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radicamento
nel
territorio,
intensità
dei
collegamenti
personali
e
forza
intimidatrice
–
vincolo
che
solo
la
misura
più
severa
risulterebbe,
nella
generalità
dei
casi,
in
grado
di
interrompere»
(sentenza
n.
164
del
2011).
Se,
come
si
è
visto,
la
congrua
“base
statistica”
della
presunzione
in
questione
è
collegata
all’«appartenenza
ad
associazioni
di
tipo
mafioso»
(sentenza
n.
265
del
2010),
una
fattispecie
che,
anche
se
collocata
in
un
contesto
mafioso,
non
presupponga
necessariamente
siffatta
“appartenenza”
non
assicura
alla
presunzione
assoluta
di
adeguatezza
della
custodia
cautelare
in
carcere
un
fondamento
giustificativo
costituzionalmente
valido.
Il
semplice
impiego
del
cosiddetto
“metodo
mafioso”
o
la
finalizzazione
della
condotta
criminosa
all’agevolazione
di
un’associazione
mafiosa
(la
quale,
secondo
la
giurisprudenza
di
legittimità,
«non
richiede
anche
che
il
fine
particolare,
perseguito
con
la
commissione
del
delitto,
debba
in
qualche
modo
essere
realizzato»:
sentenza
della
Corte
di
cassazione,
sezione
sesta
penale,
19
settembre
1996,
n.
9691)
non
sono
necessariamente
equiparabili,
ai
fini
della
presunzione
in
questione,
alla
partecipazione
all’associazione,
ed
è
a
questa
partecipazione
che
è
collegato
il
dato
empirico,
ripetutamente
constatato,
della
inidoneità
del
processo,
e
delle
stesse
misure
cautelari,
a
recidere
il
vincolo
associativo
e
a
far
venir
meno
la
connessa
attività
collaborativa,
sicché,
una
volta
riconosciuta
la
perdurante
pericolosità
dell’indagato
o
dell’imputato
del
delitto
previsto
dall’art.
416-‐bis
cod.
pen.,
è
legittimo
presumere
che
solo
la
custodia
in
carcere
sia
idonea
a
contrastarla
efficacemente.
Né
in
senso
contrario
può
ritenersi,
come
sostiene
l’Avvocatura
dello
Stato,
che
la
mera
evocazione
di
un’associazione
criminale,
reale
o
supposta,
al
fine
di
accrescere
la
portata
intimidatoria
della
condotta,
renda
costituzionalmente
legittima
la
scelta
legislativa
della
misura
cautelare
carceraria:
tale
evocazione,
infatti,
si
riflette
sulla
gravità
del
fatto-‐reato
e,
coerentemente,
integra
la
fattispecie
circostanziale
prevista
dall’art.
7
del
decreto-‐legge
n.
152
del
1991,
ma,
per
quanto
concerne
l’adeguatezza
della
misura
cautelare,
non
può
essere
equiparata
alla
commissione
di
un
«reato
che
implichi
o
presupponga
necessariamente
un
vincolo
di
appartenenza
permanente
a
un
sodalizio
criminoso
con
accentuate
caratteristiche
di
pericolosità»
(sentenza
n.
164
del
2011).
Sotto
un
altro
aspetto
–
e
con
particolare
riferimento
ai
delitti
commessi
al
fine
di
agevolare
le
attività
delle
associazioni
previste
dall’art.
416-‐bis
cod.
pen.
–
deve
osservarsi
che,
mentre
le
declaratorie
di
parziale
illegittimità
costituzionale
dell’art.
275,
comma
3,
cod.
proc.
pen.
già
pronunciate
hanno
investito
la
presunzione
de
qua
con
riguardo
a
singole
fattispecie
criminose,
la
disciplina
oggi
censurata
è
applicabile,
per
riprendere
l’espressione
della
difesa
dell’imputato
in
uno
dei
giudizi
principali,
con
riferimento
a
«qualsiasi
delitto,
anche
della
più
modesta
entità»,
purché
connotato
dalla
finalità
di
“agevolazione
mafiosa”
(o
dalla
realizzazione
mediante
il
“metodo
mafioso”).
In
altri
termini,
il
regime
cautelare
speciale
è
collegato,
nei
casi
in
esame,
non
già
a
singole
fattispecie
incriminatrici,
in
rapporto
alle
quali
possa
valutarsi
l’adeguatezza
della
custodia
cautelare
in
carcere,
ma
a
circostanze
aggravanti,
riferibili
a
più
vari
reati
e
correlativamente
alle
più
diverse
situazioni
oggettive
e
soggettive.
Oltre
a
mettere
in
luce
le
ricadute
della
disciplina
in
esame
sul
criterio
di
proporzionalità,
secondo
il
quale
«ogni
misura
deve
essere
proporzionata
all’entità
del
fatto
e
alla
sanzione
che
sia
stata
o
si
ritiene
possa
essere
irrogata»
(art.
275,
comma
2,
cod.
proc.
pen.),
l’ampio
numero
dei
reati-‐base
suscettibili
di
rientrare
nell’ambito
di
applicazione
del
regime
cautelare
speciale
segnala
la
possibile
diversità
del
“significato”
di
ciascuno
di
essi
sul
piano
dei
pericula
libertatis,
il
che
offre
un’ulteriore
conferma
dell’insussistenza
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