:: UTILITÀ - PROTEZIONE DEI DATI PERSONALI
Corte di cassazione e tutela della privacy: l'oscuramento dei dati identificativi nelle sentenze
Sommario:
1. La questione:
pubblicità della sentenza e tutela della privacy.
2. Sguardo
retrospettivo: la disciplina anteriore al Codice di protezione dei dati
personali.
3. In generale, i
trattamenti per ragioni di giustizia nel d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196.
4. L'anonimizzazione
dei dati identificativi degli interessati nel Codice sulla privacy.
5. Modalità e
ambito di protezione dei dati sensibili. In particolare, i rapporti
con la libertà di stampa.
1. La questione: pubblicità della sentenza e tutela della privacy.
La
presente relazione affronta la questione dei limiti e delle modalità di
anonimizzazione dei dati identificativi degli interessati nelle sentenze e negli
altri provvedimenti giurisdizionali di ogni ordine e grado, ai sensi dell'art.
52 del d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196 (Codice in materia di protezione dei dati
personali; d'ora in poi, Codice).
Il tema da collocare, per ragioni sistematiche e ricostruttive, nel più ampio
contesto del trattamento dei dati personali per ragioni di giustizia investe
un aspetto centrale della disciplina del Codice, nel quale sono coinvolti
aspetti che si pongono in rapporto dialettico: la pubblicità delle sentenze e
il rispetto della sfera privata di chi vi ha preso parte.
Da una parte vi sono l'interesse e l'esigenza della pubblicità, intesa come
dimensione coessenziale del processo. La pubblicità è momento ineliminabile
del fair trial, rappresentando sia un "elemento organizzativo delle
attività processuali" a garanzia degli interessi fondamentali degli
interessati, sia un "elemento di controllo esterno sull'operato delle
corti a tutela di interessi di carattere meta-individuale, come la trasparenza e
l'imparzialità delle procedure giudiziarie".
Accanto all'interesse dei terzi a conoscere e controllare le modalità di
amministrazione della giustizia vi è il diritto alla privacy, posto a
presidio della intimità, della riservatezza, dell'identità e della dignità
della persona. Tuttavia questo diritto che pure non si consuma una volta
che, con il processo, il soggetto ha fatto ingresso nella sfera pubblica non
si traduce nè si risolve in una difesa ad oltranza della sfera privata, tale da
renderla segreta ed inaccessibile a terzi (right to be let alone);
piuttosto, sollecita un'esigenza di bilanciamento con le esigenze di massima
trasparenza che contraddistinguono il fenomeno processuale.
2. Sguardo retrospettivo: la disciplina anteriore al Codice di protezione
dei dati personali.
La legge 31
dicembre 1996 n. 675 (Tutela delle persone e di altri soggetti rispetto al
trattamento dei dati personali) non conteneva una disciplina ad hoc sul
trattamento dei dati personali in ambito giudiziario.
Infatti l'art. 4, relativo ai "particolari trattamenti in ambito pubblico",
stabiliva soltanto, con riferimento ai trattamenti del servizio del casellario
giudiziale, a quelli di cui all'art. 371-bis, comma 3, cod. proc. pen.
o attuati, "per ragioni di giustizia", nell'ambito di uffici
giudiziari, del Consiglio superiore della magistratura e del Ministero della
giustizia, una limitata applicabilità delle disposizioni della stessa legge.
Tra queste, si ponevano le norme sulla notificazione (art. 7), sulla modalità
di raccolta e sui requisiti dei dati personali (art. 9), in tema di sicurezza
(art. 15), su alcuni limiti di utilizzabilità dei dati (art. 17), in tema di
responsabilità per danni (art. 18), sui compiti e su alcune modalità di
accertamento del Garante (artt. 31, 32, commi 6 e 7), sulle sanzioni e sui reati
(art. 34).
La legge non conteneva tuttavia una definizione dell'espressione "per
ragioni di giustizia", sicchè si era posta in termini controversi la
questione se la suddetta disciplina riguardasse anche i trattamenti effettuati
dalla magistratura nell'esercizio della funzione giudiziaria.
In senso affermativo si è più volte espresso il Garante. Pur dando atto che il
trattamento di dati per finalità investigative e giudiziarie non era
disciplinato dalla legge con sufficiente chiarezza, il Garante aveva ritenuto
applicabili all'attività della polizia giudiziaria, svolta sotto la direzione
del pubblico ministero, i principi previsti per i trattamenti per ragioni di
giustizia ed in particolare quelli, di cui all'art. 9 della legge n. 675 del
1996, di "pertinenza" e di "non eccedenza" delle
informazioni trattate rispetto alle finalità lecitamente perseguite, con la
conseguenza, tra l'altro, che "il materiale informativo da acquisire nel
procedimento penale dovesse essere selezionato in base alla necessità di
assumere dati, informazioni e notizie necessari per la prevenzione,
l'accertamento e la repressione dei reati". Ciò sul rilievo che la
citata legge, non pregiudicando tali finalità, rendeva "necessario operare
in un quadro di maggiore attenzione per i diritti della personalità tutelati
dalla legge stessa", ed imponeva di "non arrecare pregiudizi
ingiustificati alle persone, specie qualora si tratti di terzi estranei alle
vicende giudiziarie". In particolare, il deposito degli atti di indagine,
ad avviso del Garante, poteva rappresentare un fattore in grado di esporre a
gravi pregiudizi i terzi estranei al processo, considerata anche la facilità
con cui atti di questa natura potevano divenire successivamente oggetto di
facile diffusione.
Lo stesso Garante, nel chiarire che tra le disposizioni non abrogate dalla legge n.
675 del 1996 rientravano anche le norme del codice di procedura penale e le
altre norme processuali vigenti relative alla conoscibilità del calendario dei
processi, della pubblicità delle udienze e degli esiti dei giudizi, nonchè
quelle concernenti l'accesso ai registri giudiziari e l'estrazione di copia
di atti processuali, precisava che le attività degli uffici volte al rilascio
di copie di atti o alla consultazione dei registri relativi ai procedimenti
giudiziari si ponevano tra le attività svolte "per ragioni di
giustizia" e ribadiva l'obbligo anche per il trattamento di dati da parte
degli uffici giudiziari dell'osservanza del principio di "pertinenza".
Sempre con riferimento ai trattamenti di cui al citato art. 4, il Garante ha preso in
considerazione le censure mosse da un ricorrente in ordine alla comunicazione da
parte dell'autorità giudiziaria di dati personali, acquisiti attraverso
intercettazioni telefoniche (nella fattispecie, relativa all'autorizzazione
concessa dal pubblico ministero alla polizia di sicurezza per l'uso della
suddetta documentazione a scopi disciplinari, il Garante ha ritenuto che
l'art. 270, comma 1, cod. proc. pen., prevedendo una limitazione all'uso dei
risultati delle intercettazioni telefoniche in altri procedimenti penali
disciplinati dal codice di rito, non precluderebbe in linea generale
l'utilizzazione dei medesimi risultati se lecitamente acquisiti in
base al codice in procedimenti diversi da quello penale, come quello di tipo
disciplinare).
Il Garante ha inoltre ritenuto che rientrasse nell'ambito dei trattamenti per
ragioni di giustizia la divulgazione di un dato riguardante la salute di una
persona avvenuta a seguito del deposito agli atti in un procedimento giudiziario
di un verbale di sommarie informazioni assunte ex art. 351 cod. proc. pen.
nell'ambito di indagini di polizia giudiziaria (nella specie il ricorrente
aveva chiesto, tra l'altro, l'eliminazione dall'incarto processuale
dell'intero atto contenente informazioni personali relative al proprio stato
di salute, ovvero una rettifica del medesimo atto mediante l'eliminazione
dell'informazione in questione).
Muovendo da una problematica sorta con il riferimento ad un processo civile per il
risarcimento dei danni subiti da persone affette da HIV contratta a seguito
della somministrazione di emoderivati infetti, il Garante, oltre a richiamare i
principi di correttezza, pertinenza e sicurezza nel trattamento dei dati, aveva
segnalato al Governo e al Parlamento l'opportunità di introdurre alcune norme
di raccordo in materia, per meglio contemperare le esigenze processuali di
accertamento pieno e trasparente dei fatti e delle connesse responsabilità con
l'altrettanto importante esigenza di garantire, con ogni mezzo possibile,
"la riservatezza dei soggetti coinvolti in alcune vicende giudiziarie,
nelle quali siano esposti ad ulteriore rischio aspetti particolarmente delicati
della persona". A tal fine, il Garante aveva richiamato quanto previsto dal
legislatore con l'art. 13, comma 5, della legge 23 febbraio 1999, n. 44, con
il quale era stato consentito al pubblico ministero di adottare "le
necessarie cautele per assicurare la riservatezza dell'identità" delle
vittime degli atti estorsivi o di usura che abbiano denunciato i fatti di reato
per cui si procede, in ragione delle comprensibili ripercussioni che la
diffusione delle generalità potrebbe avere sulla loro incolumità, a causa di
prevedibili azioni di ritorsione.
Per quanto riguarda la posizione assunta dalla giurisprudenza di legittimità, è da
segnalare Cass. pen., Sez. II, 23 marzo-30 aprile 1999, n. 1480, ric. Ferrari,
rv. 213307, secondo cui i limiti derivanti dalla legge n. 675 del 1996 non
possono porsi per l'autorità giudiziaria che indaga in ordine a fatti
penalmente rilevanti, alla luce sia dei principi generali del diritto
processuale penale, sia dell'art. 27, comma 1, della legge ora citata, che
stabilisce che il trattamento di dati personali da parte di soggetti pubblici è
consentito per lo svolgimento delle funzioni istituzionali, ed infine del
contenuto del comma 4 dell'art. 22. Quest'ultima norma, nel disporre che i
dati sensibili possono essere utilizzati con l'autorizzazione del Garante, ma
senza il consenso dell'interessato, "qualora il trattamento sia
necessario ai fini dello svolgimento delle investigazioni di cui all'art. 38
disp. att. cod. proc. pen.", dimostrerebbe in maniera inequivocabile, ad
avviso della S.C., che per il pubblico ministero non sono posti limiti di sorta
in materia. In tema di riconoscimento della paternità, la Corte ha affermato
inoltre che non è configurabile nel sistema "alcun potere di controllo o
di indirizzo dell'Autorità garante sulle modalità di esercizio della
giurisdizione" (Cass. civ., Sez. I., 7 novembre 2001, n. 13766, rv. 550059:
nella specie, il ricorrente si era rifiutato di sottoporsi alla prova del DNA
per ragioni di riservatezza).
La dottrina aveva prevalentemente seguito quest'ultimo indirizzo. In particolare,
era stato sostenuto che la generica espressione "ragioni di
giustizia", oltre ad essere associata dalla norma a strutture
amministrative (quali il Ministero o il CSM), doveva essere ricollegata, con
riferimento al termine "uffici giudiziari" (e quindi non a
"magistrati, giudici, autorità giudiziaria"), "a quelle
attività amministrative o burocratiche, che, per essere strettamente connesse
alla funzione giudiziaria, presentavano un nucleo caratteristico e
differenziatore rispetto ai trattamenti propriamente amministrativi, soggetti
alla disciplina generale di cui alla legge n. 675 del 1996". Doveva
trattarsi in altri termini di tutte le attività amministrative effettuate
dall'amministrazione della giustizia per finalità strettamente collegate con
la funzione giudiziaria, mediante l'utilizzazione di dati personali
particolari (acquisiti in occasioni di processi), con esclusione delle attività
relative a personale, mezzi e strutture dell'Amministrazione della giustizia
(le quali ricadevano nel più generale ambito della disciplina dei trattamenti
svolti dalla pubblica amministrazione). A tale soluzione, con riferimento allo
specifico tema del controllo del Garante sull'attività giurisdizionale, la
dottrina era anche pervenuta sulla base di ragioni di carattere costituzionale e
di razionalità del sistema processuale.
Nelle
incertezze sull'ambito di applicazione dell'art. 4 cit., si era posta la
questione della collocazione tra i trattamenti per ragioni di giustizia di
quello relativo al CED della Corte di cassazione e degli altri archivi di
informatica giuridica, non contemplati dalla legge n. 675 del 1996, con
conseguenti ricadute sulla disciplina ad essi applicabile.
La
normativa invero prevedeva in linea generale la legittimità del trattamento di
dati personali idonei a rivelare i provvedimenti di cui all'articolo 686 commi
1, lettere a) e d), 2 e 3 cod. proc. pen., attuato al di fuori dell'ambito
delineato dall'art. 4 cit., soltanto se autorizzato da espressa disposizione
di legge o provvedimento del Garante che specifichino le rilevanti finalità di
interesse pubblico del trattamento, i tipi di dati trattati e le precise
operazioni autorizzate (art. 24). La norma consentiva il trattamento di tali
dati, se autorizzato, anche da parte di soggetti privati.
Stante
il limitato campo di applicazione di tale norma, era stata poi inserita, con la
novella di cui all'art. 9 del d.lg. 28 dicembre 2001, n. 467, la disposizione
(art. 24-bis) con la quale si specificava che il trattamento di dati
suscettibile di arrecare rischi specifici per i diritti e le libertà
fondamentali, nonchè per la dignità dell'interessato, in relazione alla
natura dei dati o alle modalità del trattamento o agli effetti derivanti, era
ammesso "nel rispetto di misure ed accorgimenti a garanzia
dell'interessato", ove prescritti dal Garante sulla base dei principi
sanciti dalla legge nell'ambito di una verifica preliminare all'inizio del
trattamento, effettuata anche in relazione a determinate categorie di titolari o
di trattamenti, sulla base di un eventuale interpello del titolare.
Tra
le autorizzazioni di tipo generale rilasciate dal Garante ai sensi dell'art.
24 si poneva quella per la documentazione giuridica (n. 7 del 2000), diretta a
favorire la prosecuzione dell'attività di documentazione, studio e ricerca in
campo giuridico, in particolare per la diffusione di dati relativi a precedenti
giurisprudenziali, in ragione anche dell'affinità di tali attività con
quelle di manifestazione del pensiero già disciplinate dagli articoli 12, 20 e
25 della legge n. 675 del 1996. La suddetta autorizzazione richiamava
peraltro il rispetto ad un uso dei dati trattati in linea con le finalità
perseguite (i dati possono essere comunicati e, ove previsto dalla legge,
diffusi, a soggetti pubblici o privati, nei limiti strettamente necessari per le
finalità perseguite).
In
ordine al CED della Cassazione, il Garante aveva sottolineato l'esigenza di
assicurare un uso legittimo dei dati personali consultati nelle banche dati da
parte degli utenti, in particolare per la consultazione di provvedimenti
giudiziari che riportano generalità delle parti e dati riferiti a particolari
condizioni o status, anche di natura sensibile. I dati consultabili
attraverso l'accesso al CED, aveva ribadito il Garante, potevano essere
utilizzati dagli utenti per scopi di documentazione e ricerca in ambito
giudiziario o professionale, di studio o per eventuali statistiche, ma non
anche, in mancanza di una specifica previsione e di una previa informativa agli
interessati, per altre finalità indebite, quali, ad esempio, il monitoraggio
della giurisprudenza di alcuni uffici giudiziari diretta alla "profilazione"
del comportamento del singolo imputato o magistrato o la valutazione a fini
disciplinari della produttività dell'organo decidente.
3. In generale, i trattamenti per ragioni di giustizia nel d.lgs. 30 giugno
2003, n. 196.
Con riferimento ai
trattamenti in ambito pubblico esclusi dall'applicazione della legge n. 675
del 1996 (e quindi anche per quelli per ragioni di giustizia), il legislatore
aveva delegato il Governo, con la legge 31 dicembre 1996, n. 676, al "pieno
recepimento" dei principi desumibili dalla legislazione in materia di
tutela delle persone e di altri soggetti rispetto al trattamento dei dati
personali. La nuova normativa doveva dettare anche una disciplina per favorire
lo sviluppo dell'informatica giuridica.
Stante
la mancata attuazione della suddetta delega, veniva emesso un nuovo
provvedimento di delega con la legge 6 ottobre 1998, n. 344, anchesso inevaso
dal Governo. Con la legge 24 marzo 2001, n. 127, il legislatore concedeva un
nuovo termine per l'attuazione delle deleghe oramai scadute, conferendo nel
contempo al Governo una nuova ed autonoma delega per l'emanazione di un testo
unico delle disposizioni in materia di tutela delle persone e di altri soggetti
rispetto al trattamento dei dati personali e delle disposizioni connesse,
coordinandovi le norme vigenti ed apportando alle medesime le integrazioni e
modificazioni necessarie al predetto coordinamento o per assicurarne la migliore
attuazione.
Mentre le precedenti deleghe venivano inutilmente a scadenza, solo la seconda veniva
prorogata dal legislatore (fino al 30 giugno 2003) con la legge 3 febbraio 2003,
n. 14, allo specifico fine di "consentire il previo recepimento della
direttiva 2002/58/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 12 luglio 2002,
relativa al trattamento dei dati personali. Tale direttiva peraltro aveva la
dichiarata finalità di armonizzare le disposizioni degli Stati membri in tema
di privacy con specifico riguardo al trattamento dei dati
personali nel settore delle comunicazioni elettroniche e per assicurare la
libera circolazione di tali dati e delle apparecchiature e dei servizi di
comunicazione elettronica all'interno della Comunità.
Sulla
base di tale quadro normativo, veniva quindi varato il d.lgs. 30 giugno 2003, n.
196.
Per quanto attiene al trattamento di dati personali per "ragioni di
giustizia" (artt. 46-49), il Codice accoglie sostanzialmente la soluzione
interpretativa fatta propria dal Garante, identificando tali trattamenti in
quelli direttamente correlati alla trattazione giudiziaria di affari e di
controversie, o che, in materia di trattamento giuridico ed economico del
personale di magistratura, hanno una diretta incidenza sulla funzione
giurisdizionale, nonchè nelle attività ispettive su uffici giudiziari (art.
47, comma 2). Restano pertanto esclusi, come chiarito dalla Relazione di
accompagnamento al Codice, i trattamenti relativi all'ordinaria attività
amministrativo-gestionale di personale e mezzi, rispetto ai quali trova
applicazione la ordinaria disciplina dei trattamenti in ambito pubblico.
Capovolgendo
l'impostazione della previgente normativa, viene stabilito in linea di
principio l'applicabilità ai trattamenti per ragioni di giustizia, salvo
limitate eccezioni, dell'intero corpo delle norme del testo unico (art. 47,
comma 1).
Tra
le disposizioni non applicabili ai trattamenti suddetti si pongono in
particolare quelle dettate dagli artt. 9 (modalità di esercizio dei diritti
dell'interessato), 10 (riscontro dell'interessato), 12 (codici di
deontologia e buona condotta), 13 (informativa), 16 (cessazione del
trattamento), 18-22 (regole specifiche per i soggetti pubblici), 37 e 38 commi
da 1 a 5 (notificazione del trattamento), 39-45 (obbligo di comunicazione e
regole per il trasferimento dei dati all'estero), 145-151 (norme sulla tutela
dinanzi al Garante). Secondo la Relazione di accompagnamento al Codice, si
tratta di disposizioni "non agevolmente compatibili con un efficace
perseguimento dell'interesse pubblico perseguito".
Al
riguardo, va segnalato il recente provvedimento del 7 febbraio 2005, con il
quale il Garante ha escluso l'ammissibilità di un ricorso, avanzato ex
art. 145 del Codice da una persona sottoposta a procedura esecutiva immobiliare
dinnanzi ad un ufficio giudiziario, diretto ad ottenere il blocco o la
trasformazione in forma anonima dei dati personali che la riguardavano,
contenuti in alcuni documenti diffusi sul sito Internet del medesimo
ufficio. Il Garante, nel rilevare che nei confronti di tale tipologia di
trattamenti, ai sensi dell'art. 8, comma 2, lettera g), del Codice, i diritti
di cui al citato art. 7 non potevano essere esercitati con richiesta rivolta
direttamente al titolare o al responsabile o con ricorso ai sensi dell'art.
145, ha deciso di avviare gli accertamenti nei modi di cui all'art. 160 del
Codice sul trattamento dei dati personali effettuati dall'ufficio giudiziario
interessato. Per quanto riguarda, poi, le informazioni contenute nei
provvedimenti dell'autorità giudiziaria che dispongono il giudizio penale, il
Garante ha ribadito che, fermo restando il rispetto dei principi di pertinenza e
di non eccedenza, la normativa in materia di protezione dei dati non pregiudica
l'esercizio dell'attività giudiziaria, in particolar modo quando il codice
di rito preveda specificamente l'inserimento in tali provvedimenti di precise
informazioni per determinate finalità processuali.
Circa
gli esiti dei controlli effettuati dal Garante, la norma da ultimo citata,
mentre significativamente da un lato prevede che la validità, l'efficacia e
l'utilizzabilità di atti, documenti e provvedimenti nel procedimento
giudiziario basati sul trattamento di dati personali non conforme a disposizioni
di legge o di regolamento restano disciplinate dalle pertinenti disposizioni
processuali nella materia civile e penale (art. 160, ult. comma), dall'altro
stabilisce che, nel caso in cui il trattamento risulti non conforme alle
disposizioni di legge o di regolamento, il Garante indichi all'ufficio
giudiziario "le necessarie modificazioni ed integrazioni",
verificandone l'attuazione (art. 160, comma 2).
Nulla
si prevede invece in ordine alle conseguenze nel caso in cui questultimo non
si adegui alle prescrizioni del Garante. In ogni caso, ove accertata dal Garante
la violazione di legge o di regolamento, le parti possono agire con autonoma
azione di responsabilità civile di danno anche non patrimoniale.
Particolari
regole sono contenute nel Codice in ordine a talune attività giudiziarie che
avevano creato maggiori problemi in tema di privacy, quali le
notificazioni e le vendite giudiziarie.
In
ordine alle prime, il Codice, intervenendo sulle relative disposizioni
processuali (art. 174), adotta il principio secondo il quale, qualora la
notificazione (sia in ambito civile che penale, nonchè riguardante sanzioni
amministrative e di atti e documenti provenienti da organi delle pubbliche
amministrazioni, se effettuate a soggetti diversi dagli interessati) non possa
essere eseguita nelle mani del destinatario, la copia dell'atto deve essere
consegnata in busta sigillata e su questa non devono essere apposte indicazioni
da cui possa desumersi il contenuto dell'atto stesso.
è
stata modificata anche la disciplina sulla pubblicazione degli avvisi
concernenti le vendite giudiziarie (art. 174), prevedendo che negli avvisi
relativi all'esecuzione immobiliare debba essere omessa l'indicazione del
debitore e che nella vendita senza incanto i dati relativi al debitore possano
essere forniti dalla cancelleria del tribunale a chiunque vi abbia interesse.
Per
quel che attiene al regime di riservatezza degli atti trattati in ambito
giudiziario, va rammentata la regola generale secondo cui non sussistono le
garanzie della privacy per quei "dati provenienti da pubblici
registri, elenchi, atti o documenti conoscibili da chiunque, fermi restando i
limiti e le modalità che le leggi, i regolamenti o la normativa comunitaria
stabiliscono per la conoscibilità e pubblicità dei dati" (artt. 24, comma
1, lettera c; 38, comma 6; 43, comma 1, lettera f). Peraltro, nella vigenza
della precedente normativa, il Garante aveva affermato che il calendario dei
processi, le udienze e le sentenze sono pubblici e conoscibili da chiunque vi
abbia interesse, secondo le modalità regolate dal codice di rito e dalle altre
norme processuali. Così aveva ritenuto lecita la diffusione della notizia della
richiesta di rinvio a giudizio, anche quando l'imputato sia indicato
nominativamente, in quanto la diffusione di tale tipo di notizia non risultava
vietata da norme specifiche.
Maggiori
restrizioni sono previste dal Codice nel caso del trattamento, fuori
dall'ambito sopra descritto, dei c.d. "dati giudiziari", definiti
dall'art. 4 come "i dati personali idonei a rivelare provvedimenti di cui
all'articolo 3, comma 1, lettere da a) a o) e da r) a u), del d.P.R. 14
novembre 2002, n. 313, in materia di casellario giudiziale, di anagrafe delle
sanzioni amministrative dipendenti da reato e dei relativi carichi pendenti, o
la qualità di imputato o di indagato ai sensi degli articoli 60 e 61 del codice
di procedura penale". La definizione è stata aggiornata a seguito
all'adozione del testo unico in materia di casellario giudiziale ed estesa,
rispetto alla previgente normativa, alla qualità di imputato o di indagato,
senza prendere peraltro in considerazione le violazioni amministrative (secondo
la Relazione di accompagnamento, in attuazione di quanto previsto dalla
direttiva 95/46/CE, che all'art. 8, comma 5, si riferisce soltanto ai
trattamenti riguardanti "infrazioni").
Il Codice considera legittimo il trattamento di tali dati da parte di soggetti
pubblici o privati "solo se autorizzato da espressa disposizione di
legge" o da "provvedimento del Garante che specifichino le finalità
di rilevante interesse pubblico del trattamento, i tipi di dati trattati e di
operazioni eseguibili" (artt. 21 e 27).
Nel
caso di soggetti pubblici, è rafforzato il principio di proporzionalità nel
trattamento di queste informazioni, ritenendosi legittimo il trattamento dei
soli dati giudiziari "indispensabili per svolgere attività istituzionali
che non possono essere adempiute, caso per caso, mediante il trattamento di dati
anonimi o di dati personali di natura diversa" (art. 22) .
Tra
le autorizzazioni di ordine generale rilasciate dal Garante per il trattamento
di dati giudiziari da parte di soggetti pubblici o privati vi è quella relativa
alla "documentazione giuridica", secondo cui è autorizzato "il
trattamento, ivi compresa la diffusione, di dati per finalità di
documentazione, di studio e di ricerca in campo giuridico, in particolare per
quanto riguarda la raccolta e la diffusione di dati relativi a pronunce
giurisprudenziali", se pur con la prescrizione di tipo generale che possono
essere trattati "i soli dati essenziali per le finalità per le quali è
ammesso il trattamento e che non possano essere adempiute, caso per caso,
mediante il trattamento di dati anonimi o di dati personali di natura
diversa". A differenza degli altri trattamenti dei dati giudiziari, i dati
da utilizzare per la documentazione giuridica, come rimarca l'autorizzazione
suddetta, non devono essere forniti dagli interessati, nel rispetto della
disciplina prevista dal d.P.R. 14 novembre 2002, n. 313. In ogni caso,
l'autorizzazione richiama gli artt. 51 e 52 del Codice, che dettano una
particolare disciplina per la diffusione dei dati giudiziari in via informatica.
4. L'anonimizzazione dei dati identificativi degli interessati nel Codice
sulla privacy.
E in questo ambito che il Codice affronta il tema della anonimizzazione dei dati
identificativi degli interessati, nel contesto di una specifica disciplina
dettata con riguardo alla informatica giuridica (artt. 51 e 52).
Il cardine di questa disciplina è rappresentato da un principio che coniuga la
tutela della riservatezza con la promozione e l'apertura: le norme degli artt.
51 e 52 non pongono, nel loro complesso, divieti e restrizioni, ma tendono (è
la stessa Relazione che accompagna il Codice a riconoscerlo) "ad
agevolare lo sviluppo dell'informatica giuridica nel rispetto dei principi in
materia di protezione dei dati personali". La finalità ispiratrice, in
altri termini, è quella di "favorire la conoscibilità dei dati
identificativi delle decisioni giudiziarie adottate mediante reti di
comunicazioni elettronica anche attraverso il sito Internet
dell'autorità giudiziaria".
A tale riguardo il legislatore delegato si è attenuto al criterio direttivo
specificamente previsto dalla legge di delegazione: l'art. 1, comma 1, lettera
l), della legge n. 676 del 1996, come si è visto, prevedeva infatti che
il Governo, nell'emanare la nuova disciplina in materia di tutela delle
persone e di altri soggetti rispetto al trattamento dei dati personali, dovesse
dettare norme dirette a "favorire lo sviluppo dell'informatica
giuridica".
Con riguardo alla diffusione delle sentenze e delle altre decisioni dell'autorità
giudiziaria, esse a termini dell'art. 51, comma 2, del Codice
"sono rese accessibili anche attraverso il sistema informativo e il sito
istituzionale della medesima autorità nella rete Internet, osservando le
cautele previste" nel successivo art. 52.
La possibilità di accedere alle sentenze e alle altre decisioni
dell'autorità giudiziaria "di ogni ordine e grado" non è
circoscritta ai soggetti portatori di uno specifico interesse, ma in linea
con il carattere pubblico delle sentenze e degli altri provvedimenti con cui si
conclude il grado di giudizio a chiunque. Infatti, a differenza di
quanto avviene con riguardo ai dati identificativi delle questioni pendenti
i quali, ai sensi del comma 1 dello stesso art. 51, "sono resi accessibili a
chi vi abbia interesse anche mediante reti di comunicazione elettronica, ivi
compreso il sito istituzionale della medesima autorità nella rete Internet",
per le sentenze e per le altre decisioni dell'autorità giudiziaria il
d.lgs. n. 196 del 2003 non contiene alcuna disposizione limitativa. Inoltre le
sentenze e gli altri provvedimenti giurisdizionali, consultabili nella rete
attraverso l'accesso al sito istituzionale dell'autorità giudiziaria,
possono essere utilizzati dagli utenti per le finalità più varie: per scopi
di documentazione e ricerca in ambito giudiziario o professionale, di studio o per
eventuali statistiche.
Le cautele da osservarsi nella diffusione delle decisioni sono tipiche
e ad un tempo speciali. Infatti:
non riguardano tutti i dati (ad esempio, la particolare vicenda attinente allo
stato di salute o alla vita sessuale di un certo soggetto o alla
discriminazione religiosa o razziale subita da tal altro soggetto), ma
soltanto i dati identificativi dell'interessato, per tali
intendendosi ai sensi dell'art. 4, comma 1, lettera c), del
decreto legislativo i dati personali che permettono l'identificazione
dell'interessato;
non concernono tutte le decisioni, ma soltanto quelle nelle quali per legge o
secondo l'apprezzamento del giudice si pone un'esigenza di
"oscuramento" dei dati identificativi dell'interessato.
In linea generale, pertanto, le sentenze e gli altri provvedimenti giurisdizionali
possono essere diffusi, anche attraverso il sito istituzionale nella rete Internet,
nel loro testo integrale, completo oltre che dei dati riferiti a
particolari condizioni o status, anche di natura sensibile, delle
generalità delle parti e dei soggetti coinvolti nella vicenda giudiziaria.
Questa conclusione è agevolmente ricavabile dal comma 7 dell'art. 52 del
Codice, ai cui sensi "Fuori dei casi indicati nel presente articolo [il
quale si riferisce ai dati identificativi degli interessati] è ammessa la diffusione
in ogni forma del contenuto anche integrale di sentenze e di altri
provvedimenti giurisdizionali".
L'art. 52 del Codice mantiene ferme le disposizioni concernenti la redazione e il
contenuto delle sentenze, sicchè la pronuncia, nel momento in cui viene redatta
e depositata in cancelleria, deve contenere l'indicazione del nome delle
parti, nonchè dei loro difensori e del giudice (cfr. art. 133 cod. proc. civ. e
artt. 536 e 545 cod. proc. pen.). Il Codice in materia di protezione dei dati
personali (art. 52, comma 1) fa infatti espressamente salvo quanto previsto
dalle disposizioni dei codici di procedura concernenti la redazione, il
contenuto e, aggiungeremmo noi, la pubblicazione di sentenze e di altri
provvedimenti giurisdizionali dell'autorità giudiziaria di ogni ordine e
grado; esso interviene soltanto a disciplinare il momento della diffusione
della sentenza o del provvedimento giurisdizionale per finalità di
informatica giuridica.
A differenza dell'esperienza nordamericana (nella quale, in materie
particolarmente sensibili, è data la possibilità di agire dietro pseudonimo),
il nostro sistema, così come quello degli altri paesi europei, non conosce,
neppure con riguardo al processo civile, la possibilità della omissione di dati
anagrafici dell'attore (o del convenuto) già al momento dell'introduzione
della domanda.
La possibilità di rendere in forma anonima i dati personali contenuti in una
sentenza si ha soltanto al momento della sua riproduzione in qualsiasi forma per
finalità di informazione giuridica su riviste giuridiche, supporti elettronici
o mediante reti di comunicazione elettronica.
L'art. 52 definisce i casi nei quali è garantito il diritto all'anonimato
delle parti in giudizio o dei soggetti interessati.
Il sistema si articola su due livelli.
A) Il primo livello affida all'intervento del giudice l'anonimizzazione
delle generalità e di altri dati identificativi. Sussistendo motivi
legittimi che andranno esplicitati, l'interessato (non solo, quindi, la
parte del giudizio) può chiedere, mediante istanza scritta depositata nella
cancelleria o segreteria dell'autorità procedente prima che sia
definito il relativo grado di giudizio, che sull'originale della sentenza o
del provvedimento sia apposta, a cura della cancelleria o segreteria, un'annotazione
volta a precludere, appunto in caso di riproduzione della sentenza o
provvedimento in qualsiasi forma, per finalità di informazione giuridica su
riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione
elettronica, l'indicazione delle generalità e di altri dati identificativi
del medesimo interessato riportati sulla sentenza o provvedimento.
Su tale istanza provvede in calce con decreto, senza ulteriori formalità,
l'autorità che pronuncia la sentenza o adotta il provvedimento. La medesima
autorità può disporre d'ufficio l'anonimizzazione a tutela dei
diritti o della dignità degli interessati.
Il diritto dell'interessato a chiedere che eventuali riproduzioni del
provvedimento avvengano con l'esclusione delle sue generalità deve essere
funzionalmente agganciato alla presenza di motivi legittimi.
E' stata affacciata, in dottrina, la tesi secondo cui il giudice non potrebbe
sindacare "un atto di disposizione di un proprio diritto, autonomo",
quale quello alla privacy, ma debba "provvedere, a semplice
richiesta dell'interessato, all'annotazione dell'anonimato".
La tesi non è condivisibile, perchè in tal modo "si finirebbe per
legittimare una sorta di signoria assoluta ed esclusiva sui dati personali che
collide con l'intero spirito della disciplina della privacy, prima
ancora che con la lettera della legge e con le esigenze di giustizia ed
efficienza sottese alla sua implementazione pratica. In particolare, eliminando
il sindacato sui motivi legittimi si vanificherebbe quella difficile ricerca di
un equilibrio tra il rispetto della privacy e le esigenze fondamentali di
controllo sulla trasparenza e l'imparzialità dell'attività
giudiziaria".
L'autorità giudiziaria dovrà pertanto valutare in concreto i motivi legittimi
addotti dall'interessato, bilanciando il principio della generale conoscibilità dei
provvedimenti giurisdizionali e del contenuto integrale delle sentenze, quale
strumento di democrazia e di informazione giuridica, con la tutela del singolo.
Ne consegue che l'anonimizzazione, da intendere come soluzione "possibile
ma non sempre necessaria e soprattutto non automatica", non sembra che
possa essere disposta dal giudice sulla base della semplice affermazione
dell'istante: occorre che ci si trovi in presenza di circostanze particolari e
di motivi debitamente giustificati, che vanno oltre il mero interesse al
riserbo. In definitiva, e posto che l'interessato non potrà limitarsi,
nella sua istanza, ad un generico richiamo alla locuzione legislativa,
l'omissione dell'indicazione delle generalità e dei dati identificativi
potrà essere disposta ogniqualvolta dalla diffusione completa della sentenza o
di altro provvedimento giurisdizionale derivi un pericolo di pregiudizio per i
diritti e le libertà fondamentali o per la dignità dell'interessato.
In questo senso può trarsi spunto dall'art. 47 delle Rules della Corte
europea dei diritti dell'uomo: "Applicants who do not wish their
identity to be disclosed to the public shall so indicate and shall submit a
statement of the reasons justifying such a departure from the normal rule of
public access to information in proceedings before the Court. The President of
the Chamber may authorise anonymity in exceptional and duly justified
case".
Ulteriori
argomenti esegetici possono essere desunti dagli approdi del dibattito formatosi
in merito al generale diritto riconosciuto all'interessato di ottenere la
trasformazione in forma anonima dei propri dati personali e di opporsi al loro
trattamento, previsto sin dalla disciplina previgente tra i diritti della
persona (e ora disciplinato dall'art. 7, comma 4, del Codice, applicabile,
come si è visto, anche per i trattamenti per "ragioni di giustizia").
Mentre
il diritto di ottenere la trasformazione in forma anonima dei propri dati
personali è esercitabile solo in presenza di dati trattati "in violazione
di legge, compresi quelli di cui non è necessaria la conservazione in relazione
agli scopi per i quali i dati sono stati raccolti o successivamente
trattati", la facoltà di opporsi in tutto o in parte al trattamento viene
fondata sull'esistenza di "motivi legittimi" al trattamento dei dati
personali, ancorchè pertinenti allo scopo della raccolta. Al riguardo, la
direttiva europea 95/46/CE, mentre da un lato ha chiarito, al Considerando 45,
che l'opposizione può riguardare anche il trattamento lecito dei dati
personali (ad es. per ragioni di interesse pubblico o nell'esercizio di una
funzione pubblica), dall'altro, all'art. 14, ha fondato tale diritto su
"motivi preminenti e legittimi, derivanti dalla sua situazione
particolare". Ed è alla luce di questa precisazione che la dottrina ha
definito l'ambito di esercizio del diritto di opposizione nella normativa
interna, orientando la protezione dei dati "verso una personalizzazione
della tutela che offre l'opportunità di modellare case by case un
impianto normativo dettagliato, ma composto pur sempre di principi
generali". La stessa normativa comunitaria invero pone tra i suoi
principi-cardine quello della necessità di un bilanciamento in
concreto dei contrapposti interessi in gioco (art. 7, lettera f, della
citata direttiva), principio espresso nella legislazione interna prima
nell'art. 20, lettera h-bis) della legge n. 675 del 1996 a seguito
della novella introdotta dall'art. 7, comma 2, del d.lgs. 28 dicembre 2001, n.
467, ed ora nell'art. 24, lettera g), del Codice. Si tratterebbe quindi di
contemperare caso per caso il diritto di informare ed essere informati
con i diritti e le libertà fondamentali.
Il richiamo ad una valutazione in concreto degli opposti interessi è stata tra
l'altro fatta propria dalla giurisprudenza amministrativa formatasi in tema di
accesso ai dati sensibili: il Consiglio di Stato ha sostenuto che tale
valutazione deve essere fatta in concreto, "in modo da evitare il rischio
di soluzioni precostituite poggianti su una astratta scala gerarchica dei
diritti in contesa" (Cons. Stato, Sez. VI, 30 marzo 2001, n. 1882 e 9
maggio 2002, n. 2542; Sez. V, 31 dicembre 2003, n. 9276). In merito, il
Garante ha ribadito la necessità che in ogni caso l'interessato specifichi in
maniera chiara e comprovi sufficientemente le motivazioni legittime
dell'opposizione, non potendosi accogliere una richiesta generica.
In
questa direzione sembra muoversi la prima applicazione dell'art. 52 del
Codice, ricavabile da una pronuncia della V Sezione civile di questa
Corte. Con decreto 13 gennaio 2005, la Corte ha respinto la richiesta di
un Comune, motivata sul pregiudizio che quest'ultimo avrebbe ricevuto con la
diffusione della sentenza che, in caso di soccombenza, avrebbe confermato
l'annullamento di avvisi di accertamento dell'ICI, paventando il pregiudizio
all'azione accertativa dell'Amministrazione nei confronti di altri
contribuenti. Nella specie la S.C. ha ritenuto che non poteva configurare un
legittimo motivo l'interesse di un ente pubblico ad evitare che i contribuenti
venissero a conoscenza di atti amministrativi illegittimi, costituendo al
contrario una diffusa conoscenza del mancato rispetto da parte
dell'amministrazione delle norme che regolano l'attività impositiva un
momento irrinunciabile della pretesa dei contribuenti ad un esercizio di tale
attività conforme ai principi di imparzialità e di legalità.
B)
In altri casi, e siamo al secondo livello di tutela l'anonimizzazione
dei dati identificativi, avviene in forza di un preventivo apprezzamento del
legislatore. Infatti il comma 5 dell'art. 52:
da un
lato fa ricognitivamente salvo quanto previsto dall'art. 734-bis
del codice penale relativamente al divieto di divulgazione delle generalità
delle persone offese da atti di violenza sessuale senza il consenso di
costoro;
dall'altro
prevede che, in caso di diffusione di decisioni giudiziarie, occorre
omettere in ogni caso, anche in mancanza della predetta annotazione,
"le generalità, altri dati identificativi o altri dati anche relativi
a terzi dai quali può desumersi anche indirettamente l'identità di minori,
oppure delle parti nei procedimenti in materia di rapporti di famiglia e
di stato delle persone".
Premesso
che la tutela della privacy di cui al comma 5 ha contorni più ampi di
quelli che derivano (ai sensi dei commi 1 e 2) per effetto dell'intervento, a
richiesta dell'interessato o d'ufficio, del giudice, giacchè nel primo caso
l'"oscuramento" concerne non solo le generalità e altri dati
identificativi dell'interessato, ma altresì altri dati anche relativi a
terzi dai quali può desumersi anche indirettamente l'identità dell'interessato;
i problemi interpretativi che la disposizione del comma 5 pone sono i seguenti:
se il
diritto all'anonimato che assiste il minore sia temporaneo o
permanente, se cioè riguardi il minore finchè egli non avrà
raggiunto la maggiore età ovvero precluda una volta per tutte, per il solo
fatto che la vicenda storicamente riguardava un minore, la diffusione della
decisione con l'indicazione delle generalità (e degli altri dati
concernenti il minore stesso o attraverso i quali lo stesso possa essere
identificato) anche quando questi avrà compiuto la maggiore età (in
ipotesi raggiunta nel corso del processo);
se per procedimenti
in materia di famiglia, nei quali la garanzia ex lege dell'anonimato
è riferita alle sole parti di quei giudizi, si intendano soltanto quelli in
cui si discutono aspetti personali o anche quelli dove vengono in rilievo
aspetti patrimoniali.
Con
riguardo alla questione sub (a) sembra preferibile la tesi estensiva. A
ciò inducono più ragioni:
innanzitutto
la ratio della norma. La vicenda giudiziaria che coinvolge a
qualunque titolo un minore (come autore di un reato, ma anche come vittima
di un episodio di malpractice medica o come soggetto interessato in
un procedimento riguardante la potestà genitoriale che si esercita nei suoi
confronti) è, per espressa volontà legislativa, un dato sensibile; il caso
della vita che ne è alla base può essere diffuso per finalità di
informazione giuridica, ma senza che sia possibile ricollegare quel caso
della vita a quel dato minore. Non v'è dubbio che in tal modo il
legislatore intende evitare la "scoperta" del minore ad opera di
terzi: il processo di maturazione del minore potrebbe essere profondamente
disturbato e deviato dal rendere pubblica la sua vicenda, posto che il
minore, per maturare gradualmente e armonicamente e, quindi, per costruire
la propria identità, deve avere intorno a sè silenzio e rispetto. Ma alla
regola normativa non è estranea l'idea di evitare che anche l'identità
che un soggetto ormai adulto si è costruita, possa essere messa a
repentaglio dalla divulgazione, a distanza di anni, di un caso della vita
che lo riguardava quando era minorenne;
un
argomento di carattere letterale. Quando il legislatore ha voluto
limitare temporalmente la riservatezza del minorenne, lo ha detto
espressamente. Se ne ha un esempio nell'art. 114, comma 6, del codice di
procedura penale, che circoscrive il divieto della pubblicazione delle
generalità e dell'immagine dei minorenni testimoni, persone offese o
danneggiati dal reato fino al momento essi "non sono divenuti
maggiorenni";
un
argomento di carattere sistematico. L'art. 50 del Codice in materia
di protezione dei dati personali collocato nell'ambito del medesimo
Titolo (il I, dedicato ai Trattamenti in ambito giudiziario) in cui
sono poste le disposizioni sull'informatica giuridica estende al
"caso di coinvolgimento a qualunque titolo del minore in procedimenti
giudiziari in materia diverse da quella penale" il divieto, dettato
dall'art. 13 del d.P.R. 22 settembre 1988, n. 448 (Approvazione delle
disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni), di
pubblicazione e divulgazione con qualsiasi mezzo di notizie o immagini
dirette a consentire l'identificazione del minore. E con riferimento alla
disposizione del processo penale minorile la dottrina ritiene che il divieto
riguardi anche l'ipotesi in cui il soggetto abbia raggiunto la maggiore
età al momento del processo, sul rilievo che sarebbe contraddittorio
prevedere (in particolare con le norme che disciplinano il casellario
giudiziale) da un lato che al raggiungimento della maggiore età quasi ogni
traccia del coinvolgimento in un procedimento penale del minore scompaia e
dall'altro consentire che venga pubblicizzato quello stesso fatto che deve
rimanere segreto.
Anche con riguardo alla questione sub (b) sembra preferibile la tesi estensiva,
quanto meno in quei casi in cui la controversia patrimoniale attinente ad un
rapporto di famiglia abbia un titolo personale. Nella vicenda che ha dato
luogo alla sentenza della I Sezione civile 7 giugno 2000, n. 7713 in tema di
risarcimento del danno esistenziale per l'ostinato rifiuto, da parte del
genitore giudizialmente dichiarato tale, di contribuire al mantenimento del
figlio naturale, la controversia civile, promossa dal figlio naturale frattanto
divenuto maggiorenne, esibiva un contenuto esclusivamente patrimoniale, e
tuttavia aveva come causa petendi la lesione del diritto fondamentale del
figlio naturale ad essere mantenuto dal proprio genitore (art. 30 Cost. e art.
261 cod. civ., in rapporto all'art. 147 cod. civ.). E così nel caso
affrontato dalla recente sentenza, sempre della I Sezione civile, 10 maggio
2005, n. 9801, in tema di risarcimento del danno non patrimoniale da lesione del
diritto alla sessualità del partner causato dalla mala fede del marito
che, prima della nozze, non aveva doverosamente informato la futura sposa della
grave anomalia sessuale da cui era affetto. Ancora, nelle cause sulla
ripartizione della pensione di reversibilità tra coniuge superstite e coniuge
divorziato, ai sensi dell'art. 9 della legge 1 dicembre 1970, n. 898 (nel
testo sostituito dall'art. 13 della legge 6 marzo 1987, n. 74), l'indagine
del giudice non è mai limitata soltanto alla verifica del dato estrinseco della
durata dei rispettivi matrimoni, ma ha un ambito più ampio, che va a lambire il
cuore delle relazioni personali: a quel riparto, difatti, non sono estranei
profili di solidarietà familiare, di soccorso verso il soggetto più debole e
di ancoraggio a relazioni personali più complesse. Del resto, la tesi che
vorrebbe restringere la tutela della privacy delle parti ai soli
procedimenti in materia di rapporti personali di famiglia condurrebbe ad
esiti irragionevoli: sarebbero coperti, in caso di diffusione del relativo
provvedimento giurisdizionale, i nomi delle parti in un procedimento di
separazione personale, in ipotesi consensuale, mentre non lo sarebbero i nomi di
quei medesimi coniugi quando uno di essi chieda il mutamento delle condizioni di
separazione, con riguardo all'assegno di mantenimento, perchè l'altro ha
instaurato una relazione more uxorio con un altro soggetto.
5. Modalità e ambito di protezione dei dati sensibili. In
particolare, i rapporti con la libertà di stampa.
L'art. 52 del Codice si occupa anche delle modalità operative attraverso
le quali avviene l'anonimizzazione dei dati identificativi degli interessati.
Si
è già visto che ove la tutela della privacy sia affidata ad un
intervento, su richiesta o dufficio, del giudice (sono i casi dei commi 1 e
2), questi dispone che sia apposta a cura della cancelleria o segreteria,
sull'originale della sentenza o del provvedimento, unannotazione volta a
precludere l'indicazione delle generalità e di altri dati identificativi in
caso di riproduzione della decisione in qualsiasi forma per finalità di
informazione giuridica.
Il
testo del decreto legislativo prevede anche l'espressione esatta da adottare
per tale annotazione, comprensiva del riferimento esplicito agli estremi
dell'art. 52 del Codice; precisa inoltre (al comma 4) che "in caso di
diffusione anche da parte di terzi di sentenze o di altri provvedimenti recanti
l'annotazione, o delle relative massime giuridiche, è omessa
l'indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi
dell'interessato".
Là
dove (ed è l'ipotesi del comma 5) la tutela dei dati identificativi è ex
lege, il dovere di anonimizzare i dati sensibili identificativi del
soggetto, allorchè si proceda alla diffusione del provvedimento giurisdizionale
(o della relativa massima), sorge "in ogni caso, anche in mancanza
dell'annotazione di cui al comma 2". Tuttavia ciò non toglie che,
ancorchè non necessaria, l'annotazione disposta giudice sia comunque
opportuna, soprattutto quando, ed è il caso della nostra Corte di cassazione,
le decisioni sono rese accessibili attraverso il sistema informativo e il
sito istituzionale dell'autorità giudiziaria. In mancanza di annotazione da
parte del giudice, infatti, si costringerebbe il personale che immette la
decisione nella rete Internet di verificare ogni volta (risolvendo i nodi
interpretativi di cui supra) se la sentenza o il provvedimento
giurisdizionale riguardi un procedimento concernente minori o, ancora, un
procedimento in materia di rapporti di famiglia.
L'anonimizzazione,
che si attua attraverso l'apposizione dell'annotazione "In caso di
diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi di",
non incide sulla pubblicazione dell'originale della sentenza (o di
altro provvedimento del giudice), che deve essere completo di tutti i dati
identificativi delle parti. Non sembra pertanto possibile redigere il testo del
provvedimento con le iniziali anzichè con le complete generalità.
Il rimedio dell'anonimato opera soltanto in caso di successiva divulgazione
della sentenza per finalità di informazione giuridica.
Si pongono, al riguardo, due problemi.
In primo luogo, si tratta di stabilire se il rilascio di copia della sentenza o di
altro provvedimento giurisdizionale in favore di un soggetto diverso dalla parte
del relativo procedimento e non titolare di uno specifico interesse processuale
sia, già, unattività di diffusione della decisione, e soggiaccia perciò
alla disciplina di cautela prevista dall'art. 52 del Codice in materia di
protezione dei dati personali.
Al quesito sembra doversi dare risposta negativa. In questa direzione induce
l'art. 4, comma 1, lettera m), del Codice, che per diffusione intende
"il dare conoscenza dei dati personali a soggetti indeterminati, in
qualunque forma, anche mediante la loro messa a disposizione o
consultazione". Laddove il rilascio di copia si appunta sempre in favore di
un soggetto determinato che ne abbia fatto apposita richiesta, il proprium
della diffusione consiste nel rendere conoscibile la decisione del giudice ad una
pluralità di soggetti indeterminati, così divulgandola e propagandola in
uno spazio via via più ampio.
Del resto, una conclusione siffatta ben si coordina con la previsione contenuta nel
comma 4 dell'art. 52, secondo cui "In caso di diffusione anche da
parte di terzi di sentenze o di altri provvedimenti recanti l'annotazione,
o delle relative massime giuridiche, è omessa l'indicazione delle
generalità e degli altri dati identificativi dell'interessato". Se anche
i terzi sono destinatari della prescrizione di omettere le generalità in
caso di diffusione, ciò significa che il rilascio al terzo, da parte del
cancelliere, di copia del provvedimento per uso studio non è, esso stesso, atto
del diffondere.
Il
secondo problema è se l'anonimizzazione delle generalità e di altri dati
identificativi per intervento del giudice, ai sensi dei commi 1 e 2 dell'art.
52 del Codice, operi direttamente anche rispetto alla pubblicazione per finalità
di giornalismo o di cronaca giudiziaria.
Anche
a questo interrogativo sembra doversi dare una risposta negativa.
Il
Codice prevede uno statuto particolare per l'attività giornalistica, che
rifugge dalla previsione di regole rigide e minuziose e che affida in prima
battuta il bilanciamento tra i diritti e le libertà allo stesso giornalista il
quale, in base ad una propria valutazione (che può essere sindacata),
acquisisce, seleziona e pubblica i dati utili ad informare la collettività su
fatti di rilevanza generale e d interesse pubblico, esprimendosi nella cornice
della normativa vigente e nel rispetto del proprio codice di deontologia. Esso
stabilisce che chi esercita l'attività giornalistica o altra attività
comunque riconducibile alla libera manifestazione del pensiero (inclusa
l'espressione artistica e letteraria, come ora precisato dall'art. 136 del
Codice) possa trattare dati personali anche prescindendo dal consenso
dell'interessato e, con riferimento ai dati sensibili e giudiziari, senza una
preventiva autorizzazione di legge o del Garante.
In
caso di diffusione o di comunicazione di dati, il giornalista è peraltro tenuto
comunque a rispettare alcune condizioni (art. 137, comma 3): i limiti del
diritto di cronaca e, in particolare, quello dell'essenzialità
dell'informazione riguardo a fatti di interesse pubblico, e i principi
previsti dal codice deontologico relativo al trattamento dei dati personali
nell'esercizio dell'attività giornalistica.
In
ordine ai dati giudiziari, il codice deontologico (art. 12), a sua volta, rinvia
al principio di essenzialità dell'informazione (art. 5), in modo da
evitare riferimenti a congiunti o ad altri soggetti non interessati ai fatti.
La
non diretta operatività all'attività giornalistica degli effetti
dell'anonimizzazione disposta ai sensi dell'art. 52, commi e 2, del Codice
ma, più limitatamente, l'affidamento all'autonomia e alla
responsabilità del giornalista, nel rispetto della legge e del codice
doentologico, dei risultati di quella ponderazione e di quel
bilanciamento sembra ricavarsi dal parere del Garante 6 maggio 2004 su Privacy
e giornalismo. Alcuni chiarimenti in risposta a quesiti dell'Ordine dei
giornalisti. Il Garante ha evidenziato la necessità che l'esigenza di
assicurare la trasparenza dell'attività giudiziaria e il controllo della
collettività sul modo in cui viene amministrata la giustizia debba comunque
bilanciarsi con alcune garanzie fondamentali riconosciute all'indagato e
all'imputato: la presunzione di non colpevolezza fino a condanna definitiva,
il diritto di difesa e il diritto ad un giusto processo. In particolare, la
diffusione dei nomi di persone condannate e, in generale, dei destinatari di
provvedimenti giurisdizionali, ad avviso del Garante, deve inquadrarsi
nell'ambito delle disposizioni processuali vigenti, di regola improntate ad un
regime di tendenziale pubblicità. Di guisa che sono ritenuti pubblicabili, ad
esempio, l'identità, l'età, la professione, il capo di imputazione e la
condanna irrogata ad una persona maggiorenne ove risulti la verità dei fatti,
la forma civile dell'esposizione e la rilevanza pubblica (anche solo in un
contesto locale) della notizia. Secondo il Garante, nella diffusione dei dati
dei condannati devono essere presi in considerazione il tipo di soggetti
coinvolti (ad esempio, persone con handicap o disturbi psichici, o
ancora, ragazzi molto giovani), il tipo di reato accertato e la particolare
tenuità dello stesso, l'eventualità che si tratti di condanne scontate da
diversi anni o assistite da particolari benefici (es. quello della non menzione
nel casellario), in ragione dell'esigenza di promuovere il reinserimento
sociale del condannato. Le medesime ragioni di tutela dei dati personali, ad
avviso del Garante, dovrebbero altresì prevalere nei casi in cui la vittima ha
manifestato la volontà che i propri dati non siano resi pubblici (fermo
restando il fatto che il giornalista può procedere alla pubblicazione dei
diversi dati anche in assenza del consenso da parte degli interessati). Tale
principio troverebbe, tra l'altro, fondamento nella possibilità, per ogni
soggetto interessato, di opporsi anche in anticipo per motivi legittimi alla
pubblicazione (art. 7, comma 4, lettera a, del Codice). Secondo il Garante, il
giornalista, nell'effettuare le valutazioni a lui rimesse, "non potrà
non tenere conto del bilanciamento di interessi effettuato in un altro fronte e
cioè che le sentenze pubblicate per finalità di informatica giuridica (non
giornaliste, quindi) dallo stesso ufficio giudiziario, oppure da riviste
giuridiche anche on-line, potranno in alcuni casi più delicati non
recare il nome di taluna delle parti o di terzi (minore, delicati rapporti di
famiglia, ecc.: art. 52 del Codice)".
Roma,
5 luglio 2005