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GLI STATUTI COMUNALI DI SANREMO
di Andrea Gandolfo

La prima attestazione di norme giuridiche e amministrative valide per i membri della comunità sanremese risale a due documenti del 26 giugno 1143, quando la Compagna e i consoli matuziani riconobbero l'arcivescovo di Genova Signore e Conte del borgo, promettendo nello stesso tempo di amministrare la giustizia in modo equo e imparziale, sulla base probabilmente di consuetudini tramandate per via orale attraverso il diritto romano o da usanze risalenti all'età longobarda; non si fa peraltro ancora alcun cenno a un corpus di leggi unitario, quello che diventerà la base giuridica dei futuri statuti comunali. Un giuramento simile a quello del 1143 venne pronunciato dagli uomini della Compagna di Sanremo il 14 febbraio 1217, e poi ripetuto il 15 maggio dello stesso anno di fronte al vescovo di Albenga. In quest'ultimo giuramento compare in particolare un riferimento esplicito all'amministrazione della giustizia cittadina, anche se non viene ancora specificato il contenuto delle norme applicate.
La prima menzione di veri e propri statuti locali è riportata nel giuramento di fedeltà all'arcivescovo di Genova pronunciato dai consoli sanremesi il 6 maggio 1225. In tale occasione i consoli promisero solennemente di amministrare la giustizia secondo le leggi romane e i capitoli della città di Sanremo. Risulta evidente come questi primi statuti derivassero direttamente dalla volontà dell'arcivescovo, che li compilava personalmente o li faceva compilare in base alle tradizioni e consuetudini generalmente accettate senza consultare giurisperiti che suggerissero provvedimenti particolari dettati dalla situazione locale.
Il 30 ottobre 1251 l'arcivescovo di Genova nominò podestà Lanfranco Usodimare, che giurò di osservare fedelmente gli statuti comunali, ai quali si riservò di apportare qualche modifica. Successivamente si ha notizia di un altro podestà, Rosso Salvago, che nel 1295 venne incaricato di amministrare la giustizia nel territorio sanremese.
In seguito alla cessione del paese da parte dell'arcivescovo Jacopo da Varagine ai genovesi Oberto Doria e Giorgio De Mari nel gennaio 1297, i sanremesi sentirono l'esigenza di una maggiore equità nell'amministrazione della giustizia, che venne così sottoposta ad un vasto disegno riformatore.
A partire dal 1298 vennero quindi introdotti nuovi capitoli a quelli già esistenti negli statuti, che non dovevano comunque essere un insieme organico di leggi, ma soltanto un elenco di norme sul pagamento delle gabelle, dei mutui e dei debiti contratti dai matuziani nei confronti dei due signori del borgo. Tale precarietà delle norme giuridiche sanremesi appare confermata anche dal giuramento prestato il 2 febbraio 1304 dal podestà Rolandino de Ugobonis, con il quale quest'ultimo promise di amministrare la giustizia nel modo che avrebbe ritenuto più conveniente, senza cioè avvalersi di un'organica legislazione scritta. La presenza di statuti comunali appare comunque confermata dal giuramento prestato da Giovanni Mansella il 20 ottobre 1319, con il quale l'inviato di Roberto d'Angiò si impegnava a mantenere gli statuti allora vigenti, segno evidente che questi erano già in vigore e si stavano arricchendo di nuove disposizioni. Quando poi, dieci anni dopo, i Doria ripresero possesso di Sanremo, anch'essi riconobbero la validità degli statuti locali, a cui il podestà da loro nominato avrebbe dovuto scrupolosamente attenersi nel reggere la giustizia.
Nell'ambito dei rapporti tra il Comune di Sanremo e la Repubblica di Genova, la sentenza arbitrale del 15 marzo 1361 stabilì poi una serie di nuove norme riguardanti gli statuti comunali, che, per essere validi, avrebbero dovuto essere sottoposti alla preventiva approvazione del doge. Da questa sentenza si apprende inoltre che, tra i documenti presentati dal Comune matuziano all'attenzione delle autorità genovesi, vi erano anche tre libri di papiro contenenti rispettivamente il testo degli statuti sanremesi del 1283, 1298 e 1334. Nel marzo del 1385 la Magistratura degli Otto Nobili confermò quanto stabilito nella sentenza del 1361, ribadendo i poteri spettanti al podestà, che avrebbe dovuto osservare gli statuti comunali e, in presenza di casi non contemplati da quest'ultimi, il diritto romano.
Nel 1432 il Parlamento di Sanremo incaricò un'apposita commissione, costituita da Giovanni Palmaro, Giacomo Fabiano, Antonio Barraba e Giovanni Battista Gioffredo, di redigere una nuova versione degli statuti. Dopo due anni di intenso lavoro, il nuovo testo, come prescriveva la legge, venne sottoposto all'approvazione delle autorità genovesi, che ne valutarono il contenuto giudicando in particolare se questo fosse compatibile con le leggi della Repubblica. Il 16 dicembre 1434 il doge Raffaele Adorno e il Consiglio degli Anziani approvarono quindi ufficialmente il testo degli statuti dichiarandoli validi per la giurisdizione matuziana. Il 1º maggio 1435 fu poi la volta del Parlamento sanremese, che, radunato nella chiesa di Santo Stefano alla presenza del podestà Curlo, approvò definitivamente il nuovo testo degli statuti.
Tuttavia, nel 1565 lo stesso organo, considerato superato il testo di cento trent'anni prima, avrebbe incaricato una commissione di riformatori di predisporre un aggiornamento degli statuti. I membri di tale commissione, nominati seduta stante dal Parlamento, si misero subito al lavoro e, nel corso di diverse adunanze, provvidero a correggere e modificare gli articoli degli statuti fino a giungere ad un nuovo testo, che però differiva soltanto in minima parte da quello del 1435. Il Parlamento, riunito nella chiesa di Santo Stefano al cospetto del podestà Alessandro Morteo, approvò quindi il testo dei nuovi statuti comunali nella seduta del 21 ottobre 1565.

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Il testo degli statuti cominciava con un'invocazione religiosa a Dio, alla Madonna, a tutti i santi del Paradiso, oltrechè ai santi Siro e Romolo, patroni della città. Era questa una premessa necessaria per conferire maggiore solennità al documento, che in questo modo veniva quasi venerato come una sorta di reliquia.
Dopo tale premessa, era inserito il calendario delle feste in cui la Curia (la pretura o tribunale) rimaneva chiusa. Durante queste festività, in genere di natura religiosa, tutte le attività della popolazione si fermavano per rispetto del riposo imposto dalla Chiesa e dalla legge comunale. In occasione di tali feste, che erano religiose ma avevano anche effetti civili, tutti i cittadini avevano l'obbligo di osservare scrupolosamente il divieto di astenersi da qualsiasi lavoro manuale, tenuto anche presente che erano previste pene severe per chi non avesse rispettato l'interdizione. Gli uffici della Curia rimanevano aperti al pubblico tutti i giorni non festivi dalle 6 alle 9 del mattino e dalle 15 alle 18, mentre il venerdì e il sabato e alla vigilia delle quattro feste della Madonna e delle feste dei santi in cui si digiunava, si osservava l'orario ridotto, che prevedeva soltanto l'apertura antimeridiana. Durante l'orario di apertura dovevano essere sempre presenti nella Curia il podestà, gli scribi, i clavigeri e i nunzi. La Curia era invece sempre chiusa dal 21 dicembre al 1º gennaio, il giorno dell'Epifania, la settimana precedente e quella successiva alla Pasqua, in occasione della festa della Pentecoste e nei tre giorni successivi a tale ricorrenza, il primo giorno di Quaresima, il sabato che precedeva quest'ultima e il giorno dell'Ascensione; gli uffici erano altresì chiusi per tutto il mese della vendemmia, dall'8 settembre all'8 ottobre.
Il testo vero e proprio degli statuti comunali si apriva con il giuramento che doveva prestare la "Giustizia", ossia le autorità preposte alla guida politica, amministrativa e giudiziaria della città. Compito precipuo di tali autorità era quello di difendere e far rispettare gli statuti secondo la loro forma genuina senza cavilli che potessero dar luogo ad interpretazioni false od erronee.
Al vertice dell'amministrazione era posto il podestà, cui era concesso il mero e misto imperio sulla comunità. Il podestà aveva l'obbligo di rimanere sempre in città, allontanandosene solo dietro permesso scritto del governo genovese.
Oltre al podestà, vi era poi il Parlamento, che era l'unico depositario del potere legislativo. Esso veniva convocato nella chiesa di Santo Stefano e alle sue sessioni pubbliche partecipavano tutti i capifamiglia della comunità dai 17 ai 70 anni.
Il potere esecutivo apparteneva invece al Consiglio comunale, che poteva esercitare però anche un potere legislativo: le sue delibere infatti potevano avere valore di decreto ed essere rispettate, previa la ratifica del Parlamento, come un capitolo degli statuti.
I consiglieri, in numero di dodici, ricoprivano la carica per un anno ed eleggevano annualmente tre boni viri e uno scriba, che avevano il compito di trascrivere sul libro del Comune tutti i decreti emanati dal Consiglio.
Altri funzionari erano i clavigeri, che, definiti "esecutori della Giustizia", avevano l'incarico di esigere le multe dai debitori insolventi entro il termine prefissato.
Ogni anno i consiglieri eleggevano un massaro, che svolgeva l'incarico di riscuotere le tasse (avarie e collette) e le somme provenienti dalle condanne, dalle gabelle, dai diritti di erbaggio e da altre spettanze comunali. Questo funzionario riscuoteva inoltre la quota spettante al Comune delle multe, eseguiva i pagamenti per le spese comunali, custodiva le principali misure, i vessilli comunali, le armi e gli altri mobili, e segnalava infine i debitori del Comune alle autorità giudiziarie, che stabilivano il termine entro il quale tali debitori dovevano pagare, pena il loro incarceramento fino al giorno dell'estinzione dei debiti.
I due sindaci, eletti annualmente dal Consiglio comunale, svolgevano invece la mansione di difendere i diritti e le ragioni del Comune in qualunque causa mossa contro di esso, o da questo contro cittadini privati.
La principale incombenza dei boni viri era viceversa quella di revisionare le vie pubbliche garantendone la perfetta efficienza e riparando quelle dissestate o rovinate.
Ai due mestrari, eletti anch'essi ogni anno dal Consiglio comunale, spettava il compito di rilasciare le licenze, controllare pesi e misure, sorvegliare il trasporto del legname, la praticabilità delle strade cittadine e denunciare bestemmiatori, giocatori e banditi. I loro poteri erano molto ampi e le multe da essi comminate erano immediatamente esigibili.
Tra le altre cariche pubbliche previste dagli statuti vi erano poi gli estimatori di beni mobili e immobili; i campari, ai quali era affidato il compito di sorvegliare le campagne e i boschi comunali; i nunzi e gli scribi.
Una norma particolare vietava inoltre agli ufficiali comunali di accettare doni; eventuali trasgressori a questo capitolo erano condannati a restituire questi doni e a versare una somma pari a sette volte il loro valore nelle casse comunali.

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Gli statuti regolavano inoltre in modo dettagliato le procedure relative all'amministrazione della giustizia.
Accusa e difesa dovevano essere precedute da un giuramento; successivamente le parti in causa e i loro testimoni si presentavano davanti al tribunale e venivano immediatamente giudicati. Era previsto peraltro il ricorso alla tortura per le persone di cattiva fama, mentre i delatori erano ricompensati con quattro soldi.
L'appello avverso la sentenza di condanna era ammesso soltanto quando quest'ultima non diventava definitiva, nel caso in cui si procedeva senza indugio all'esazione delle multe o alla carcerazione, che poteva essere tuttavia evitata dietro pagamento di cauzioni o pegni.
Il debitore incarcerato era mantenuto a spese del suo creditore, ma era obbligato a rimborsarlo una volta terminata la pena.
Nelle cause tra parenti si poteva ricorrere al concordato tramite due arbitri.
Era inoltre contemplato il diritto di rappresaglia quando un cittadino di Sanremo subiva un danno da un abitante di un altro Comune. La delicata materia in questione era tuttavia regolata da apposite convenzioni.

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I giovani che superavano i 15 anni di età dovevano inoltre prestare giuramento di sequella, l'organismo associativo tra tutti i cittadini che aveva rimpiazzato la Compagna. La sequella obbligava i suoi membri a lavorare gratuitamente per determinati periodi in caso di pubblica utilità. Con questo provvedimento si impegnavano i giovani ad obbedire al podestà e ad osservare gli statuti.
Per quanto concerne invece le successioni, l'eredità spettava ai figli maschi, mentre alle femmine era destinata una dote.
Gli orfani minori di 14 anni erano assegnati a un tutore scelto tra i parenti.
Quando due persone si sposavano, la moglie portava al marito la dote, che doveva essere restituita in rate annuali in caso di separazione consensuale. La donna accusata di adulterio perdeva la dote e veniva punita con la pena di morte per impiccagione, la stessa pena prevista per i violentatori di donne, che erano però condannati soltanto ad una multa di dieci lire se la vittima era una donna di cattiva fama. Le donne sorprese in adulterio e l'uomo trovato con lei potevano essere uccisi direttamente dal marito, mentre era proibito alle donne sposate assentarsi da casa per un periodo superiore ai quindici giorni, pena la perdita della dote.
Le attività agricole, che occupavano la maggior parte della popolazione sanremese, erano anch'esse regolate minuziosamente da appositi capitoli degli statuti. Gli orti dovevano essere recintati; il loro accesso era riservato solo ai proprietari e ai familiari, mentre l'usucapione dei terreni era consentita solo dopo dieci anni, se il proprietario era presente, o dopo vent'anni se questo fosse stato assente. Era severamente vietato inquinare le acque potabili e quelle destinate all'irrigazione; anche l'utilizzazione dei beodi era dettagliatamente regolata. Erano inoltre protetti gli alberi di noce, di castagno, di fico, le viti e gli ulivi. La coltivazione del grano e l'attività di mugnai e fornai erano sottoposte a controlli particolarmente rigidi. Le zone destinate al pascolo erano frequentate da greggi di pecore e capre, e anche da muli, asini e cavalli. La pesca e la caccia erano libere, tranne la caccia ai colombi selvatici, che era regolata da un apposito capitolo. Tra le principali attività agricole vi erano quelle delle palme e degli agrumi, che costituivano anche i principali prodotti di esportazione e la maggiore ricchezza del paese. Le più importanti attività artigianali erano costituite dalla lavorazione del cuoio, delle pelli, delle calzature, dalla produzione di cerchi da botte, barche, legname, lino, canapa, indumenti e cordami.
Anche l'attività marinara era scrupolosamente regolata da appositi capitoli, che prevedevano tra l'altro la presenza sulle navi più importanti di scribi con il compito di tenere la contabilità sulle entrate e le uscite di merce e denaro. Altre norme stabilivano che nessun forestiero poteva costruire navi con legname dei boschi sanremesi, mentre tale facoltà era concessa ai nativi, che però potevano vendere le imbarcazioni solo dopo cinque anni dalla loro costruzione; tutti coloro che avevano intenzione di costruire navi dovevano inoltre notificare ai priori del Consiglio comunale il giorno d'inizio dei lavori e giurare di rispettare i capitoli degli statuti comunali che regolavano tale attività. Alla redazione degli statuti del 1435 risale anche la prima attestazione della costruzione di un molo nella rada antistante Sanremo.

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I cittadini che trasgredivano alle norme statutarie venivano sottoposti ad un regolare processo, che poteva concludersi con una condanna o un'assoluzione.
Il furto di frutti e generi alimentari compiuto nelle ore diurne era punito con multe dall'importo progressivo, oltre al risarcimento del danno. Se i furti venivano compiuti invece durante le ore notturne, le multe venivano raddoppiate.
Il danneggiamento alle piante, tra cui palme e agrumi, era punito con sanzioni pecuniarie.
Il furto di bestiame prevedeva invece la tenuta di indagini e perquisizioni in casa dei sospettati, che potevano essere condannati a multe particolarmente salate; anche il furto di api e miele era punito con multe molto elevate, e se il ladro non poteva pagare le sanzioni era condannato al taglio di una mano.
Ai ladri venivano comminate pene varianti a seconda del furto commesso. Una multa fino a 10 lire condannava i colpevoli a essere frustati per le vie cittadine; per le multe da 15 a 50 lire, la pena era di essere marchiati in volto con un ferro rovente, mentre, oltre le 25 lire, la pena era l'impiccagione. Chi commetteva due furti successivi per un totale di 20 lire, veniva anch'egli impiccato.
In caso di litigi, chi provocava delle ferite era punito con una multa, oltre alla corresponsione del danno subito.
La rapina e l'omicidio erano puniti con la pena di morte tramite impiccagione e i beni del condannato venivano confiscati.
Numerosi delitti prevedevano inoltre la pena dell'esilio, cioè la forestazione, che comportava per i condannati l'immediato abbandono del territorio comunale, nel quale non potevano più rientrare.
Le pene corporali prevedevano la fustigazione per le vie della città, che veniva inflitta a coloro che non pagavano le multe loro inflitte e a chiunque avesse insultato dei pubblici ufficiali.
Era inoltre previsto il taglio del piede per coloro che avessero commesso furti con scasso senza pagare la relativa multa e il taglio della mano, oltre che per i ladri di api e miele, anche per i forestieri che avessero rimosso le pietre di un guado.
La tortura infine era contemplata nei confronti di imputati già condannati, di responsabili di incendi dolosi e, più in generale, degli uomini definiti di "cattiva fama".
La pena di morte si applicava, oltre ai casi già indicati, anche ai condannati per adulterio (se di sesso femminile) e violenza alle donne.

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A parte le norme derivanti dalle consuetudini tardomedievali, gli statuti sanremesi contenevano anche una serie di capitoli che risalivano all'età imperiale o altomedievale.
Tra questi, alcuni riguardavano il versamento delle decime a favore del parroco e dei canonici della chiesa di San Siro e del vescovo di Albenga, che sarebbero state oggetto di vivaci contestazioni popolari.
La revisione degli statuti effettuata nel 1565 non apportò infine sostanziali modifiche al testo predisposto nel 1435, tranne la rettifica di alcune norme sui furti campestri e sui danni provocati dai maiali lasciati liberi per le strade.
Gli Statuti comunali di Sanremo rappresentano in definitiva la sintesi più compiuta del grado di civiltà giuridica, politica, sociale ed economica raggiunto dal Comune attraverso una completa e organica raccolta di leggi e normative riguardanti la vita della comunità locale in tutti i suoi aspetti civili, sociali e religiosi.