
che
implichi
o
presupponga
necessariamente
un
vincolo
di
appartenenza
permanente
a
un
sodalizio
criminoso
con
accentuate
caratteristiche
di
pericolosità
–
per
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